Una notte su Corno Grande
Una sera di settembre decisi di salire su Corno Grande per dormire al bivacco Bafile. Il bivacco si trova sulla parete sud di Corno Grande a 2790 m . di quota su una costola che scende precipite dalla vetta Centrale e su cui si snoda la via Mallucci, di IV grado.
Il tempo non era particolarmente buono, grandi nubi si addensavano su m. Calvo, ma che importava? Tante volte ero salito con il cattivo tempo. Anzi, speravo proprio che il tempo fosse stato inclemente con tempesta o temporali, per potermi rintanare nel bivacco ed ascoltare il suono che, come corde di violino, i cavi che sorreggono il rifugio producono quando soffia il vento che li mette in vibrazione. La struttura in metallo dl bivacco si comporta come una cassa armonica amplificando i suoni composti da varie frequenze ed altezze a seconda di quale filo vibra e da quale direzione e forza soffia il vento. Allora, in piena bufera, ad orecchie non abituate sembra udire l’inferno. Il bivacco entra in risonanza e trema tutto, con rumore assordante. Spesso viene l’istinto di uscire all’aperto per rifugiarsi tra le rocce che appaiono più sicure. Con il tempo e l’esperienza, pian piano ci si tranquillizza, ci si rende conto che il bivacco è sicuro. Del resto è sempre lì da 40 anni, ha resistito a mille bufere senza mai un danno. Allora è meraviglioso sdraiarsi nella cuccetta quando fuori soffia la bufera, il rumore diviene un concerto di suoni armoniosi, il vento fa da solista.
Nelle tiepide notti di agosto, spesso sono salito lassù e mi sono sdraiato sul terrazzino antistante il rifugio ad ammirare il cielo stellato. Per me, appassionato di astronomia, in quei casi è difficoltoso anche solo riconoscere le costellazioni, tante sono le stelle visibili ad occhio nudo. Il cielo allora assume profondità, non è piatto come quaggiù. Le stelle più luminose sembra quasi poterle toccare, solo ad allungare la mano. Le stelle meno luminose danno la profondità. Su tutto si staglia netta la via Lattea, grande fiume dl cielo. Ho passato ore sdraiato sui materassino del rifugio, gli occhi al cielo, fino ad addormentarmi sotto le stelle. Decisi di prendere l’ultima funivia. Non portavo con me l’attrezzatura da bivacco, tanto meno abiti pesanti perché il rifugio era fornito di materassi e coperte. Mi avviai spedito mentre nubi dense si accalcavano sulla sella di m. Aquila. La cosa non mi interessava perché conoscevo ogni sasso e la via era ben tracciata, un vero e proprio sentiero. Il denso strato di nubi anticipò la notte ed il sole, un attimo prima di morire, fece capolino sotto la coltre nera creando un’atmosfera irreale. Al Sassone era quasi notte.
In poco tempo arrivai al bivacco dove mi aspettava la sgradita sorpresa di quattro romani logorroici. Il loro dialetto mi infastidiva, salutai ed andai via. La mia partenza fu scambiata per un segno di immodestia nei loro confronti, me lo dissero apertamente. Mi informarono con insistenza che anche loro sarebbero stati in grado di muoversi sulla montagna, nel buio, ma dovevano riposarsi per poter effettuare, in mattinata una difficile ascensione in roccia. Quei discorsi mi convinsero a fuggire ancora più precipitosamente. Alla Comba Detritica rallentai il passo, le loro voci si erano improvvisamente spente. Forse si erano rintanati nel rifugio serrando la porta (così io l’avevo trovata al mio arrivo) quasi per tener fuori i fantasmi o i demoni.
Mi fermai sul belvedere e presi tempo per decidere sul da farsi. Senza attrezzatura, solo con la giacca della tuta, non avrei potuto dormire all’aperto con il temporale in arrivo e la temperatura in discesa vertiginosa che avrebbe sicuramente trasformato in grandine o neve qualunque tipo di precipitazione. Molto meglio tornare in albergo, a Campo Imperatore. Poi cambiai idea e mi avviai verso il rifugio Garibaldi, a Campo Pericoli.
