La Mongolia è una calamita dell’anima, se rende l’idea. Ti abbraccia,
riempie di spazio, di cielo, di vento, restituisce alla profondità della vita,
alla spiritualità che non pensavi di avere, guarisce dalla solitudine, dalla
timidezza, autorizza a commuoversi” (da “Mongolia – L’ultimo paradiso dei nomadi guerrieri” di
Federico Pistone
By Zoharby English Wikipedia |
La Mongolia è una terra
sconfinata, dove la steppa si confonde pian piano con il deserto, un deserto
desolato, rovente d’estate e gelato in inverno,
dove le temperature passano da
+ 45 gradi a -60 ed il vento spazza le orride lande a 150 km/h, disseccando e
gelando qualunque cosa possa solo pensare di vivere in quelle zone.
Li si
stende senza cuore il deserto di Gobi. E laggiù, dopo cinque giorni di
fuoristrada senza niente e senza nulla, c’è la falesia di Bayanzag, la mia
meta. Pian piano che procediamo, l’erba della steppa cede il suo posto ad una sabbia
rossastra, dove cresce solo qualche filo d’erba particolarmente resistente. e si
scorgono rarissimi fiori che si ergono fieri su un terreno assolutamente
sterile.
La mia guida si ferma in una piccola valle dove sono stati trovati numerose
ossa di dinosauri.
ma la sosta è breve perché qui le distanze sono dilatate,
così come il tempo che impieghiamo a percorrerle, non potendo prevedere lo
stato delle piste, mutevoli sotto l’imprevedibilità delle meteore.
Una bella sorpresa ! Dei fiori si ergono fieri su un terreno assolutamente sterile.
La tenda dove alloggerò si innalza come un
trofeo di vittoria in mezzo al nulla più assoluto.
A 360 gradi l’occhio si
perde in un orizzonte infinito, nulla ferma lo sguardo e l’anima si smarrisce
nell’assoluta perfezione di questo territorio mondato da qualunque cosa
superflua. ( “La perfezione non si ottiene quando non c’è più nulla da aggiungere,
ma quando non c’è più nulla da togliere”. A. de Saint Exupery).
La falesia è un gradino di roccia arenaria
che si erge sulla piana delimitando la zona superiore, anch’essa perfettamente
piana. Non era altro che la costa del mare antico. Li si frangevano le onde ed
erodevano la costa fino a farla diventare una scogliera rossa, di un rosso
incredibile nel sole al tramonto.
Roy
Chapman Andrews era un esploratore che più tardi ispirò il personaggio di
Indiana Jones simile anche negli atteggiamenti e nel modo di vestire.
Nel 1922
partì da Pechino con alcune auto e traversò tutto il Gobi alla ricerca del
primo uomo. Dopo alcuni mesi, superando
difficoltà inimmaginabili in territori sconosciuti, finalmente arrivò a
Bayanzag (rupi fiammeggianti) e si apprestò allo scavo. Non trovò il primo
uomo, ma in compenso un suo assistente scivolò nel pendio terroso e atterrò
letteralmente su un uovo fossile, scoprendo il più grande cimitero dei
dinosauri che sia mai stato rinvenuto.
Famosi gli scheletri di un velociraptor ed un protoceratopo avvinghiati
nel combattimento, mortale per entrambi. La mia gher è a circa 10 km dalla
falesia che raggiungo in fuoristrada. La guida mi lascia sul bordo del gradino.
Ricordo un racconto di fantascienza della collana Urania,
“Il gradino di venere” e mi sembra di vivere in quel libro, dove degli
astronauti naufragati su Venere, si ritrovano a dover superare un rosso e
fiammeggiante gradino roccioso per salvarsi. Mi affaccio sul bordo tagliente.
La “costa” precipita verso un mare evaporato dai millenni.
Le ere lo hanno
innalzato fino a 1500 m. e tutto ormai è morto e disseccato, ma milioni e
milioni di anni fa questo posto era brulicante di vita.
Giganteschi rettili
correvano sulla piana, giganteschi rettili volavano nell’aria, giganteschi
rettili nuotavano nel mare.
Io sono in
piedi, sul bordo del precipizio e giganteschi rettili mi circondano. Mi immergo
in un rosso cupo, attutito da un cielo
plumbeo che minaccia pioggia.
Cammino sul bordo della falesia frastagliata, dove numerosi fiordi sfidano
non più le onde, ma il vento inesorabile che spira da nord,
un vento che parte dal polo e che nulla
ostacola per migliaia di km. Un vento che si carica di sabbia e che diviene
sempre più violento ma mano che avanza e che plasma la tenera roccia arenaria
in figure mitologiche,
in precipizi orridi, in canali, archi, pennacchi.
