domenica 25 marzo 2012

RITORNO AL MONTE BIANCO

Ci volle qualche anno perché tornassi al Bianco. L’inizio della mia professione mi teneva impegnato, particolarmente in estate, quando potevo sperare di lavorare di più in virtù delle sostituzioni che mi venivano richieste.  Quella esperienza mi aveva insegnato a non sottovalutare i ghiacciai e la quota. L’ambiente appenninico e dolomitico a cui ero abituato era completamente diverso da quello del Bianco.  Non vedevo il momento di tornare per capire quei suoni, quelle nubi, quelle nevi e quelle rocce. Tornai quando ritenni di poter dedicare qualche giorno al riposo, ma tornai con uno spirito diverso.
Erano passati alcuni anni e le esperienze di montagna degli ultimi tempi mi avevano profondamente cambiato. Ora vedevo le vette e le cime come un campo di atletica. Avevo capito che potevo percorrere lo stesso tragitto in tempi estremamente brevi risparmiando di portare l’attrezzatura, il cibo e l’acqua. Però non capite male ciò che sto dicendo. Il fatto di correre non significava minimamente che potesse essere cambiato il mio approccio mentale alla montagna. Io ero sempre lo stesso uomo che notava ogni più piccolo cambiamento, ero sempre quello che partiva per ammirare le stelle e che avrebbe ancora raccolto un uovo perso sulle rocce con la speranza di salvare il pulcino. Avevo solo aggiustato il mio orologio. Il mio pendolo aveva accelerato il suo periodo, ma io non ero cambiato.
Molti anni consecutivi tornai al Bianco, a Chamonix. Ogni vacanza era lunga almeno 15 giorni e quindi man mano che passavano gli anni io acquistavo esperienza di ghiaccio e di altezze. Ora conoscevo perfettamente i luoghi dove mi muovevo anche se il lento defluire dei ghiacciai ogni anno mutava l’aspetto delle superfici. Ora riuscivo ad immaginare addirittura come il ghiacciaio sarebbe stato l’anno successivo. Alla partenza fissavo nella mia mente i paesaggi e quindi al ritorno, l’anno successivo, tentavo di indovinare dove si sarebbero trovati i macigni e i seracchi della Jonction al Bosson o della Bediere alla Mer de Glace. Ora i crepacci non mi terrorizzavano più, anche se avevo per loro un enorme rispetto. Avevo capito dove si potevano trovare, quale e perché era la loro direzione, quale pendio era più pericoloso e quando i ponti di neve potevano sostenere il peso di un uomo. Ora i rumori del ghiacciaio mi erano diventati familiari e le altezze non mi procuravano più le vertigini. Mi sentivo un po come sul Gran Sasso, a casa mia.
Inutile riportare tutte le ascensioni che feci in quegli anni, sarebbe come leggere una guida che tutti possono comprare. Mi limiterò a ricordare alcuni episodi che mi colpirono particolarmente. Come vedrete furono ascensioni ambientate in luoghi non particolarmente famosi. Infatti non sempre l’animo viene colpito dalle cime più alte, anzi, spesso, proprio sulle cime più alte e famose si ritrova la folla vociante delle città. Si sale su una trincea profonda tracciata dai numerosi passaggi e sulla cima si incontrano centinaia di persone. Bisogna fare la fila per salire e quindi queste scene vengono spesso cancellate dalla mente o almeno non scavano la loro nicchia nella memoria.
Correvo quindi verso le quote più alte, gareggiando con me stesso per vincere la fatica che si impadroniva della mie gambe   e per convincere i miei polmoni  a far entrare un po d’aria quando mi trovavo di corsa sopra i 4200 m. Mi piaceva provare le vertigini della quota solo per vincerle e quindi acceleravo il passo su pendii vertiginosi.
Ma andiamo con ordine. Un anno decisi di correre partendo direttamente da Chamonix (900 m.)e dirigermi verso la cima del Bianco. Quell’anno partii dall’albergo e salii alla Montagne de la Cote, fino alla Jonction sul ghiacciaio del Bosson e quindi al Rifugio des Grands Mulets. Corsi ininterrottamente fino al Grand Plateau (4000 m.) poi non ce la feci più. Decisi quindi di fare le cose per gradi e partii dal Nid d’Aigle (2372 m.)e cioè dalla stazione superiore della ferrovia che parte da S. Gervais. Dalla guida avevo letto che a 3000 m. si incontrava il rifugio de la Tete Rousse, poi a 3800 m. il rifugio de L’Aguille du Gouter, quindi per ultimo la Capanna Vallot a 4300 m.