Chiaramente trovai la porta chiusa dal lucchetto la cui chiave è a disposizione al CAI a chiunque voglia servirsene. La parte posteriore del rifugio, comunque, era aperta e piena di sacchi di cemento e teli di plastica perché a quel tempo il rifugio era in fase di ristrutturazione (fu poi inaugurato nel 1976). Dopo alcuni tentativi di prendere sonno sui sacchi di cemento, pensai di avvolgermi nei teli di plastica per cercare di disperdere meno calore e di porre fine al tremito incessante che si era impadronito di me.
Ogni tanto mi alzavo e facevo una breve corsetta attorno al rifugio per scaldarmi un po, mentre radi fiocchi di neve scendevano portati dal vento. Dopo un ennesimo tentativo di prendere sonno decisi di porre fine a quel supplizio. Uscii e mi incamminai in direzione della direttissima, dritto verso la vetta. Ora il cielo sembrava un po meno coperto e si intravvedeva qualche stella tra le nubi. La luna era già tramontata e tutto era di un buio senza fine. Conoscevo l’inclinazione del terreno su cui camminavo e quindi mi tuffai senza indugio nella direttissima. Il cielo improvvisamente si rasserenò. Comparvero tutte le stelle e i miei occhi abituati al buio colsero quella fioca luce come un lampione. Sembrava addirittura che le rocce facessero ombra. Fu un sogno salire sulla direttissima in quelle condizioni, con un silenzio irreale. Il vento taceva, non un battito di ali, non un ronzio.
Il rumore dei miei piedi mi sembrava una profanazione. Arrivai alla vetta che si indovinava appena un lieve chiarore verso la costa iugoslava. Mi sedetti sulle rocce della cima, li dove sembra una panchina volta verso la vetta orientale e quindi verso l’aurora. A quel tempo ero molto giovane e lo stomaco reclamava prepotentemente i suoi diritti per cui tirai fuori un dignitoso pane e formaggio a mangiai avidamente tagliando grandi fette con il mio inseparabile coltello da boy scout. Questa volta, a causa della improvvisa partenza, avevo dovuto rinunciare alle più sostanziose sagnette materne. Distratto dal cibo non mi accorsi che il sole stava sorgendo. Un minuscolo raggio mi inondò improvvisamente il viso. Il sole sorgeva sul mare, all’orizzonte. Il cielo era terso, senza un minimo di foschia ed ai lati del sole nascente si intuiva la costa slava. Il timido raggio fu raggiunto in pochi istanti da un fiume rosso che si sprigionava dal punto dove era comparsa la prima luce. Ancora non compariva il disco solare e già il cielo era inondato di luce, con dominante rossa verso l’aurora, che poi sfumava, passando per tutti i colori dell’iride, fino a stemperarsi nel blu e infine nel nero, a ovest. Poi il cielo esplose, il disco solare prepotentemente instaurava il suo dominio. Un timido arco lucente precedette di poco l’apparire del disco.
Poi, come un dio che sorga dalle acque, immenso, abbagliante, il sole sorse in tutto il suo fulgore. L’aria tersa del mattino amplificava la luce. Il cielo, verso oriente sembrava infiammarsi, mentre ad ovest la notte ancora tardava a tramontare, quasi a sfidare il sole in una battaglia persa. Il mio sguardo era rapito da tanta bellezza, al punto che non mi accorsi subito del fenomeno spettacolare che intanto iniziava alle mie spalle. Volgendo uno sguardo fugace verso ovest, verso la notte, non mi accorsi immediatamente di una seconda montagna che era sorta tra me e il m. Intermesoli. Appena gettato lo sguardo, la coscienza dovette attendere qualche istante perchè la mia mente valutasse ed interpretasse ciò che gli occhi gli inviavano.
