Hammada Rbat (Marocco)
“Lasciata alle spalle la porta del forte o della città, superati i cammelli sdraiati all’esterno, vi inoltrate tra le dune o verso la dura pianura sassosa e per un attimo vi fermate, soli. Ben presto, o cominciate a tremare, e ve ne ritornate di corsa dentro le mura, oppure restate lì, lasciando che vi capiti qualcosa di molto particolare, qualcosa che coloro che vivono qui hanno sperimentato e che i francesi chiamano “le bapteme de la solitude”. E’ una sensazione unica, che non ha nulla a che vedere con la malinconia, perché la malinconia presuppone la memoria, mentre in questo paesaggio unicamente minerale, rischiarato dalle stelle come fuochi artificiali fissi, persino la memoria scompare e non resta altro che il vostro battito del cuore e il vostro stesso respiro a tenervi compagnia. E dentro di voi inizia uno strano processo di reintegrazione, niente affatto gradevole, e voi avete la possibilità di combatterlo, scegliendo di restare la stessa persona o di accettare che il processo compia il suo corso. Perché nessuno che sia mai stato nel Sahara, potrà essere lo stesso di quando è arrivato.
Paul Bowles
Le hammada sono delle sterminate distese rocciose, quasi sempre pianeggianti o appena inclinate, caratteristiche del Sahara. Non conosco la loro orografia, non so quali animali la abitino, so solo che per centinaia di chilometri non c’è nulla. Qui nel sahara il clima è diverso dal Sinai. Ogni deserto ha una sua individualità. E’ come in montagna, ogni monte ha un suo carattere, una sua peculiarità. Devo essere prudente, non so nulla di questa parte di deserto. Conosco il vento del Sinai, il suo immane calore, ora mi muovo tra i suoi monti e le sue valli come nel Gran Sasso. Qui è diverso, qualcosa di irreale e di inspiegabile mi avverte che devo essere prudente. La notte precedente sogno di essere un naufrago in un enorme mare di fango che a tratti mi permette di non affondare e quindi di camminare sulla sua superficie, e a tratti diventa liquido e devo nuotare per non affogare. Mi sveglio madido di sudore quando albeggia. Parto senza indugio, eccitato da questo primo assaggio del Gran Erg Occidentale. Seguo per pochi km la strada asfaltata e poi appena passata la porta che delimita il confine delle province, mi dirigo decisamente verso nord.
Non so dove vado. La cartina topografica qui è inesorabilmente vuota. E’ proprio questo vuoto che mi attira. Cosa significa vuoto? Possibile che i cartografi non potevano disegnare nulla? Staremo a vedere.
L’unico punto di riferimento è il gebel M’Goun alto più di4000 m . ma lontano circa 120 km . Nell’aria caliginosa del deserto spesso la visibilità è limitata e quindi potrebbe non vedersi. In compenso la sua direzione è esattamente verso Nord, quindi in casi di visibilità è un vero e proprio faro ed il ritorno sarebbe esattamente in direzione sud. Non è difficile orientarsi nel deserto, anche senza consultare la bussola. Il sole sorge a est e quindi segue la sua traiettoria sollevandosi a mezzogiorno sulla verticale del luogo. Per andare a nord quindi basta tenere la propria ombra sempre a sn fino a mezzogiorno, quando l’ombra scompare. Appena ricompare, dopo mezzogiorno, basta tenere l’ombra esattamente a destra. Il contrario per andare a sud.