Partii con il primo treno armato solo delle scarpette da trekking, un fuseau, una giacca della tuta, ramponi e bastoncini da sci e chiaramente con l’inseparabile cappello, occhiali, guanti ed un leggero spolverino. Non portavo acqua ne cibo per limitare il peso che mi avrebbe impedito la corsa. Appena sceso iniziai a correre su un sentiero che sembrava  una strada carrozzabile di collina. Un treno intero di turisti era sceso con me e quindi partii senza indugio. Secche svolte mi innalzavano rapidamente nel Deserto de Pierre Ronde. Mai nome era stato dato più a proposito. Allora lo intuivo appena, ma il deserto è proprio così. Anni dopo ho potuto constatare che alcuni paesaggi del Sinai sono perfettamente simili a quello. Dalla guida avevo letto che il tempo necessario per arrivare al I rifugio era di 2,5 ore. Altre 2,5 ore si impiegava per arrivare al Gouter. La guida consigliava quindi di dormire al rifugio de l’Aguille du Gouter e partire a notte fonda per la cima. I minuti passavano e salivo senza sforzo aiutato dai miei bastoncini quando, dopo circa 2 ore di corsa, scorsi il rifugio. Era circa 300 m. sopra di me. Il pendio che portava al rifugio era malagevole, ripidissimo e composto da  massi instabili che bastava solo respirare per farli precipitare. Solo allora mi  resi conto di quanto il pendio fosse verticale. I sassi rotolavano per un po poi spiccavano il volo atterrando solo centinaia e centinaia di metri più in basso e trasportando con se un corteo di altri massi.
Arrivai al rifugio dopo 2.5 ore di corsa e non potetti fare a meno di notare quanto la guida fosse tirata per quanto riguarda i tempi di percorrenza. Saltai letteralmente il rifugio perché ero abbastanza sudato e l’aria si stava rapidamente raffreddando. Calzai i ramponi perché dal rifugio si vedeva tutta una calotta ghiacciata dove il sentiero si snodava come un serpente. I primi alpinisti già tornavano dalla cima e quindi incontrai molte persone le quali però avevano uno spiccatissimo senso della cortesia. Mi salutavano già da molto lontano lasciandomi il passo. Il gobbone era molto facile, ma il vento ora era divenuto ghiacciato e la mia schiena sudata accusava il freddo, intanto che il mio petto continuava a sudare. Questa condizione mi metteva a disagio. Una parte del mio corpo sudava ed una parte sentiva freddo. Avevo un’orecchio ghiacciato ed un altro bollente, così come le mie mani ed i miei piedi, Ma la cosa strana era che l’orecchio e la mano fredda non era quello direttamente investito dal gelido vento. Comunque continuavo a correre appoggiato ai bastoncini e quindi ancora non avevo bisogno di indossare la tuta e lo spolverino, mentre coloro che incontravo sembravano più astronauti che alpinisti. Inoltre quasi tutti andavano legati alle loro guide. Ogni tanto incontravo qualcuno che vomitava per via dell’altezza, consolato dalla guida che lo accompagnava. Dopo circa due ore arrivai in vista del  secondo rifugio che già accusavo qualche piccolo problema di stabilità. Il terreno sembrava ondeggiare sotto i miei piedi, ma nonostante ciò ancora potevo correre anche se l’andatura rallentava vistosamente. Lasciai il rifugio alla mia sinistra e continua a correre su un terreno facilissimo, fino ad una cresta affilata, quando improvvisamente i miei occhi iniziarono a vedere stelle e lucciole volanti. Le macchie di luce, dapprima piccole, pian piano  andavano allargandosi invadendo tutto il campo visivo di una vivida luce che mi abbagliava. Anche alle mie orecchie stava succedendo qualcosa dato che battevano come un tamburo all’unisono con il mio cuore. Compresi che erano i sintomi dell’altezza. Ancora non ero adattato alla quota se  ero appena riuscito a raggiungere il rifugio du Gouter. Comunque erano sempre 1500 m. di dislivello. Correre a queste quote non era come sul Gran Sasso. Iniziai a scendere prima che i sintomi peggiorassero mettendomi in vero imbarazzo, dato