Poi vidi………Sulla Val Maone c’era una altro Corno Grande, immenso, scuro sullo sfondo del cielo. La mia conoscenza del grande monte mi aiutò a comprendere quanto fosse simile il fantasma al Corno Grande. Con il mio piccolo monocolo potevo apprezzare che sulla cima di quel monte c’era un minuscolo brufolo sporgente, ero io. Il sole sorgente gettava infatti l’ombra del Corno verso il cielo riproducendo sul nulla la sagoma del Gigante in tutti i suoi più piccoli particolari. Dato che il sole era appena sorto, l’ombra di conseguenza era più alta dell’originale. Rimasi a guardarla fino a quanto il sole si spostò nella sua orbita apprezzando che man mano che esso si alzava, il monte fantastico si riduceva in altezza finchè, improvvisamente, scomparve, come scompare un’ombra quanto si spegne la luce.
Allora tornai alla panchina illuminata dal sole, mi sdraiai. Il sole era tiepido, mi scaldava finalmente, e mi addormentai…….
Credevo di aver dormito almeno alcune ore quanto fui svegliato da qualcosa che mi toccava. Mi fu difficile svegliarmi, ma quanto ci riuscii notai che quegli esili toccamenti non erano altro che due minuscoli batuffoli di cotone, simili ai puff usati per spargere il borotalco sulla pelle. Si muovevano rapidi fino a toccare il mio petto.
Quando riuscii a raggiungere uno stato di coscienza tale da giudicare ciò che vedevo capii. Erano due piccoli topolini, due arvicole delle nevi. Sapevo che una famiglia di arvicole popolava la vetta, relitti glaciali come il piccolo ghiacciaio della vetta Occidentale. Millenni fa, all’epoca delle glaciazioni, esse popolavano tutta la catena, ma poi avevano seguito il ritiro dei ghiacci ed ora erano confinate sulla vetta. Anche alcune minuscole piantine cercavano di sopravvivere all’aumento inesorabile della temperatura nei millenni salendo sempre più in alto.
Io le conoscevo bene ed ogni volta che salivo sulla vetta le cercavo con apprensione, ben sapendo che a breve sarebbero scomparse, uccise dal caldo e forse anche dai piedi omicidi degli “alpinisti” ciechi ed ignari che la montagna vive, che non è un accumulo di massi verticali posti ad uso e consumo dell’uomo. Tutte le volte che arrivavo sulla vetta ( nel 1976 ero salito circa 500 volte) mi affacciavo sul ghiacciaio ansioso di vedere se fosse ancora li. Negli anni avevo assistito al suo inesorabile ritiro. Ogni anno era più misero fino a quanto, un anno, scomparve definitivamente il laghetto della morena, e da allora non c’era stato più.
Questi cambiamenti lasciavano in me, in forma struggente, la consapevolezza della ineluttabilità della vita. Che tutto cambia e non torna più. Che tutto finisce inesorabilmente creando nuovi equilibri. La cosa che mi crucciava, però, era che quasi tutti i frequentatori della vetta neppure sapevano che la misera erba e le insignificanti arvicole stavano combattendo una battaglia immane per la vita, che ora erano arrivate sulla cima e non potevano più salire per sfuggire al caldo, che si erano infilate in una via senza uscita. Quando pensavo a queste cose mi veniva spesso in mente la scena di un famoso film di guerra (uomini sul fondo) in cui c’erano dei naufraghi in un sommergibile che cercavano un’improbabile scampo nelle varie stanze progressivamente invase dall’acqua. Nell’ultima stanza era riposta l’improbabile speranza di salvezza, ma il film non è la vita e quindi arrivavano i nostri a salvare i naufraghi quando praticamente avevano l’acqua alla gola. I nostri naufraghi, invece non avevano speranze.