Il sole non può sbagliare……se è visibile. Ma nel deserto è SEMPRE VISIBILE.L’unico punto di riferimento è il gebel M’Goun alto più di
Lascio alla mia destra un monte conico con la vetta mozza, alto circa 250 m sulla piana. E’ un ottimo punto di riferimento. La strada asfaltata l’ho lasciata proprio li, a ben vedere. La pista sale abbastanza netta e l’altimetro ben presto segna 150 m dalla strada asfaltata. Noto un netto gradino che mi stronca il respiro intanto che le gambe si abituino al nuovo ritmo di pedalata. La bicicletta è abbastanza pesante carica com’è di acqua. Non mi sono risparmiato, preferisco faticare di più, anche se in verità mi sono fatto un pò di conti ed ho concluso che l’hammada è in perfetta pianura e quindi qualche kg di più non avrebbe potuto incidere in maniera significativa sulla fatica complessiva. Inoltre porto abiti e un kway, telecamera, macchina fotografica e tutto ciò che serve per riparare la bicicletta lasciando quant’altro di superfluo la nostra civiltà ci fa credere sia essenziale. Ho detto che devo essere prudente. Già al primo mattino noto delle nubi lucenti. E’ la prima volta che vedo delle nubi nel deserto, non sarà l’ultima…..
Arrivo trafelato al bordo del gradino, circa 7 km dalla strada asfaltata ed una sensazione di disagio si impadronisce di me. Non voglio ammettere che si tratti di paura, ma una lieve vertigine passa davanti i miei occhi. Si può avere paura di qualcosa, di salire su un monte, di attraversare a nuoto un lago o un fiume, di camminare in un bosco.
Qui non c’è nulla di cui aver paura, semplicemente perchè …… non c’è NULLA. Non è facile descrivere la sensazione che provo. Mai un uomo europeo si deve confrontare con il NULLA. Qui l’occhio spazia fino all’orizzonte che si nasconde tra la caligine. Non c’è niente che possa fermare lo sguardo, davanti e di lato non un solo sasso più alto di pochi cm fermano il vento che spira inesorabilmente lamentandosi come un animale ferito. Controllo la bussola. Come mi orienterò in questo nulla? Sbagliare di qualche decimo di grado ogni km significa poter non trovare la via del ritorno. Nel Sinai o nell’Atlante le montagne rassicurano il viaggiatore. Anche un piccolo avvallamento riposa la mente.
Qui è inesorabilmente piatto. Non un filo d’erba si oppone all’implacabile rullo del vento. Filmo un pò di panorama ben sapendo che da ora in poi sarebbe inutile filmare o fotografare, tanto sarà sempre identico.
Aver preso la telecamera mi ha rassicurato. Questo misero resto di civiltà mi ha dato un pò di conforto. E non sono ancora partito… ed ho già bisogno di conforto.
Guardo indietro, verso il rassicurante monte e quasi decido di fare un giro tra le colline a sud, nei vari oued che le attraversano. Posso sempre tornare domani, tanto più che oggi sembra che il vento sia particolarmente fastidioso. Ma che ne so io che è la prima volta che vengo qui? Domani forse l’hammada si sarà ristretta? Parto lentamente quasi per darmi il tempo di decidere, poi accelero, metto l’ombra alla mia sinistra e vado.
Ogni 15 minuti mi fermo e controllo la presenza del monte dietro di me. Si vede ancora, quindi sono al sicuro. Poi mi fermo di nuovo, mi giro e non trovo nulla. A 360 gradi il nulla mi schiaccia. L’immensa distesa basaltica non ha la più piccola imperfezione. Il cielo sembra ancora più vasto e si dilata ossessivo da un orizzonte all’altro. Solo il sole macchia la purezza monotona del paesaggio. La bicicletta corre veloce nel terreno con ciottoli rossi e neri legati alle rocce sottostanti come un calcestruzzo. L’angoscia sale in me, ma il fascino del paesaggio è superiore alla mia debolezza.
E’ difficile spiegare dove sta il fascino, forse è un fascino interno a noi stessi. Forse ognuno troverebbe una diversa spiegazione del perché un paesaggio di tal genere dovrebbe essere affascinante e forse i più troverebbero solo monotonia. Mi fermo ancora con la speranza di vedere qualcosa e credo di vedere qualcosa. Forse è perché ho bisogno di vedere qualcosa, ma mi sembra che la linea perfetta dell’orizzonte sia macchiata da una minuscola asperità. Devo deviare appena un pò rispetto alla mia direzione e decido di andare a vedere. Finalmente ho una meta. Il mio cervello civilizzato rifugge la purezza. Diceva Saint Excupery: “Una cosa è perfetta quando non c’è più nulla da togliere, non quando non c’è più nulla da aggiungere”.