che non avevo una benchè minima attrezzatura. Non potevo neppure fermarmi un momento senza correre il rischio di congelare ed allora invidiai gli “astronauti” che incontravo continuamente. Barcollando scesi per circa un’ora con una sgradevole sensazione di nausea quando improvvisamente i sintomi scomparvero. Mi sentivo perfettamente bene e pensai addirittura di tentare di risalire di corsa, ma poi il mio amor proprio mi consigliò di scendere. Ancora una volta saltai il rifugio e scesi sugli sfasciumi fino ad un pericoloso canalone innevato da cui precipitavano incessantemente i sassi. Appena superato il canalone scorsi dietro una collina ghiacciata una grossa costruzione. Diressi verso di essa e immaginate quale fu il mio stupore quando lessi la targa sulla porta: era la Tete Rousse. Salendo non avevo visto il rifugio e quindi quello che credevo essere la Tete Rousse era invece il Gouter e quello che credevo il Gouter era addirittura la Capanna Vallot, appena sotto al cima del Bianco. Quindi in circa quattro ore ero arrivato quasi alla cima. Potevo accontentarmi anche se ero stato fermato a 4500 m. dal mio mancato adattamento. Quella fu la prima volta che tentai di salire di corsa sulla cima, ma mi ci volle molto tempo prima di riuscire a correre alle massime quote.  Negli anni acquisivo un ottimo adattamento alla quota e quindi potevo salire con la funivia dell’Aguille du Midi che in pochi minuti porta a 3800 m. e quindi iniziare a correre vero il Tacul e il Maudit.

La parete ghiacciata del Tacul

 Un giorno splendido decisi di tentare di arrivare di corsa alla cima seguendo proprio quest’itinerario. Salii quindi con una delle prime funivie e mi incamminai nel tunnel di ghiaccio che porta fuori dalla stazione superiore. Anche se ero ormai abituato, il panorama ancora mi lasciava senza fiato, e non ero il solo se anche molte guide, uscendo, sembravano estasiate. L’uscita non è proprio quella che si suol dire una passeggiata perché è una crestina esile ed inclinata che porta, dopo circa 200 m. sul ghiacciaio. La cresta precipita a sinistra, con un abisso fino al Plan de l’Aguille, circa 2000 m. più in basso, mentre a destra si presenta come un vertiginoso scivolo verso la Vallè Blanche. Dovunque si cada, la morte è assicurata. Comunque c’è un ottimo passamano in corda d’acciaio sostenuta da paletti infissi saldamente nel ghiaccio che facilitano enormemente l’uscita e la rendono sicura.  La cresta quindi prosegue lungo le Aguilles de Chamonix, verso l’Aguille du Plan ed è una cresta stupenda, tutta di ghiaccio, aerea. Una fantastica cavalcata nel cielo, tra le nubi e gli angeli, su esili creste e immani cornici, su torrioni, pilastri e guglie sporgenti nel vuoto e non troppo difficili (massimo terzo grado), che percorsi fino all’Aguille du Plan un giorno che avevo bisogno di stare con me stesso.  Comunque l’itinerario del giorno curvava a destra e, con una svolta a 180 gradi, si dirigeva al Col du  Midi (3544 m.).

Da li inizia il pendio del Mont Blanc du Tacul (4248 m.), sotto immani seracchi e crepacci abissali, famosi per la loro larghezza e profondità.  Molte guide parlano anche di 200 m. di profondità ed una cosa è certa: io non ne ho mai visto il fondo, per quanto mi sporgessi. Affacciarsi in uno di quei crepacci è un’esperienza sconvolgente. Le pareti sono di un ghiaccio verdastro e liscio, sfuggono verso il basso con linee verticali ed oblique che ingannano la vista ed i sensi dando una sorta di vertigine a chi non è abituato. Dal profondo emana un vento gelido e puro che taglia la faccia come un coltello e tutto sprofonda verso il buio. A queste quote non si ode acqua di fusione, il gelo non lo permette, ma tutto scricchiola e geme ricordando a tutti che il ghiacciaio è vivo e si muove come le lancette di un’orologio, le quali sembrano non girare se le si guardano, ma poi ci si accorge che invece fuggono, come il tempo che battono.