Comunque cercavano di sopravvivere al momento raccattando senza tanti complimenti le piccole croste di formaggio che avevo ritagliato nella notte e gettato vicino a me. Con le zampette anteriori che inaspettatamente spuntavano dal lungo pelo afferravano le briciole, ritti sulla zampe posteriori. Annusavano la leccornia, la mettevano in bocca e poi, rapidi, si allontanavano per riporle nella loro tana nascosta in un’anfratto e poi tornavano a raccogliere il resto. Un po del resto era incastrato sotto il mio corpo ed io ero stato svegliato proprio dal tentativo dei miseri di raccogliere quella che per noi era semplice immondizia. Improvvisamente apparvero degli uccellini che tentarono di rubare qualche piccola briciola alle arvicole. Non potevo resistere allo spettacolo di tale battaglia. Sembrava una scena bucolica, ma quello a cui stavo assistendo non era altro che una battaglia per la vita, questa volta a discapito delle arvicole. Gli uccellini potevano volare e cercare nel mondo il loro sostentamento, le arvicole erano relegate nella loro prigione. Mi resi conto che ragionavo da uomo, che assurgevo a giudice, come tutti gli uomini, che la natura ha un suo giudice le cui sentenze sempre ci sfuggono. Ma io sono un uomo e quindi cacciai gli uccelli e cercai nello zaino qualcosa che era avanzato nella zaino. Avevo ancora del formaggio che spezzettai vicino al posto dove le arvicole sembravano scomparire sotto alcune rocce e quindi tornai a sedermi. Non cercai la tana per una sorta di stupido rispetto, quasi fosse meglio non sapere, per non essere in grado di rivelare a nessuno, neanche a me stesso, l’ubicazione della stessa. Il sole ormai era caldo, chiusi gli occhi e inaspettatamente mi riaddormentai e sognai.
Sognai di volare tra le vette del monte, come un corvo o un’aquila, con le ali tese, in balia del vento. Mi capitava spesso di sognare di volare verso il sole, lungo un suo raggio caldo. Volare è un sogno ricorrente in molte persone, ma a me capitava di fare questo sogno sempre, almeno una volta alla notte. Le montagne tra cui volavo erano reali, in tutti i più piccoli particolari. Sognai di arrampicare e di cadere (altro sogno frequente, specialmente alla vigilia di ascensioni impegnative), ma la caduta non mi terrorizzava perché sapevo di poter volare. Anzi godevo della sensazione di precipitare e poi di arrestare la caduta con una planata. Poi fui svegliato da alcune voci. Iniziavano ad arrivare i primi alpinisti.
Le arvicole erano scomparse, il cielo non era più di fuoco, l’ombra del Corno non esisteva più. Dalla direttissima si udivano gridare i “turisti alpinisti” perennemente in difficoltà alla crestina sotto la vetta mentre i loro grevi scarponi facevano precipitare i sassi verso l’abisso.
Prima che giungesse tutto quell’esercito vociante mi gettai di corsa sul ghiacciaio e scivolai fino alla morena, risalii alla sella dei Due Corni e mi persi tra le rocce delle Fiamme di Pietra.
Quando riuscii a raggiungere uno stato di coscienza tale da giudicare ciò che vedevo capii. Erano due piccoli topolini, due arvicole delle nevi. Sapevo che una famiglia di arvicole popolava la vetta, relitti glaciali come il piccolo ghiacciaio della vetta Occidentale. Millenni fa, all’epoca delle glaciazioni, esse popolavano tutta la catena, ma poi avevano seguito il ritiro dei ghiacci ed ora erano confinate sulla vetta. Anche alcune minuscole piantine cercavano di sopravvivere all’aumento inesorabile della temperatura nei millenni salendo sempre più in alto.