Qui tutto è perfetto, ma noi occidentali non siamo abituati alla perfezione e inconsciamente tendiamo a alterarne la purezza. Finalmente ho trovato qualcosa che insozzi l’orizzonte. C’è un piccolo brufolo. Noi non siamo in grado di confrontarci con la purezza, solo i tuareg sanno farlo e sopravvivere a questo confronto. Anche un compagno sarebbe sufficiente a fermare lo sguardo che altrimenti si smarrisce all’orizzonte e oltre, li dove alligna il nostro inconscio. E pedalo verso l’orizzonte, con la speranza che esso non finisca. Il piccolo brufolo cresce e man mano che si avvicina mi rendo conto che sto irrimediabilmente abituandomi alla perfezione. Ora mi da fastidio quel riflesso abbagliante che si para di fronte a me, mi sembra un estraneo. Ecco cos’era quel brufolo.
Una carcassa di una Renault 4 spogliata da qualunque cosa possa essere asportata. Probabilmente era rimasta in panne e chissà se i suoi passeggeri si sono salvati. Mi trovo a 50 km dalla strada asfaltata e a piedi non è un gioco. Un sentimento di soddisfazione mi pervade, l’uomo ha vinto sulla macchina. Essa giace inerme ed immobile nel deserto. Riparto seguendo la mia ombra…ma dov’è la mia ombra? Alzo lo sguardo al cielo e non trovo più il sole. Non ci sono nuvole, solo una cappa PERFETTA di nebbia alta lo nasconde. Non è stata una cosa improvvisa, come quando ci sono le nuvole. Pian piano essa ha coperto la luce del sole senza che io avessi la sensazione della sua scomparsa. Controllo la bussola. Ora dovrò proseguire seguendo il suo ago. Nella mia vita difficilmente mi sono servito della bussola ed ora mi trovo a disagio. La mancanza del sole fa riaffacciare le mie paure. Almeno il sole alterava l’equilibrio e la simmetria del paesaggio. Ora tutto è di nuovo irrimediabilmente PERFETTO.
Il vento ha cambiato direzione ed ha aumentato la sua forza, mentre un brontolio lontano mi fa voltare. Credo che sia un aereo, ma ben presto cambio opinione. Il rombo si ripete facendomi comprendere che potrebbe trattarsi di un temporale lontano. Il vento rinforza ancora e credo che potrebbe cominciare ad alzarsi una tempesta di sabbia. Qui il terreno è roccioso, senza sabbia, ma il grande erg è a 100 km alla mia destra ed il vento fa presto a percorre 100 km senza alcun tipo di ostacolo. Ed il vento proviene proprio da li. Pedalo ancora per qualche ora e non mi fermo a filmare o a fotografare, tanto il paesaggio è sempre identico a se stesso, non cambia nulla da almeno 40 km , tutto è PERFETTO ed io vivo nella perfezione, sono permeato in essa. Quanto mi sento insignificante qui dove non ci sono alte montagne che ci ammoniscono della nostra piccolezza. Qui io sono ciò che di più alto è presente. Dovrei essere io a sovrastare tutto, ma il tutto invece mi schiaccia e mi annichilisce. Scompaio nella grandezza della PERFEZIONE. La solitudine mi pesa, vorrei poter parlare, scambiare opinioni, sentire qualche voce, ma solo il vento ed il brontolio del tuono lontano mi rispondono, mentre il cielo foscoso si scurisce ad ovest, li dove le nubi nascondono l’immenso Toubkal.
Da lontano indovino un avvallamento e devio verso destra per percorrerne l’imperfezione. Man mano che mi avvicino una valle compare.