Da sn, col du Midi, cresta des Cosmiques ed Aguille du Midi

Quell’anno i crepacci potevano essere attraversati in virtù di un consistente ponte di neve e quindi non c’erano le scale che avevo trovato in alcuni anni passati. Salivo di corsa nel pendio che aumentava lentamente l’inclinazione. Tale conformazione dava l’erronea sensazione di essere su un dolce pendio, se non ci fosse stata la fatica che prepotentemente reclamava i suoi diritti.  Mi accorsi di non poter più correre non tanto per la fatica, ma per il fatto che le ginocchia ormai urtavano al pendio.

Ero a circa 35 gradi di pendenza ed il pendio aumentava ulteriormente la sua inclinazione.  La profonda traccia ora diveniva una specie di semitubo verticale in cui bisognava incastrarsi. I sensi ancora ingannavano e sembrava quasi superfluo servirsi di tale espediente.  Dopo circa cento metri il semitubo, inclinandosi, si ritrasformava ancora una volta nella precedente traccia. Pensavo di poter ricominciare a correre quando improvvisamente udii rumore di ferraglia sempre più vicino. Alzai lo sguardo, ma non vidi nulla, mentre il rumore ora era divenuto quasi assordante nel silenzio del ghiacciaio. Mi sistemai in un punto ben tracciato ed attesi degli attimi aspettando qualche impatto. Un’ombra passò sulla mia testa.

Volsi immediatamente lo sguardo in alto e vidi un uomo volare seguito da un altro supermen volante. Erano legati tra di loro con la corda che li costringeva a comportarsi come due bolas, roteando nel vuoto. Non potevo credere che quei due uomini stessero precipitando. Potevano scivolare, ma precipitare mai !! Eppure era così. Il terreno solo allora mi si mostrò per quello che era, uno scivolo ripidissimo. Solo allora i sensi dettero al cervello le giuste informazioni. Intanto i due alpinisti si trovavano sopra il semitubo e urtarono il ghiaccio rimbalzando nuovamente e spiccando il volo come un aereo al decollo. Mentre roteavano nel vuoto, la corda si attorcigliava e quindi riduceva la sua lunghezza costringendo i due uomini ad avvicinarsi pericolosamente tra di loro. Vedevo un immane crepaccio dove il pendio iniziava a perdere verticalità.

La sua bocca si spalancava al cielo con una larghezza che io avevo stimato, passando, di circa 8-10 m. e la cui profondità non poteva essere calcolata, affacciandosi.  Vidi i due uomini ormai ingoiati inesorabilmente dal mostro. Cosa poteva ormai salvarli?  La direzione e la velocità di caduta  non lasciavano speranze ai due disgraziati. Che morte orribile li aspettava!! Atterrarono a circa  30 m. dal bordo del crepaccio e lì successe l’imprevedibile. Il vento dei giorni precedenti aveva accumulato una grossa quantità di neve morbida e farinosa. I due volatili si infilarono nel dolce manto che li imprigionò e li trattenne. Con uno sbuffo si fermarono a 2 m. dal crepaccio. Io mi trovavo a circa 150 m. in alto e li vidi immobili, poveri sacchi accasciati nella neve. Corsi più che potetti per arrivare presto, ma la prudenza mi impediva di commettere sciocchezze perché ormai il pendio aveva scoperto le sue carte e non mi ingannava più. Ripassai il semitubo intimando ad altri alpinisti di lasciarmi il passo. Mi stupii che altri montanari, anche se avevano visto l’incidente, non avevano nessuna intenzione di fermarsi quantomeno per vedere se avessero riportato danni.