Cammino lassù, nel vento e sento gli spruzzi delle onde che si frangono sulle
rocce.
Ora una cresta sottilissima mi permette appena di camminare come un
equilibrista su un filo ,
ora un terrazzino mi fa affacciare su un panorama che si perde sotto di me e che
sfuma nell’orizzonte foscoso, carico di pioggia. Salgo e scendo tra fragili
creste di tenera arenaria, per nulla sicure mentre l’ambiente mi sommerge.
Alzo
gli occhi al cielo e tra le nubi basse volano gli pteranodont, mentre i
velociraptor combattono tra di loro. Il vento rinforza e rade gocce di poggia
mi battono sulla fronte con forza, trasportate dal vento.
E’ un ambiente
affascinante, travolgente come il pensiero di un’amore che non potrai mai
avere e che ti segue tra quelle cangianti pareti.
Ma la piana si stende laggiù,
duecento metri più in basso e tra me e quella piana c’è “il gradino di Venere”
da superare. Voglio scendere ed ammirare la falesia dal basso. Tra il dire ed
il fare c’è di mezzo… la falesia.
Trovo un intaglio netto, con pareti verticali
che sembrano solide da lontano, ma si rivelano essere due muri di terra
compatta , ma che danno l’idea di crollare ogni istante.
Le meteore hanno scavato un canyon profondo, con le pareti verticali distanti non più di tre metri e che più scendo più formano una sorta di grotta, fragile come i pensieri che mi consigliano di tornare indietro.
Con un sospiro di sollievo esco finalmente nella piana.
Enormi blocchi di arenaria si sono staccati dalla parete e giacciono come palazzi ridoti in macerie da terrificanti terremoti.
Scendo verso “il mare”, incontro bizzarre formazioni rocciose che credo scavate dall’acqua, ma che non distinguo da giganteschi femori ed ossa di dinosauri.
Ora giro a destra e cammino sotto la parete, ad una distanza di sicurezza. Queste rocce rossastre non mi lasciano sicuro.
Passo sotto un blocco enorme, aggiro vari alvei di fiumi inesistenti e camino seguendo la costa che si dirige verso dx, con una direzione che mi allontana sempre più dalla tenda.
Il sole non è visibile, il cielo è cupo, nubi temporalesche all’orizzonte lo nascondono. Neppure una luminosità tradisce la sua presenza. Proseguo per qualche ora con un’andatura veloce solo valutando che la falesia forma un’ enorme curva, ma non riesco a calcolare di quanti gradi. Il sole non mi permette di stimare la mia mutata e mutevole posizione. La costa infatti come ho detto, fa un’enorme curva, ma in più ci sono continue insenature che complicano di molto la valutazione della mia posizione. Qui la notte arriva alle 23,30 e quindi non mi preoccupo, anche perché per tornare indietro basta seguire la costa. Comunque non porto lampade ed il cielo è nuvoloso. La mancanza del sole è solo un fattore secondario, il problema è che sono distratto e la mia bussola interna, di cui mi fido totalmente, ha perso i riferimenti principali.
La mia mente vaga lontano, vaga oltre i confini del tempo e dello spazio, li dove i desideri si realizzano. In questi momenti non sono più solo, perso nell’immenso Gobi, la mia mente crea la mia compagnia, un compagno irreale, virtuale, che non potrà mai esistere. Spesso mi volto per vedere se mi segue, parlo con lui, gli confido i miei dubbi.
Finalmente guardo l’orologio, non mi ero accorto di quanto fosse tardi. Devo trovare il modo di risalire la falesia e tornare sull’altipiano. Non è facile risalire, non trovo nessun punto praticabile. Fosse roccia compatta sarebbe un gioco, ma tutto crolla al solo appoggio della mano.
Le meteore hanno scavato un canyon profondo, con le pareti verticali distanti non più di tre metri e che più scendo più formano una sorta di grotta, fragile come i pensieri che mi consigliano di tornare indietro.
Con un sospiro di sollievo esco finalmente nella piana.
Enormi blocchi di arenaria si sono staccati dalla parete e giacciono come palazzi ridoti in macerie da terrificanti terremoti.
Scendo verso “il mare”, incontro bizzarre formazioni rocciose che credo scavate dall’acqua, ma che non distinguo da giganteschi femori ed ossa di dinosauri.
Ora giro a destra e cammino sotto la parete, ad una distanza di sicurezza. Queste rocce rossastre non mi lasciano sicuro.