E’ una canyon largo almeno qualche km ed al di la l’hammada prosegue implacabile. Il fondo piatto ed abbagliante è stato scavato da millenni di scorrimento delle acque e nel suo centro si innalzano delle colline risparmiate dall’erosione. Finalmente qualcosa da fotografare. Evidentemente l’umidità deve essere un tantino più alta perché qualche rado cespuglio tenta di crescere sul bordo dove mi trovo. Lo sguardo si posa sull’orizzonte e finalmente intravvedo il M’Goun. Ora tutto è più semplice. L’hammada non fa più paura. Le vette altissime proteggono il mio inconscio dalle irreali paure, ma devo ancora tornare ed affrontare il tragitto di ritorno. Ora non ci voglio pensare. Lascio il luogo a malincuore, ma una sorpresa gradita mi attende. In un’incavo del terreno scorgo dei massi. Mi avvicino e trovo un’ovile.
E’ identico agli stazzi abruzzesi che si trovano sulla montagna di Bagno o sui monti di Assergi. Mi aspetto che compaia il nostro ben noto pastore, con la sua giacca quasi distrutta dalle intemperie e dal duro girovagare tra i monti. Il muro di sassi a secco delimita l’ovile che presenta anche una zona coperta, ma non c’è nessuno, neppure tracce di ovini si trovano sul terreno duro e riarso.
Comunque è una presenza umana. Forse si trovano al pascolo alle prime propaggini dei monti che qui ormai sono distanti pochi km. Proseguo verso i monti, poi decido di fermarmi a mangiare. Il pane, datteri e formaggio di capra ristorano non solo il corpo affaticato, ma anche la mia anima. Bevo l’acqua abbondantemente.
Non ho sofferto affatto il caldo, sono abituato al Sinai, ai 50 gradi ed oltre del wadi El At. La temperatura non è salita oltre i 45 gradi, è un paradiso, ma non ho fatti i conti con il vento che ha spirato continuamente disidratandomi in maniera subdola. Alle prime pedalate del ritorno una strana sensazione di crampi imminenti mi mette in agitazione. Ce la farò a pedalare per 80 km sulla sterminata hammada se i crampi dovessero bloccare le mie gambe? Eppure ho bevuto, ma non basta. Ho reintegrato l’acqua, ma non i sali che il sudore ha fatto perdere al mio corpo. Per principio non uso integratori ed ora potrei pagarne lo scotto, ma a me va bene così, quindi non mi lamento. In compenso il vento ora ha una componente favorevole alla direzione che devo seguire, verso sud. La velocità del ritorno aumenta, ma la stanchezza mentale mi fa credere ogni momento di poter avvistare il monte piatto che meticolosamente si rifiuta di comparire. Quando avvisterò il monte saranno ancora 15/20 km da percorrere. Mi fermo un momento e mi volto.
Sono circa due ore che attorno a me c’è di nuovo il NULLA, ancora più opprimente a via della stanchezza. Non so se è un miraggio, ma mi sembra che in lontananza ci sia un’uomo che barcollando si dirige verso di me. All’inizio sembra un fantasma, coperto dalla foschia della piana, poi diventa sempre più nitido fino a diventare netto ed evidente. E’ un tornado, non troppo grande che sembra proprio aver intenzione di venire a vedere chi io sia. Ondeggia nel plateau rovente, sollevando la poca sabbia che il vento vi ha trasportata, ma tale da renderlo opaco e denso. Come un ubriaco non si decide a prendere una direzione precisa, ma inesorabilmente si avvicina. Non ho paura, ma salgo di nuovo sulla bicicletta e tento di allontanarmi. Mi segue come un’ombra fino al punto che stimo di non poter ulteriormente fuggire e quindi mi fermo e prendo la telecamera. Filmo il suo ormai inesorabile avvicinamento. Quando si trova a qualche centinaio di metri improvvisamente perde la sua forza, ma in compenso ora mi piomba addosso con precisione. Alla distanza di circa 50 m il vento aumenta in maniera insospettata anche se ormai sembra quasi esaurito. Mi gira attorno e perde ancora forza. Ora è quasi trasparente, ma quando mi investe, il vento per poco non mi fa cadere. Immaginate cosa può essere un tornado delle steppe americane! Dopo questa piccola tempesta il vento è calato improvvisamente. Tutto è calmo e la desolazione perfetta del luogo è ancora più opprimente. Pedalo ma non si vede il