L'Aguille du Midi (3842 m) vista dai 4200 m della cresta sommitale del Tacul
Arrivai in un baleno, ma già si erano ripresi e miracolosamente non avevano riportato alcuna ferita o frattura . La corda che li legava ormai poteva essere di 5 o 6 metri, tutta annodata. Infilai la loro piccozza nella neve dura e vi attorcigliai la corda perché, anche se la neve li aveva fermati, la distanza che li separava dalla morte era di pochi metri ed il terreno ancora fortemente inclinato.  Non sembravano neppure tanto traumatizzati. Erano due spagnoli che mi raccontarono che il secondo aveva inciampato sui ramponi trascinando il primo che non si aspettava lo strattone. Erano scivolati per circa 50 m. fino a quanto il pendio aumentava fortemente l’inclinazione. Allora avevano urtato una sorta di trampolino ed erano letteralmente decollati. Chiesi  se fossero in grado di scendere autonomamente o se avessero bisogno di una sicura che io potevo fare loro. Gli dissi di non preoccuparsi e, dopo aver sostituito la corda con dei cordini, mi apprestai all’immane fatica di districare l’informe matassa.

La cosa mi riuscì dopo non poco tempo, ma non avevo nessuna intenzione di fare presto perché volevo vedere come proseguivano le cose. I due amici erano seduti a terra, uno aveva una gamba sotto il sedere. Lo sguardo mi sembrava terrorizzato anche se volevano far credere che tutto fosse ormai passato. Dopo ripetuti inviti ad accettare la mia compagnia per il ritorno, mi accomiatai e mi diressi verso il Tacul e quindi verso il Maudit. Dovetti faticare non poco per riprendere il ritmo di corsa perché tutto successe a circa 4100 m. su una esposizione nord ed io ero anche sudato e con una misera attrezzatura, senza giacca a vento e maglioni pesanti.

Del resto ero andato a correre ed i delicati fuseau dell’Arena ben presto raffreddarono i miei muscoli. Quando tornai però vidi che i due alpinisti erano ancora lì ed addirittura uno di loro ancora era seduto con la gamba sotto il sedere, nella stessa posizione in cui si trovava quando l’avevo lasciato.  Non vollero comunque il mio aiuto assicurandomi che ora stavano sicuramente meglio e che fra qualche minuto sarebbero ridiscesi con sicurezza.  Ma la giornata non era finita perché io salii fino alla cima del Tacul e quindi mi avviai verso il Maudit (4458 m.).
IL MONT MAUDIT
 
Alzai gli occhi al cielo e vidi verso la Francia un muro nero ed altissimo avanzare verso di me. Non si udivano suoni, ma  il nero profondo delle nubi era illuminato da lampi che ,  ininterrotti ,si scaricavano anche sul terreno . Non avevo mai visto una perturbazione con uno spessore così impressionante e con nubi tanto imponenti. Stimai in circa 3 ore l’arrivo dell’onda avanzata del ceruleo e tempestoso  mare per cui abbandonai immediatamente la salita e la cosa mi fece obiettivamente piacere perché iniziavo a presentare delle difficoltà respiratorie che conoscevo molto bene. Scesi di corsa ed arrivai alla stazione superiore che iniziava a nevicare, con il vento che aumentava ogni secondo la sua intensità, con raffiche che non avevano una direzione precisa.
