Spesso salivo su Corno Grande, in qualunque condizione di tempo, con il sole e la bufera. Anzi, salire con la bufera era un modo di provare a me stesso la mia condizione di adattamento alla natura. Inoltre avevo scelto il modo solitario di affrontare la montagna. Erano ormai passati i tempi in cui arrampicavo con una comitiva ciarliera e ridanciana. Molti di quegli amici avevano rinunciato, alcuni erano morti. Non so come e quando era successo, ma qualcosa era cambiato profondamente in me. Ora non sopportavo più la presenza di un compagno, mi infastidiva, mi distraeva dai miei pensieri e dalla concentrazione necessaria per arrampicare. Quello che rimproveravo a tutti coloro che si accompagnavano con me era la più assoluta incapacità a comprendere la montagna. Essi non la sentivano parlare, non la sentivano respirare. Essi non comprendevano i messaggi scritti dal vento sulle creste, ne la voce sempre mutevole che si ode sotto gli scarponi quando si percorre un ripido pendio fortemente innevato, voce che ti avverte della presenza delle valanghe pronte a scaricarsi.
(All'uscita della via della "Virgola" . Prima spalla di Corno Piccolo)
Per tutti era indifferente camminare sul sentiero o sui fiori, o uccidere i più piccoli animali che miracolosamente sopravvivevano tra le rocce.Le stelle del cielo, di notte, durante i bivacchi, per loro erano solo dei puntini disegnati sulla fredda volta del cielo e l’urlo della bufera era solo un avvertimento a rientrare nel più breve tempo possibile per evitare di correre rischi.La nebbia era solo una situazione spiacevole perché non permetteva di vedere il cammino e l’avvicinarsi della notte era fonte di apprensione.Inoltre, visto che tutti gli uomini solo uguali, nessuno era esente dalla competizione, dall’agonismo. Ed ecco quindi discorsi sui tempi impiegati e sulla difficoltà delle vie che ognuno aveva affrontato, con la continua lotta sulla propria superiorità nei confronti degli altri. Con queste premesse, pian piano mi allontanai da loro, non mi riconoscevo più nell’ambiente di montagna del CAI. Pian piano evitai di frequentare le varie manifestazioni organizzate dal Club fino a dimettermi dal Corpo Nazionale Soccorso Alpino. Volevo essere solo. Più passava il tempo più la presenza dell’uomo, sui monti, mi infastidiva. Qualcuno intravvedeva in questi miei comportamenti una componente psicopatologica, argomento che qualche volta dovetti affrontare con i miei vecchi compagni e comunque con alcuni componenti del CAI quando decisi di abbandonare l’associazione ed il Soccorso Alpino. La cosa comunque non mi riguardava. Io non chiedevo nulla e non davo fastidio a nessuno. Semplicemente volevo essere solo e non partecipare alle guerre personali. Salivo le pareti solo quando sulle vie non c’era nessuno e se qualcuno mi seguiva o uscivo lateralmente o scendevo. Molte volte mi sono nascosto tra le rocce per far passare delle cordate che si tenevano in contatto continuo con gli amici alla base della pareti urlando a perdifiato e facendo una cronaca in diretta della loro scalata con commenti evidentemente fantasiosi. Io volevo sentire il calore delle rocce scaldate dal sole, volevo cercare i minuscoli fiori che nascevano tra le fessure e vederli sbocciare al primo sole, volevo plasmare il mio animo adattandolo alla natura. Andando da solo costringevo la mia mente ad ignorare la paura del fulmine e sentire la presenza della strada del ritorno anche quando era sepolta dalla neve e nascosta dalla bufera. Quando l’unico interlocutore è la natura non si può barare. Non si può dire alla montagna che siamo i “più forti”, essa riderebbe. Non si può credere di andare alla “conquista” della montagna. Siamo noi che siamo stati “conquistati” da essa. Fa parte della natura dell’uomo credere di possedere la terra, ma non è così, noi facciamo parte della terra, della montagna, dei deserti, del mare. Noi siamo tutt’uno con l’universo.
Dentro di noi c’è la comprensione della natura, perché noi “siamo” la natura. Man mano che passavano gli anni mi rendevo conto che contava moltissimo l’approccio mentale che portava poi alla stessa conclusione: andare in montagna. Non trovavo nessuno che avesse lo stesso mio pensiero. Non capite male, non voglio dire che il mio modo di pensare fosse quello giusto, che non si potesse andare sui monti senza pensarla come me. Voglio solo dire che per me i monti erano un essere vivente, che bastava ascoltare i sui umori per capire come comportarsi. Non c’era bisogno di corsi di alpinismo (pure ne ho fatti vari) se si sapeva ascoltare ciò che la montagna diceva. Io volevo solo andare con chi sapesse udire, ma non lo trovavo.
Un giorno arrampicavo sulla via della crepa. al Corno Piccolo. Il tempo era ottimo, il sole scaldava la roccia esposta a sud. Mi piaceva guardare in basso tra le gambe e cercare qualche piccolo animale tra le fessure. C’erano piccoli ragni e su di me volteggiavano i corvi. Avevo superato i due terzi della via quando pensai di spostarmi sulla destra, li dove sembra esserci un piccolissimo terrazzino sotto un tetto non troppo sporgente.
Volevo sedermi ad ammirare l’abisso, con le gambe penzoloni nel vuoto. Questa è una cosa che ho sempre amato. Passavo ore in questa posizione e spesso salivo in alcuni posti solo per sedermi sul vuoto. Per raggiungere l’ameno posto dovevo muovermi su minuscoli appigli verso destra cercando di seguire una minuscola fessura che già vedevo scomparire tra la compatta roccia del Piccolo. Mi accinsi quindi a fissare la corda per effettuare il traverso. Così assicurato la cosa era uno scherzo, quindi potetti notare, incastrato nella fessura, un sasso bianco, completamente diverso dalle rocce del monte. A ben vedere mi accorsi che si trattava di un uovo. Ma chi poteva averlo deposti lì? Non c’era un nido e, data l’inclinazione della parete, non poteva certo essere stata la madre. Doveva essere caduto da un nido più in alto, miracolosamente non si era rotto e si era incastrato nella fessura. Lo presi in mano, era caldo, il sole faceva il suo dovere, covandolo. Con cura meticolosa lo riposi nello zaino dopo aver mangiato una scatola di simmenthal che mi servì da protezione. Vista l’ora tarda, scesi subito e, a casa, costruii una incubatrice formata da una scatola di legno con due lampadine da 60 watt ed un vetro posto anteriormente che mi permetteva di controllare la temperatura dal termometro interno. Qualche giorno dopo mi accorsi che l’uovo si fissurava. Il pulcino stava uscendo. Non stavo più nella pelle. Non sapevo se dovevo aiutarlo ad uscire. Il becco rompeva il guscio.
Foto di Katja Galanti |
Nessun commento:
Posta un commento