monte di casa. Che abbia sbagliato rotta? Mi fermo a riflettere. Cerco di ricordare dove sono passato, ma è tutto simile a se stesso. Neppure un cane saprebbe orientarsi. Sicuramente sto andando a sud, di questo sono sicuro, ma è l’unica sicurezza che posso addurre per ricacciare indietro la paura. Se il sole avesse cambiato rotta? Se l’avesse fatto tanto per farmi dispetto? O se più realmente in quelle ore che non si vedeva io abbia deviato di un non ben precisato angolo? Ora sto andando a sud, ma su una rotta parallela a quella percorsa all’andata. Non riesco a stimare se mi trovo a est o ad ovest di essa. Se mi trovo a est il problema è risolto, perché impatterò in ogni caso nella strada, ma se mi trovo a ovest non avrò riferimenti fino a quando non compariranno le montagne. E le montagne sono lontane almeno 70 km da qui. Comunque sarebbe solo questione di tempo. Mi fermo in un posto qualunque mentre un continuo brontolio lontano mi riporta alla realtà. Guardo indietro e noto con piacere che ora si vedono le montagne. Poi mi rendo conto che non sono montagne quelle che vedo. Mi concentro e finalmente appare ciò che di più orrido i miei occhi hanno assistito in molti anni. Un muro enorme, le montagne vengono verso di me. Tutto si muove, mentre lampi continui scoccano incessantemente tra le nere rocce volanti. Come un rullo compressore, tutto avanza con rumore di cingoli. Un arcobaleno alla mia destra si mostra timidamente quasi a voler addolcire l’orrendo spettacolo. Piccoli e grandi tornado precedono la tempesta e si muovono come ballerini alzando turbini di polvere. Prendo la macchina fotografica, ma poi la ripongo nella custodia ed immediatamente inforco la bicicletta tentando di sfuggire alla furia cieca del mostro che inesorabilmente si avvicina sempre di più. Non sono nubi quelle che stanno per investirmi, è un monte nero ed urlante. Fuggo pedalando a perdifiato nella pianura che improvvisamente ha perso tutti i suoi colori ed è diventata nera, anzi neppure nera, ha semplicemente perso i colori e tutto il panorama è diventati incolore. Il vento mi risucchia nella tempesta e tutte le mie pedalate rallentano come in un sogno. Alcuni fulmini mi sfiorano, sento le cariche elettrostatiche che mi percorrono la fronte ed i capelli. Non credo di avere più speranza di sfuggire al turbine, tanto più che nella fuga non ho più controllato la bussola e quindi ora non so di quanto sono fuori rotta. Il vento aumenta e mi aspira nella tempesta come un elettrodomestico. Conviene fermarsi ed attendere preparato. Indosso il kway e mi avvolgo al collo tutto il copricapo tuareg che consiste in un panno lungo circa 5 metri e largo 70/80 cm. Mi servirà per non soffocare nella sabbia. Metto la bicicletta a terra e mi sdraio su di essa, ma quando tutto sembrava perduto, la tempesta rallenta il suo moto. Decise gocce di pioggia mi bagnano e la grandine inizia a tamburellare rimbalzando sul terreno roccioso. Uno spiraglio luminoso dipinge due arcobaleni concentrici e questo mi tranquillizza. Un piccolo rigagnolo si è formato sotto i miei piedi e scorre nella piana apparentemente perfetta. Un altro rigagnolo lo raggiunge ed insieme corrono rinforzati gettandosi su un minuscolo torrente. Mi sembra strano vedere dell’acqua scorrere nel deserto e quasi sono felice di quel raro spettacolo. La tempesta si è fermata e non avanza più verso di me. Anche questa volta è fatta! Ma ho cantato vittoria troppo presto. Il deserto ha in serbo ben altre sorprese. Mi metto di nuovo in moto seguendo l’ago della bussola e sperando che l’elettricità non abbaia alterata la sua direzione. Mi allontano anche dal metallo elettrizzato della bicicletta per essere sicuro che l’ago non sia stato influenzato. Mentre pedalo mi rendo conto che il terreno non scorre sotto le ruote. In realtà dell’acqua mi ha raggiunto e scorre nella mia stessa direzione. Per il momento è solo un sottile velo, ma è perfettamente omogeneo. Mi fermo e guardo indietro. La tempesta si è allontanata , ma ha indubbiamente aumentata la sua furia. Si sente lo scroscio dell’acqua.