Passo sotto un blocco enorme, aggiro vari alvei di fiumi inesistenti e camino seguendo la costa che si dirige verso dx, con una direzione che mi allontana sempre più dalla tenda.
Il sole non è visibile, il cielo è cupo, nubi temporalesche all’orizzonte lo nascondono. Neppure una luminosità tradisce la sua presenza. Proseguo per qualche ora con un’andatura veloce solo valutando che la falesia forma un’ enorme curva, ma non riesco a calcolare di quanti gradi. Il sole non mi permette di stimare la mia mutata e mutevole posizione. La costa infatti come ho detto, fa un’enorme curva, ma in più ci sono continue insenature che complicano di molto la valutazione della mia posizione. Qui la notte arriva alle 23,30 e quindi non mi preoccupo, anche perché per tornare indietro basta seguire la costa. Comunque non porto lampade ed il cielo è nuvoloso. La mancanza del sole è solo un fattore secondario, il problema è che sono distratto e la mia bussola interna, di cui mi fido totalmente, ha perso i riferimenti principali.
La mia mente vaga lontano, vaga oltre i confini del tempo e dello spazio, li dove i desideri si realizzano. In questi momenti non sono più solo, perso nell’immenso Gobi, la mia mente crea la mia compagnia, un compagno irreale, virtuale, che non potrà mai esistere. Spesso mi volto per vedere se mi segue, parlo con lui, gli confido i miei dubbi.
Finalmente guardo l’orologio, non mi ero accorto di quanto fosse tardi. Devo trovare il modo di risalire la falesia e tornare sull’altipiano. Non è facile risalire, non trovo nessun punto praticabile. Fosse roccia compatta sarebbe un gioco, ma tutto crolla al solo appoggio della mano.
Ma ecco laggiù… laggiù
sembra che la falesia si abbassi, devo arrivare laggiù ma devo stare attento a
valutare la distanza. Mi sembra sia fattibile ed infatti riesco a salire con
facilità. Ora mi trovo sull’altopiano, piove, una densa foschia non fa superare
il km di visibilità. Calcolo rapidamente il mio itinerario e procedo velocemente
verso il punto stimato, dove penso sia la tenda.
Qui è il Gobi, non è Campo Imperatore, qui siamo in una zona perfettamente pianeggiante per 400 km attorno a me e piccole ondulazioni del terreno possono nascondere la tenda. Seguo delle flebili tracce di un fuoristrada che evidentemente portano verso il nulla
Qui è il Gobi, non è Campo Imperatore, qui siamo in una zona perfettamente pianeggiante per 400 km attorno a me e piccole ondulazioni del terreno possono nascondere la tenda. Seguo delle flebili tracce di un fuoristrada che evidentemente portano verso il nulla
ma dopo due ore
non avvisto ancora nulla e comincio a chiedermi dove mi trovo. Valuto la mia
posizione, ma non so di quanti gradi ho girato quindi non posso sapere se la
direzione che ho seguito sia quella giusta.
Guardo attorno a me, ora la foschia
mi chiude in una prigione le cui pareti si stringono sempre più man mano che la
notte avanza.
Forse dovrò dormire all’aperto e domattina tornare indietro, cosa
per ora improponibile. Piove, non fa freddo, ma piove e certamente non porto
impermeabili. Ci sediamo… “ci” ? Si… “ci” sediamo, tranquillizzo il mio
compagno e “ci” sediamo. Ho fatto uno sbaglio madornale. Quando sono uscito
dalla falesia ho tentato di ragionare per determinare la direzione. Ma io non
sono così, io ho sempre seguito il mio istinto che mai mi ha ingannato.
Il
dolore alle ginocchia non ha dimenticato neppure un istante di abbandonarmi, ma
ora, dopo ore ed ore di cammino, sta raggiungendo un livello mal sopportabile. Mi siedo e tento di sgombrare la mente dai
ragionamenti razionali. Pian piano, come in una mappa di googleheart, tutto
ruota e si aggiusta nei punti cardinali.
Ora mi alzo e, senza pensare, mi avvio
cambiando la mia direzione di quasi 45 gradi. Neppure mi chiedo se la direzione
sia giusta… la direzione deve essere giusta. Cammino tra ondulazioni del
terreno
e dopo tre ore avvisto un branco numeroso di cammelli e quando i
cammelli sono passati, dietro di loro avvisto la tenda.
Ormai sono le 23, sbatto letteralmente nella
tenda, senza variare l’itinerario neppure di un metro.
Il mio gps ancora una
volta non mi ha ingannato. Sono stanco, bagnato, ma sono felice. Domani mi
aspettano le meravigliose dune di Kongoorin Els.
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