mercoledì 25 aprile 2012

WADI MANDAR: il labirinto.

                               
SILENZIO E SOLITUDINE
Solamente chi vive nel deserto
ne conosce il silenzio
che scende da ogni stella palpitante
e dalla bianca tomba della luna.
Si stende senza palpiti il deserto
simile al cuore di una donna morta
che nessuna carezza può svegliare
Solamente chi è perso nel deserto
senza canti di uccelli
né stormire di fronde
nell'arido grigiore
di pietra e sabbia
conosce la vera solitudine
Io mi sono disteso
in questa immensità che scava
di sotto ai nostri piedi
la cuna della tomba e del vagito
                                      (Canto tuareg)
                            
Su una guida turistica avevo visto una gita da fare in fuoristrada. Diceva mirabilie su uno wadi neppure tanto lontano. Urgeva andare a vedere di cosa si trattava.

Il tragitto sembrava abbastanza ben descritto e relativamente facile, anche se si parlava di fuoristrada 4x4 e non di bicicletta e gambe. La cosa non è perfettamente identica. 50 km in fuoristrada su terreno molle e con temperature di 55 gradi è una risata, appena una o un’ora e mezzo, seduti comodamente in una cabina magari climatizzata e ben forniti di bibite in frigobar. Sul terreno, in bicicletta può essere un’inferno.
Dato che a me fanno ridere decine e decine di  km in un deserto molle ed ardente, ho pensato di non percorrere lo wadi partendo dal villaggio che si trova al suo sbocco e poi risalirlo e tornare indietro. Quando sono andato al Wadi el At mi sembrava di riconoscere un monte che doveva essere al lato dello wadi Mandar e che avevo visto in una foto della guida.
Quindi quale meglio decisione di risalire il Wadi el At, tentare di trovare un valico che porti nello wadi Mandar e poi ridiscendere nelle sue sabbie fino al villaggio? Ci sarà il passo? E poi anche se ci fosse, chi mi dirà che quello è proprio lo Wadi Mandar che mi porterà fino al villaggio? E se non fosse lo Wadi Mandar dove andrò a finire? Staremo a vedere. In ogni caso porterò una quantità d’acqua che mi dovrebbe bastare per due giorni, quindi non avrò preoccupazioni.
(Il percorso dallo W El At al Mandar. Visto da google sembra facile, ma sul terreno è un labirinto inestricabile di valli collegate da valichi impercorribili)

 L’unico problema è sempre il solito. Se mi si dovesse rompere irrimediabilmente la bicicletta quando sarò alla massima distanza non sarei in grado di tornare. Questo è un po come quando si arrampica.
 Se non ci si fida della corda o dei chiodi il discorso è già bello che chiuso. Ci si deve PER FORZA fidare. Ma in realtà nessun rocciatore pensa che possa mai cadere. Non si può andare sui monti con la paura della morte o di cadere. In montagna ci si va per la vita, non per la morte. In conclusione, è inutile pensare a tutto quello che potrebbe succedere. Infine chi mi dice che non potrei tornare  da 50 km di distanza?
Ancora non albeggia quando parto in una giornata che sembra la più torrida di quest’anno. L’aria notturna quest’oggi è calma e umida come mai avevo sentito. Chissà cosa significa. Anche il sole sorge perforando una bruma inglese. Il vento non si alza. Sul momento sono contento della sua assenza, posso pedalare senza sforzo verso lo Wadi el At. (Cfr Wadi El At in questo blog).  La bicicletta è carica fino all’inverosimile di acqua, porto circa 16 litri, che sembrano molti quando si sta seduti alla Villetta dopo aver sciato, ma qui sono meno che niente. Per essere in equilibrio idrico, durante lo sforzo sotto il sole di luglio nel deserto, ci vogliono anche 3 litri l’ora. Quindi sono circa 4 h di autonomia, ma poi c’è la resistenza dell’organismo.