Vedo un fiume enorme, praticamente tutta l’hammada è diventata un lago che scorre lentamente verso di me. L’acqua sale alle mie caviglie e dalla tempesta sgorga sempre più un ribollire d’acqua. Salgo e pedalo, ma già il terreno è diventato fangoso e pedalare ora è faticosissimo. E l’hammada non ha fine….. Come farò a superare il gradino? Lì ci sarà una cascata enorme. L’hammada finisce in vari oued che saranno in piena. Come li supererò? Per ora non voglio neppure pensarci. Se aumenta il livello potrei venir trascinato via già da qui. Credo che fin che sarò nella piana l’acqua non potrà salire a tal punto da sommergere centinaia di km quadrati, ma negli oued è un’altra cosa. Ma ora non trovo il monte che mi farà da guida, eppure deve essere ormai vicino. La luminosità ora è spettrale e tutto assomiglia ad una bolgia dantesca. Manca solo Lucifero, anzi, ora che ci penso, egli c’è. E’ mascherato da tempesta., ma sento il suo fiato alitarmi nella schiena, sento la sua voce che mi ammalia e che mi costringe a fermarmi e ad ammirarlo, facendomi perdere del tempo prezioso per la mia salvezza. I turbini si fanno più radi, ma i piccoli tornado ora innalzano colonne d’acqua che poi rilasciano improvvisamente come dei catini immensi.
Pedalare nel velo d’acqua mi mette le vertigini, come sciare nella nebbia. Intravvedo nella foschia un piccolo rialzo. E’ il monte mozzato? Non riconosco la sua sagoma, chissà dove sarò andato a finire. Orograficamente credo che tutta l’acqua si getti nello oued Draa che è il fiume che passa a Ouazazade. Io ho pedalato nella direzione di scorrimento dell’acqua e quindi credo di essermi almeno avvicinato alla città, ma dove sarò? E se non arrivo in un posto conosciuto prima di notte dove potrò almeno solo sedermi? Ora però mi sento sicuro. C’è un monte davanti a me. Almeno li sarò al sicuro dalle acque. Basta un monte per ridare la fiducia a me stesso. Quel monte che sembrava roccia invece è polvere e fango e salire fino alla sella tra le sue cime è un tormento, con gocce d’acqua gelata che mi rigano la schiena e chicchi di grandine che mi rimbalzano sulla fronte. Non è un buon segno la grandine in un posto tanto caldo. Significa aria molto fredda che contrasta con l’aria torrida formando tempeste e turbini, folgori e alluvioni. Ed io mi trovo proprio nel mezzo. Vedo il gradino da cui precipita una cascata d’acqua senza fine ed alla sua base ormai c’è un lago mutante. Un pò di sole fa capolino tra le brume e mi permette di scorgere verso sud il villaggio. I raggi solari,insinuandosi tra le brume, dipingono colori fiabeschi mentre un arcobaleno TRIPLO disegna il cielo. Mi fermo affascinato, ma improvvisamente, così come era comparso, svanisce nel nulla restituendo al paesaggio l'opprimente ed incolore scenario.