Io le conoscevo bene ed ogni volta che salivo sulla vetta le cercavo con apprensione, ben sapendo che a breve sarebbero scomparse, uccise dal caldo e forse anche dai piedi omicidi degli “alpinisti” ciechi ed ignari che la montagna vive, che non è un accumulo di massi verticali posti ad uso e consumo dell’uomo. Tutte le volte che arrivavo sulla vetta ( nel 1976 ero salito circa 500 volte) mi affacciavo sul ghiacciaio ansioso di vedere se fosse ancora li. Negli anni avevo assistito al suo inesorabile ritiro. Ogni anno era più misero fino a quanto, un anno, scomparve definitivamente il laghetto della morena, e da allora non c’era stato più.
Questi cambiamenti lasciavano in me, in forma struggente, la consapevolezza della ineluttabilità della vita. Che tutto cambia e non torna più. Che tutto finisce inesorabilmente creando nuovi equilibri. La cosa che mi crucciava, però, era che quasi tutti i frequentatori della vetta neppure sapevano che la misera erba e le insignificanti arvicole stavano combattendo una battaglia immane per la vita, che ora erano arrivate sulla cima e non potevano più salire per sfuggire al caldo, che si erano infilate in una via senza uscita. Quando pensavo a queste cose mi veniva spesso in mente la scena di un famoso film di guerra (uomini sul fondo) in cui c’erano dei naufraghi in un sommergibile che cercavano un’improbabile scampo nelle varie stanze progressivamente invase dall’acqua. Nell’ultima stanza era riposta l’improbabile speranza di salvezza, ma il film non è la vita e quindi arrivavano i nostri a salvare i naufraghi quando praticamente avevano l’acqua alla gola. I nostri naufraghi, invece non avevano speranze.
Comunque cercavano di sopravvivere al momento raccattando senza tanti complimenti le piccole croste di formaggio che avevo ritagliato nella notte e gettato vicino a me. Con le zampette anteriori che inaspettatamente spuntavano dal lungo pelo afferravano le briciole, ritti sulla zampe posteriori. Annusavano la leccornia, la mettevano in bocca e poi, rapidi, si allontanavano per riporle nella loro tana nascosta in un’anfratto e poi tornavano a raccogliere il resto. Un po del resto era incastrato sotto il mio corpo ed io ero stato svegliato proprio dal tentativo dei miseri di raccogliere quella che per noi era semplice immondizia. Improvvisamente apparvero degli uccellini che tentarono di rubare qualche piccola briciola alle arvicole. Non potevo resistere allo spettacolo di tale battaglia. Sembrava una scena bucolica, ma quello a cui stavo assistendo non era altro che una battaglia per la vita, questa volta a discapito delle arvicole. Gli uccellini potevano volare e cercare nel mondo il loro sostentamento, le arvicole erano relegate nella loro prigione. Mi resi conto che ragionavo da uomo, che assurgevo a giudice, come tutti gli uomini, che la natura ha un suo giudice le cui sentenze sempre ci sfuggono. Ma io sono un uomo e quindi cacciai gli uccelli e cercai nello zaino qualcosa che era avanzato nella zaino. Avevo ancora del formaggio che spezzettai vicino al posto dove le arvicole sembravano scomparire sotto alcune rocce e quindi tornai a sedermi. Non cercai la tana per una sorta di stupido rispetto, quasi fosse meglio non sapere, per non essere in grado di rivelare a nessuno, neanche a me stesso, l’ubicazione della stessa. Il sole ormai era caldo, chiusi gli occhi e inaspettatamente mi riaddormentai e sognai.
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Le arvicole erano scomparse, il cielo non era più di fuoco, l’ombra del Corno non esisteva più. Dalla direttissima si udivano gridare i “turisti alpinisti” perennemente in difficoltà alla crestina sotto la vetta mentre i loro grevi scarponi facevano precipitare i sassi verso l’abisso.
Prima che giungesse tutto quell’esercito vociante mi gettai di corsa sul ghiacciaio e scivolai fino alla morena, risalii alla sella dei Due Corni e mi persi tra le rocce delle Fiamme di Pietra.
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