Comunque bastano per un giorno in maniera abbastanza tranquilla. Il sole non è poi così assassino per tutto il giorno. Solo per tre o quattro ore egli è micidiale, poi la sua forza decresce e il deserto diviene vivibile e……pedalabile. E poi c’è la notte, che sembra fatta apposta per fare una prestazione fisica, con temperatura ed umidità ottimale. Durante la notte si può raddoppiare il percorso effettuato durante il giorno.  La strada corre. Conosco il tragitto e quindi sembra tutto più corto. Il sole ancora non sbuca completamente dalle brume, ma quando finalmente lo fa, si accende la stufa. L’aria vibra, ma non si muove. Il villaggio è addormentato, ma il cammello da guardia lancia un grugnito sinistro. Sapete che qui non ci sono cani? Non ne ho mai visti nel deserto. Del resto da chi dovrebbero difendere le capre? Poi i cani sono carnivori e quindi di che si dovrebbero nutrire se non delle stesse capre? Lascio velocemente il villaggio e risalgo in maniera inaspettatamente veloce lo Wadi. Ricordo ogni particolare ed anzi c’è la mia traccia  di qualche giorno prma ancora perfettamente intatta. Prima del termine dello wadi mi fermo, faccio colazione con il solito pane e datteri e studio il territorio. Lo Wadi Mandar si trova a nord, quindi dovrebbe essere ora di lasciare il terreno conosciuto e tentare di trovare un valico che mi porti nel Mandar. Mi inoltro in una valle che sembra risalire verso nord. Ai lati non ci sono alte montagne, ma colline di terra rossa ed il terreno è abbastanza pedalabile.

Forse la fortuna aiuta veramente gli audaci perché sembra che ci sia uno sbocco a poca distanza da me. Mi sembra tutto troppo semplice, ed io non mi sbaglio facilmente…..
Ben presto le montagne che si trovavano all’orizzonte si avvicinano e più si avvicinano, più mi rendo conto che sono invalicabili. Diventano un muro aggettante sulla mia testa.

Alla mia destra non c’è speranza di valico, mentre sembra che a sinistra il monte dia un minimo di tregua al cielo. Andare a sinistra però significa allontanarsi dalla direzione est da cui provengo e significa che poi dovrò percorrerla per tornare. Sotto il monte la temperatura aumenta, anche perché il terreno è nero e tutto inizia a ballare. Non so se questa sensazione sia oggettiva o soggettiva. Provo a stropicciarmi gli occhi. Mi fermo, bevo, mi distraggo un po, cerco di non pensare per non farmi influenzare, ma nulla cambia alla mia vista. Percorrere la zona pedemontana per cercare un valico diventa una sfida contro il calore e la voglia di abbandonare. Strette valli scendono dalla parete e tagliano il mio percorso perpendicolarmente. E’ un saliscendi infernale in un’aria sottile e rovente che fa male alla gola. Basterebbe seguire una qualunque delle valli e il tormento sarebbe finito.

Ma dove sta il gusto nel non avere sete? Nel non sentire i muscoli che reclamano sali minerali ed acqua? Nel non sentire il cervello bollire ed udire ciò che non c’è e nel vedere ciò che non esiste? Dove sta il gusto nel non sentire il cuore battere tumultuosamente, fermarsi e poi ripartire come all’ordine di un direttore d’orchestra?
Dove sta il gusto nel sapere sempre che durante una gita si parte e si torna sempre? Nella nostra civiltà tutto deve essere stabilito, tutto programmato. Devi fare questo e questo, devi lavorare e comperarti la macchina…….. Qualunque imprevisto mette la nostra civiltà e noi stessi al tappeto. Guai ad essere stanchi o ad avere sete o fame.
Qui non c’è tutto questo. Qui non c’è nessuna sicurezza, siamo fuori la nostra campana protettiva e forse solo qui mi accorgo che normalmente viviamo in una gabbia, comodi  e sicuri quanto si vuole, ma pur sempre una gabbia.

Finalmente una valle più stretta ed incassata tra le argille pedemontane mi sembra promettere un tragitto verso nord. Ai suoi lati, man mano che procedo, l’argilla lascia il posto alla roccia, che si alza come un muro inclinato. La valle corre quasi in pianura e poi, repentinamente così come quando era iniziata, finisce. Esco allo scoperto in una valle che non sembra procedere verso alcuna direzione. Non sembra uno wadi, anzi, sicuramente non lo è.

                                               (Una delle valli interne)
Forse è meglio tornare indietro e tentare più a ovest. La sola idea di ripercorrere tutte le valli mi mette il terrore, meglio esplorare bene il posto dove mi trovo. Salgo su una collina alla mia sinistra, quella che mi sembra più facile da percorrere. La sua cima tonda mi permette di osservare tutto il panorama. Lo sguardo si perde all’orizzonte, ma man mano che focalizzo le zone più vicine, mi rendo conto di cosa mi aspetta ed un brivido mi corre nella schiena. Tutto il territorio è composto la un tavolato piatto, largo non so quanti km, da cui emergono monti ripidi, in realtà non eccessivamente alti, solo poche decine di metri. Le loro pareti sono però ripide e difficilmente superabili.