Sono al sicuro! Ma ancora una volta mi sbagliavo. Devo scendere, e più scendo, più mi rendo conto dell’orrore che devo superare. Mi trovo su una lama di terreno, ma alla mia destra e alla mia sinistra due immensi fiumi urlanti si abbattono verso valle. Non è acqua, è fanghiglia dorata che scorre come miele verso il villaggio. Devo attraversare uno dei due fiumi qui a monte, perché più a valle non sarà più possibile. Tento di attraversare, ma la corrente mi trascina. Eppure non ho scelta. Mi viene da pensare se i grandi alpinisti , come Messner, hanno mai avuto paura di fronte alla grandezza della natura. Chissà se mai egli ha avuto paura della morte. Io non l’ho mai temuta. Forse qualche volta, gli anni scorsi, nei rari momenti di felicità. In quei momenti forse ho avuto paura di perdere la possibilità di gioire della fortuna che la vita mi aveva riservata. Ma ora sono tornato come quand’ero giovane, quando non avevo paura di nulla. Ma non sono uno stupido ne un’incosciente. Un altro pensiero mi assale. Gli oued sono il regno dei cobra e degli scorpioni. Chissà quanti di quegli animali ora nuotano disperatamente tentando di salvarsi dalla piena. Quando lo attraverserò qualche cobra potrebbe urtarmi e tentare di avvinghiarsi per non affogare. Gli scorpioni non mi preoccupano, perché il loro morso lascia almeno 8 o 9 ore di vita, ma il cobra è rapido. In meno di un’ora tutto è finito. Se dovesse mordermi non ci sarebbe scampo. Non ho mai avuto paura dei serpenti nel deserto. Allo scoperto non mi fanno paura e nessun serpente ha mai aggredito un essere umano, a meno di non sedercisi sopra o intrappolarlo senza uscita. Ma qui è un roulette russa. Nell’acqua fangosa non c’è visibilità. Non mi rimane che una semplice strategia. Metto la bicicletta a monte così che i raggi delle ruote mi proteggano da qualunque cosa scenda con la corrente e parto. L’acqua non è alta, mi arriva appena sopra al ginocchio, ma la corrente è forte ed il fondo scivoloso. Inoltre lo oued è largo quasi 500 metri e quando sono al centro un senso di sconforto, anche se non di paura, mi assale. Morire affogato nel Sahara è troppo! E mi darebbe oltremodo fastidio! Si formano onde ocra e gialle, sfumature viola e rosse si alternano a momenti grigi e senza colori, tutto scorre sotto le mie gambe, mentre percepisco con certezza che il livello aumenta. Sento il mio peso diminuire man mano che l’acqua sale, ma la seconda parte dello oued è più bassa e passo velocemente. Ora salgo la collina che divide due fiumi e mi dirigo alla strada asfaltata. Arrivo alla strada e mi ritrovo con una folta compagnia di macchine in attesa di attraversare l’ennesimo oued.
Nessuno ha il coraggio di tentare l’attraversamento. Nel Sahara gli oued (fiumi secchi) sono attraversati dalle strade che li percorrono nel loro interno, senza ponti. La cosa è logica, visto che piove così tanto ogni 70/100 anni, come poi mi hanno raccontato i tuareg. Quando capita però è difficilissimo attraversarli, come ho costatato di persona.
Si ferma sul bordo ed io non mi faccio scappare l’occasione, così come decine di persone a piedi che attendevano di attraversare. Montiamo tutti sull’altissimo camion e tutti mi aiutano a caricare la bicicletta, volendo poi sapere da dove diavolo provenissi dato che mi avevano visto scendere dalla direzione dell’hammada. Parlo in francese maccheronico che tutti asseriscono di capire perfettamente. Con il camion traghettiamo altri due oued ed arriviamo al villaggio.
Il camion ci lascia e scendiamo tra le case sommerse dall’acqua che scorre tumultuosa tra le vie ed i vicoli. Tutti gli abitanti sono intenti a trasportare fuori le misere suppellettili, mentre tutto crolla davanti ai miei occhi.