Nevicò tutta la notte fino a pochi metri più in alto di Chamonix e tutta la notte i lampi ed i tuoni tennero spettacolo illuminando a giorno la valle. Al mattino c’erano due dita di ghiaccio sulle macchine e al di sopra dei 1200 m. la neve si era posata  abbondante.  Vi ho raccontato del maltempo perché in quella giornata c’era sul canalone Gervasutti del Tacul anche Robertino che stava effettuando il corso di guida alpina. Io ero sul Tacul, ma sul versante nord e mi ero accorto della perturbazione in arrivo ed ero potuto fuggire Erano sul versante est e non potevano aver vista la perturbazione proveniente da ovest. Le nubi ed il temporale si abbattè furiosa su di loro costringendoli ad un gelido e pericoloso bivacco in parete. La nottata fu paurosa in albergo, figuriamosi in parete, con i fulmini che ti accarezzano il viso e con una temperatura che a Chamonix scese a zero gradi. La mattina successiva, con un terreno tanto infido in quota, pensai di andare in ricognizione sul ghiacciaio dell’Argentiere fino al rifugio e quindi più su, fino dove si poteva arrivare senza pericolo a causa dell’abbondante nevicata. Mentre mi avvicinavo al Rifugio, sulla mia destra vidi uno scivolo di ghiaccio impressionante, con una inclinazione che lasciava senza fiato. Era il canalone de les Courtes e sul canalone, come seppi al rifugio, passava la via degli Svizzeri. Al Rifugio c’erano due stanze dedicate una agli alpinisti diretti a Les Courtes e l’altra a Les Droites. Il rifugio era immediatamente innanzi alla parete de Les Courtes e potetti studiare  l’itinerario che era estremamente semplice. Il pendio infatti era limitato ai lati da due giganteschi speroni che non permettevano, anche in caso di nebbia, di smarrire il percorso.  Ma la cosa non era così semplice come potreste pensare. Lo scivolo era impressionante, ma dopo la metà, sembrava perdere un po della sua verticalità. Bisognava però arrivare alla metà………
Tutto il canalone aveva un dislivello di circa 1300 m., perfettamente diritti, senza discontinuità, sembrava un’autostrada verso il cielo. Con la prima funivia dei Grands Montets raggiunsi la Croix de Lognan, a 2000 m. e mi diressi di corsa sul sentiero che porta al ghiacciaio pianeggiante dell’Argentiere. Mi lasciai sulla sinistra il Rifugio ed inizia a salire verticalmente su un pendio relativamente semplice. La crepaccia terminale mi si sbarrò innanzi già dopo poco tempo e mi accorsi che essa separava due mondi, quello degli escursionisti e quello riservato agli alpinisti. Mi trovavo ora in una parte del canalone che poteva avere un’inclinazione di circa 45 gradi, ma più in alto si vedeva chiaramente quanto ancora esso impennasse. La zona dove ero in quel momento sembrava pianura al confronto ed iniziai a preoccuparmi. Avevo percorso circa 250 m. di dislivello dalla crepaccia e potevo facilmente tornare indietro, ma non detti peso ai miei pensieri e misi la testa in basso e continuai a salire. Man mano che salivo il mio pensiero era rivolto ad una possibile ritirata e quindi stavo molto attento a che non facessi passaggi difficili da ripercorrere. Il pendio era perfettamente levigato. Solo alcune rigole solcavano il centro. Il quella zona il ghiaccio era troppo duro perché i miei ramponi potessero mordere con le loro punte arrotondate. Mi assicuravo quindi che le rigole non portassero fuori dalla traiettoria del mio percorso perché sarebbe stato arduo attraversarle. Intento a pensare a mille cose non mi accorsi che nel frattempo ero salito di molto lungo il canalone. Quando mi fermai un attimo a prendere fiato appoggiato alle piccozze, con la testa reclinata in avanti, il panorama mi apparve tra le gambe. Era un abisso pauroso, uno scivolo senza fine, anzi peggio, perché finiva su delle rocce nerastre che sembravano messe a bella posta per fermare gli sprovveduti che fossero scivolati.
Ora quasi non  potevo alzare le gambe per procedere perché le ginocchia urtavano al pendio. Ero costretto a stare aggrappato alle piccozze e a sporgermi all’esterno per poter  avanzare. Quanto a fermarmi neppure a parlarne. Riconobbi la strozzatura che avevo visto dal Rifugio e che segnava la fine della zona più difficile, ma si trovava circa 100 metri sopra di me ed il canalone si impennava ulteriormente. ( poi seppi essere di 70 e più gradi). Dovetti notare che non stavo in perfetto equilibrio sulle gambe, ma che tendevo a gettarmi verso il pendio aumentando la sensazione della verticalità dello scivolo. Questo era il segno che ormai potevo tornare indietro, se potevo.  Ma sarei stato in grado di scendere? Con piccozza e ramponi era differente che sulla roccia, gli appigli e gli appoggi non bisognava cercarli, bastava avere un perfetto equilibrio psico-fisico. Mi sforzai di far credere al mio inconscio di possedere tali qualità, ma egli non si fece ingannare. Il fatto di essere solo e di non avere un compagno che facesse una sicura anche se solo psichica stava minando la mia sicurezza ed iniziai a pensare che potevo scivolare.  Questo è per gli alpinisti il segnale che sta crollando la motivazione per cui essi vanno in montagna ed è il momento più pericoloso di un’ascensione. Il mio senso dell’equilibrio vacillava, più mi sforzavo di stare diritto sulle punte dei ramponi, più il mio cervello costringeva il mio corpo a gettarsi avanti in una illusoria sensazione di sicurezza. Poi pian piano, come se mi fossi solo allora adattato a quel mondo estraneo, ebbi la sensazione di essere a mio agio. Forse era solo perché ormai vedevo la base avvicinarsi, ma stimai in circa 50-55 gradi l’inclinazione. Pensate che la direttissima di Corno Grande, in inverno raggiunge a mala pena i 35 gradi. Ma ormai avevo ritrovato l’armonia con la parete e pensai addirittura di risalire. Mi capitava spesso di avere questi stati d’animo alternanti, ma io consideravo l’armonia con l’ambiente come la qualità più importante. Solo quanto non ci si sente estranei si può andare con sicurezza, non bisogna mai forzarsi ne tantomeno bleffare. Su un cadavere si piange solo per qualche giorno…….