Strette valli corrono tra questi monti formando un labirinto inestricabile. Ci sarà pure una via per passare, ma ogni volta che tento di seguire con lo sguardo una valle, questa prima o poi si ferma contro una parete. Alla fine, dopo aver riflettuto per qualche minuto, credo di aver trovato il bandolo della matassa. Credo, ma non ne sono sicuro. Inoltre non sono certo che al di la del labirinto si trovi lo wadi Mandar. Tornare indietro sarebbe più facile, perché potrei seguire le tracce della bicicletta. Bevo dell’acqua che sembra scendere nella gola come un sorso di centerbe a 75 gradi. Brucia come un boccone di peperoncino. Bevo altra acqua perché questi sono i primi sintomi della disidratazione. Controllo l’acqua. Ancora ho scorte a sufficienza e mi tranquillizzo. Mi avvio in discesa senza scendere dalla bicicletta, con circospezione sul terreno duro e sassoso. Arrivo alla pianura e un impeto di sdegno compare sul mio viso.

 Il terreno della pianura, che da lontano sembrava sabbioso, è invece durissimo e, benchè le ruote corrano senza sforzo, esse però non lasciano la  minima traccia. Se dovessi tornare indietro, non potrei seguire il tragitto già segnato. Dovrei essere in grado di riconoscerlo. E la cosa non è così facile come sembra. Più mi inoltro nel labirinto, più mi rendo conto che è tutto perfettamente uguale. Dopo pochi minuti già non sono più sicuro di stare seguendo la valle che avevo attentamente studiata. Dopo circa un quarto d’ora sono completamente fuori rotta e la valle mi porta verso est invece che verso nord. Devo tornare indietro e tentare un’altra strada. Comunque devo seguire un metodo scientifico perché altrimenti potrei andare avanti ed indietro nella stessa valle fino a notte. Tento di ritornare al punto di partenza, ma la cosa non è così facile. Sono sicuro di aver percorsa questa valle, ma quando una parete ferma il mio cammino, allora mi accorgo di aver sbagliato.
                         (La mia strada si interrompe sotto una parete...)
 Il sole ora scatena la sua forza. Il termometro, tenuto scrupolosamente all’ombra, sale a 53 gradi, poi a 54 e si assesta infine a 55.6. Tra i meandri infiniti non un filo di aria si muove. Solo camminando con la bici  posso muovere un po di aria attorno a me. Non posso fermarmi, perché fermarsi equivale a riscaldarsi improvvisamente ed inesorabilmente.  Devo bere perché mi gira la testa e questo non è un buon segno. Forse non sto particolarmente in forma, forse gli anni cominciano a reclamare i propri diritti. Spesso mi dico che non posso ogni volta confrontarmi con quel me stesso degli anni precedenti, che devo darmi un handicap ogni anno che passa, ma poi è tutto inutile.
                                         (Quale sarà lo wadi giusto?.....)
Ogni volta mi scopro un po più debole e la cosa mi rattrista come un atleta che non vince la sua più importante gara. Qualche volta addirittura baro e sovrastimo quel che ho fatto in gioventù. Allora il confronto diventa ancora più duro, perché è una battaglia persa, ma inconsciamente io non me ne accorgo. Solo quando torno e mi riposo riprendo il mio spirito critico e giudico la verità, ma ogni volta ricado nell’errore.
Anche ora questi pensieri tengono impegnata la mia mente, mentre vago senza meta nel labirinto minoico, temendo ogni passo di incontrare il Minotauro. Mi basterebbe un piccolo filo, ma Arianna non c’è.   Arianna…… chissà dove sarà!!. Nel mondo moderno Arianna sarà  impegnata in mille attività, sicuramente altri uomini la distrarranno e Teseo soccomberà al Minotauro. Ma non sa che la leggenda la lega ad un folle che si è perso nel labirinto? Che deve essere li a tirarlo fuori prima che il Minotauro lo divori?
                                              ( Non un filo d'ombra.....)
Almeno nel labirinto di Minosse non faceva caldo. Era tutto tenebre ed umido. Mi accorgo di farneticare.....Qui il Minotauro è mascherato da Sole. Il sole penetra in tutti i pori, in tutti pertugi. Ogni più piccola roccia è permeata in esso. Non un filo d’ombra reca ristoro, se non al corpo, almeno all’anima. Mi basterebbe vedere un po di ombra, ma la luce abbaglia tutto, Il sole ora è a picco sui monti e le valli, sulla mia mente e sui miei occhi. Tutto è abbagliante, tutto è piatto, senza pietà. Le gambe sono pesanti, nonostante il terreno scorrevole. Devo bere, bere, e bere ancora. Non ho sete, ed anche se avessi sete potrei resistere senza sforzo. Ma  il fatto non è di estinguere la sete, quanto quello di reintegrare i liquidi che evidentemente stanno evaporando in fretta dal mio corpo. Speriamo che non compaiano i primi crampi.