L’acqua scioglie i muri come neve al sole e tutto ridiventa quello che era : polvere. Tutto viene riassorbito dalla natura e tutto viene spianato. Tutto deve di nuovo essere…….PERFETTO. Urla e gemiti degli abitanti si mischiano ai tuoni in lontananza. Il crepuscolo già è passato e la notte incalza mentre continua una pioggia beffarda. Tra poco sarò al sicuro in un albergo di roccia granitica sul punto più alto di Ouarzazade, ma loro resteranno a salvare le loro vite e i loro poveri beni. Supero altri due oued con la bicicletta e l’acqua ai mozzi. E’ notte inoltrata. Arrivo all’albergo, con le gambe intirizzite dal freddo e bloccate da 164 km di pedalata. La cena è pronta, fumante ed abbondante sui tavoli. 15 o 20 portate dei migliori piatti marocchini ed internazionali.
( Il mattino successivo, in albergo....sembra che non sia successo nulla.....
Mi siedo tra i turisti ben vestiti ed asciutti, profumati e festanti. Tutti raccontano della tempesta a cui hanno assistito da dietro i vetri dell’albergo. Tento di raccontare il dramma degli uomini, a qualche km da qui, ma non interessa a nessuno. Mi interrompono spesso per parlare d’altro. Non ho fame, mi alzo ed esco. Ho bisogno di aria pulita, di quella che respiro nel deserto…………………………
Aggiornamento del 1/4/2012
Ho trovato un articolo che riporto su una simulazione di un atterraggio su marte.Guarda un po dove lo hanno orgnizzato? Proprio nell'Hammada Rbat...mi sembrava, in effetti, di essere su Marte..
L'articolo:
Mentre Curiosity, a spasso sul suolo marziano dallo scorso agosto, è a caccia di forme di vita sul Pianeta rosso, in Marocco, nei pressi di Erfoud, un team di ricercatori internazionali è impegnato in Mars2013, la simulazione di un atterraggio su Marte da parte di un equipaggio umano, con tanto di test su comunicazioni e tute spaziali e, ovviamente, esperimenti scientifici. Fino al prossimo 28 febbraio infatti il deserto marocchino sarà l'anologo terrestre di Marte, ospitando gli scienziati della missione della Austrian Space Forum (OeWF), provenienti da 23 diverse nazioni.
Punti chiave della simulazione (che segue quella del viaggio di andata e ritorno su Marte di Mars500) sono: addestramento con speciali tute spaziali per l'esecuzione degli esperimenti su un pianeta con diverse condizioni, prova di nuove tecniche di rilevamento geofisico e biologico e studio approfondito del deserto sahariano per prendere confidenza con gli analoghi deserti marziani e i corrispettivi ambienti estremi. Tutto per preparare un potenziale equipaggio ad un viaggio di successo e sicuro verso il pianeta marziano.
Così, tra gli esperimenti in programma c'è il test di piccoli e leggeri quad come nuovi sistemi di locomozione sul suolo marziano, insieme a nuovi rover semiautonomi, un dispositivo laser per rivelare tracce biologiche, un sistema di imaging ad alta risoluzione e un metodo per la perforazione del terreno.
Parte integrante della missione però sarà anche il test sulle comunicazioni: “Durante Mars2013 un ritardo di dieci minuti sarà embeddato nelle comunicazioni tra Innsbruck (Terra) e Marocco (Marte), che è decisivo per il successo della simulazione su Marte e ci permetterà di imparare molto”, ha spiegato Alexander Soucek, a capo della centro di controllo in Austria: “al momento la simulazione in Marocco è l'unica al mondo che incorpora un ritardo di tempo.
Quello impiegato per una trasmissione a senso unico è di dieci minuti, che significa ricevere una risposta a una domanda dal team su Marte in circa 20 minuti”. Tra Marte e la Terra, quelli reali, infatti il tempo impiegato dalle onde elettromagnetiche per viaggiare da un pianeta all'altro può arrivare fino a 22 minuti, concludono gli scienziati.
(Credits immagini: OeWF, Katja Zanella-Kux)
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