Ora c’era solo divertimento, mi spostavo a destra e sinistra per allungare il tragitto di ritorno e godevo della sensazione di vuoto che mi procurava il pendio. Saltavo dentro e fuori le rigole ed immaginavo che  dal rifugio, con il binocolo, qualcuno stava pensando se quell’alpinista fosse caduto in preda al delirio delle altitudini.
Ogni tanto risalivo per qualche decina di metri e poi riscendevo e mi rendevo conto di stare acquisendo esperienza preziosa. Non nascondevo a me stesso comunque che non ero riuscito a salire non per vere e proprie difficoltà, ma solo per la mia paura. Mi aveva ricacciato giù il vuoto e l’insicurezza.  Questo fatto un po mi crucciava al ritorno, ma tutto scomparve quando ripassai al Rifugio dove trovai delle cordate che avrebbero effettuato il giorno dopo l’ascensione. Essi credevano che fossi salito interamente per la Via degli Svizzeri e quindi fossi tornato per lo stesso percorso. Mi affrettai a smentire raccontando loro la verità, ma essi mi guardarono lo stesso con un’ammirazione che mi rendeva inaspettatamente orgoglioso. Ero tornato indietro al punto più difficile e cioè lì dove il pendio arriva a 65 gradi di pendenza. Salire da solo fin lì significava comunque una discreta impresa. Inoltre dovetti spiegare loro del perché il mio percorso al ritorno sembrava essere stato consigliato da un ubriaco. Rimanemmo a parlare per alcune ore (erano spagnoli e quindi ci comprendevamo discretamente) raccontandoci delle montagne di casa nostra. Mi invitarono a salire con loro il giorno successivo, ma io rifiutai gentilmente adducendo la mia prossima partenza. Remo, al mio successivo compleanno, mi regalò una guida delle ascensione del Bianco di cui riporto un passo:
“E’una delle più grandi ascensioni su ghiaccio del massiccio e ciò per due motivi: passaggi estremamente ripidi alla fine del primo terzo della parete e continuità nell’inclinazione del pendio che non diminuisce mai. Il più bell’itinerario è quello degli Svizzeri poiché è il più diretto, ma è anche il più difficile…..DIFFICOLTA’: Ascensione di ghiaccio estremamente ripida”.
Forse quella che poteva sembrare l’ennesima sconfitta si era rivelata una grande vittoria. Vittoria per la vita perché io non ero assolutamente in grado di salire quella parete, ma ero salito superando quasi tutte le difficoltà ed ero addirittura tornato indietro incolume per la stessa via. Non ero stato particolarmente bravo. Era solo che il mio Santo protettore ancora una volta non si era preso un solo minuto di vacanza.