Ancora ho acqua , ma finchè non saprò di essere nello wadi Mandar non potrò dare fondo alle riserve. Altre volte in montagna mi sono trovato in simili situazioni. Mi era bastato concentrarmi ed estraniarmi dal luogo. Potevo allora seguire il mio istinto. Nessuna bufera o nebbia mi hanno mai minimamente impensierito. Tento di farlo, ma non riesco a concentrarmi.  Mille pensieri si accalcano nella mia testa, distraendomi. Arianna….il Minotauro….gli anni che passano….la vita…la morte… Filippo…i ricordi… quelli non mi abbandonano mai e qui nel deserto sono sempre più vivi e nitidi. Pedalo senza alcuna destinazione, tanto ormai non sono più in condizione di giudicare dove sono.  Devo tornare indietro molte volte, tanto che infine credo sia meglio rinunciare e tornare indietro definitivamente.
                           ( Le piste non vanno mai al posto giusto.....)
Dopo un’ennesimo tentativo trovo una pista. La seguo e scopro che passa proprio a fianco di dove sono appena transitato, solo che credevo che non ci fosse sbocco. Un passaggio angusto, largo appena per far passare la bicicletta, mi permette di superare la prima catena di monti. Al di la la cosa non cambia, mentre il livello dell’acqua nella tanica scende inesorabilmente e pericolosamente.  Mi preoccupa poter rimanere senz’acqua. Questo è il peggior incubo nel deserto. Ne ho consumato più del previsto, ma non potevo sapere di dover attraversare un territorio tanto infernale. Comunque ora le valli sono più larghe e l’animo respira un po.
                   (Un po di respiro in una piana tra il labirinto.......)
Inoltre i monti sono più accessibili e nella peggiore delle ipotesi posso anche superarli direttamente senza aggirarli. Ben presto la peggiore delle ipotesi si rivela purtroppo la triste realtà. Non c’è verso di aggirare le colline. Ogni volta mi ferma  una parete o le mie stesse tracce che ora sono ben evidenti. L’unica soluzione è salire su una collina percorribile ed andare al di la. Salire sulla collina consuma molte delle mie energie non tanto per la difficoltà del percorso, quanto a causa del mio cuore che improvvisamente ha accelerato la sua corsa, come sempre succede quando mancano liquidi e sali.
Ingoio dei chicchi si sale grosso, stando ben attento a che non  mi si attacchino alla gola ed inizio a bere  l’ultima bottiglia di acqua.
Arrivo alla sella. Lo sguardo spazia su una piana costellata da rare acacie ed abbellita da colline semisferiche che sorgono repentine dal terreno, mentre l’orizzonte non troppo lontano è chiuso da alte montagne. Tra queste c’è un cima altissima, con una parete liscia che guarda il versante est sotto cui si stende il villaggio di Mandar. Conosco il villaggio di Mandar. Questo è lo WADI MANDAR!!!!

                         (Sotto la montagna aguzza c'e il villaggio seminomade di Mandar)
Ma mi trovo ancora sulla sella. Salendo avevo notato orme rade di cammello, stampate sulle zone meno dure del terreno, tra le rocce.
Questo piccolo segno mi aveva rincuorato un istante, prima di sapere di trovarmi in prossimità dello Wadi Mandar. Ora sulla sella siedo e penso che dovrò percorrere almeno 50 km, con poca  acqua. Ed il sole impietoso irradia calore avvampando qualunque cosa esista attorno a me. Alla sinistra del valico una pietraia nera sembra il radiatore di un termosifone. Non posso riposarmi qui al sole. Proprio sotto di me, circa 50 m più in basso, si vede un’ acacia. Devo scendere rapidamente fino li e riposarmi all’ombra. Tutto sembra facile, ma tra me e l’acacia si interpone una parete ripida e rocciosa, anche se relativamente facile da scalare. A piedi sarebbe un’inezia, ma devo scendere anche la bicicletta. E questo complica enormemente le cose. Se reggo la bici non mi aggrappo alla roccia, se mi aggrappo alla roccia mi scivola la bici. Il dubbio di non poter scendere si affaccia prepotente alla mia mente. Non posso certamente tornare indietro, non saprei ripassare il labirinto e mi sembra di non aver più la forza di cercare un nuovo passo che potrebbe anche non esserci. Alla fine lego i due elastici del portapacchi e la scendo un po alla volta, ogni volta agganciando l’uncino alle asperità della roccia. Con molta fatica e consumo di acqua, finalmente arrivo alla pianura e l’acacia mi appare come la salvezza.  Dapprima lascio la bici a debita distanza dall'acacia, ma poi mi faccio vincere dall'ombra e sfido le spine.