Rimasi al Rifugio fino al pomeriggio inoltrato, coccolato dai più svariati tipi di alpinisti, tutti evidentemente di modesta levatura, per i quali io ero quello che era salito e sceso per la Via degli Svizzeri.  A nulla valsero i miei sempre più deboli tentativi di sminuire la mia “impresa”. Dovetti spiegare a coloro che il giorno successivo sarebbero saliti, tutti i segreti e le difficoltà della via. Un po per la lingua un po perché non sapevo neanch’io cosa dicessi, probabilmente i miei consigli non dovettero essere molto utili. Mi schernivo e mi inorgoglivo contemporaneamente di questa mia figura di “esperto”. Del resto mi avevano visto tutti di scendere dal canalone, da solo e senza sicurezza, ma loro non conoscevano il mio stato d’animo ed io feci del tutto per farglielo comprendere. Tutto fu inutile, tanto valeva quindi reggere il gioco, ma senza tirare troppo la corda. In quei luoghi non si scherza, come ebbi a vedermene poco dopo. Finalmente decisi di lasciare il Rifugio prima che si facesse troppo tardi per prendere l’ultima funivia e mi gettai di corsa sul ghiacciaio pianeggiante. Agile come un ghepardo saltavo i crepacci ed i rigagnoli che incontravo scendendo, godendo della sensazione di potenza che mi procuravano i  miei muscoli tesi nella corsa. Arrivato alla confluenza con il glacier des Rognons mi fermai un momento per ammirare l’ultima volta lo scivolo che avevo salito e rimasi quasi terrorizzato. Credo che se lo avessi visto da lì per la prima volta, non avrei neppure pensato di tentare di salirlo. Però lo avevo visto dal Rifugio, dove la prospettiva mi aveva ingannato, presentandomelo di fronte e quindi apparentemente meno inclinato. Comunque ormai era fatta ed avevo vissuto una mia piccola giornata da grande alpinista, ma il personaggio devo dire che non mi si addiceva ed ero felice che fosse finita. Mi apprestai quindi a continuare la discesa quando scorsi una figura che si avvicinava correndo anch’essa. Iniziai quindi a correre non per una sfida verso lo sconosciuto, ma perché volevo rimanere solo. Dopo circa 10-15 minuti il ghiacciaio terminava la sua parte pianeggiante e mi volsi per controllare. Lo sconosciuto non solo non si era staccato, ma aveva addirittura guadagnato terreno, anche se di poco. La cosa non mi preoccupava perché ora il terreno diventava sempre più adatto a me.
Infatti il ghiacciaio aumentava la sua pendenza creando seracchi e crepacci, non pericolosi  perchè aperti e perfettamente visibili, ma comunque faticosi da percorrere per via dei continui saliscendi e dei salti che giocoforza bisognava affrontare per superarli. Saltavo come un capriolo, felice, le mie gambe mi portavano in aria senza fatica e senza sforzo. Avevo un allenamento superbo e in quel momento lo stavo dimostrando a me stesso e forse anche un po al mio avversario. Acceleravo nelle zone in salita e mi tuffavo come un fulmine nelle discese chiuse da seracchi e crepacci che bisognava saltare. Poi la traccia proseguiva sulla morena e quindi tornava sul ghiaccio in un tragitto complesso e faticoso, adatto a me. Infine vidi  il placcone di granito servito da una corda, che annunciava l’imminente vicinanza del sentiero che portava alla Croix de Lognan. Con un ultimo balzo atterrai direttamente sul morbido terreno del sentiero e mi apprestai a sciogliermi i ramponi. Udii uno sferragliare dietro di me e mi voltai appena in tempo per vedere il mio concorrente che si sedeva al mio fianco per liberarsi anche lui dei ramponi. Era proprio lui, aveva lo stesso colore del vestito e dello zaino.  “Non può essere lui” pensai “nessuno poteva raggiungermi alla velocità con cui ero sceso dal rifugio”. Voi direte che io sia un po presuntuoso, ma attendete un attimo. Sul momento mi voltai ed immaginate un po quale fu la mia sorpresa quando venni salutato in lingua francese da una dolce voce di una donna. Era una bella ragazza molto alta ed esile, dalle gambe lunghissime. Mi fece capire che se non ci fossimo mossi in fretta avremmo perso la funivia. Si sciolse i ramponi e li ripose con maestria nello zaino e si avviò di corsa sul sentiero invitandomi a seguirla. Saltavamo i tornanti e correvamo sugli sfasciumi e sui prati e devo dire che ebbi qualche difficoltà a non farmi staccare. Arrivammo appena in tempo per la partenza dell’ultima corsa, ma io preferii attendere qualche attimo allungato nel prato e quindi mi avviai camminando lungo il sentiero de les Chosalets, mentre la funivia si perdeva tra le ombre della notte.


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