 Le acacie non hanno foglie, anzi le hanno ma sono trasformate in pericolose e durissime spine che hanno la capacità di penetrare senza problemi in qualunque materiale, anche se apparentemente resistente. Cadono dall’albero ed il vento le sparpaglia attorno ad esso. Sarebbe un dramma dover riparare le ruote se dovessi forare.  Pulisco diligentemente il terreno e finalmente mi siedo. Nessuno può sapere quanto l’ombra possa essere magnifica. Nel Mandar finalmente il vento ha ripreso vigore. Vento ed ombra stanno rinfrescando il mio corpo. Sento la linfa vitale tornare nelle mie gambe, ma so che è una sensazione ingannevole. I sali persi non si riacquistano con il riposo ed i muscoli ne hanno estremo bisogno, quindi devo essere prudente. Vorrei rimanere qui fino all’imbrunire e potrei farlo, ma non conosco il tragitto che devo percorrere e non so dove andare, quindi devo lasciare a malincuore l’acacia. Una roccia rotonda alta circa 20 m si para tra me e l’est, li dove credo debba andare.
                ( Dalla collina si intravvede la bicicletta sotto la prima acacia)
 Prima di muovermi salgo sulla semisfera perfetta e levigata, attraverso delle rocce appoggiate come una scala alla sua destra. Sulla cima il vento è fortissimo. Ma il Minotauro ha perso le sue corna e l’orizzonte lo tira a se inesorabilmente. Il termometro inizia la sua parabola discendente. Ora segna 49 gradi. Il panorama è a 360 gradi. Fotografo  circolarmente. Tutto attorniato di monti che lo chiudono, lo Wadi Mandar è un Wadi anomalo. Più che una valle è una vera e propria pianura sterminata, perfettamente livellata. Sabbia e brecciolino finissimo compongono un terreno incoerente da cui si innalzanocolline improvvise, ora semisfere, ora parallelepipedi, ora torri, ora guglie.

 Tutti i tipo di terreni geologici sono rappresentati. Una collina è calcare, una guglia è intrusiva, un cubo è granito, un cumulo di sassi è nero, un pinnacolo è bianco.
Comunque ogni tipo di roccia è eroso dal vento e scalpellato dalla mano inesorabile della natura che ha composto opere d’arte moderna. Ogni più piccola parte potrebbe essere ammirata per ore, scoprendo nuove ed inimmaginabili sculture.
La fantasia ci fa scoprire orsi, aquile, statue umane, cavalli, ma le nostre paure ci fanno vedere streghe ed orchi, diavoli e mostri pronti a rapirci, mentre il vento si insinua nelle ance minerali zufolando suoni lugubri.
Su tutto domina la parete che avevo intravisto dallo wadi Ashawira, sotto di lei ci deve essere il villaggio. Ora non posso più sbagliare

               (L'ultimo valico. In fondo a dx  il monte sotto cui c'è il villaggio)  
Un’ultimo sguardo al panorama mi fa scoprire una pista che gira attorno ad una collina. La distanza non mi fa apprezzare la sua reale esistenza, ma sono sicuro che debba trattarsi di una pista, addirittura delimitata da sassi la cui ombra incalzante nel pomeriggio la rendono più evidente.
Scendo dalla cupola con difficoltà a causa dei muscoli indolenziti ed il dolore delle ginocchia. Mangio qualcosa che non vuole decidersi a scendere nel mio stomaco, controllo che tutto sia a posto e parto. L’acqua è quasi finita e quando mi trovo a qualche km dall’acacia finisce del tutto. Ora vado a riserva, speriamo che il tragitto sia quello giusto perché i crampi sembrano proprio decisi a prendersi la rivincita dopo un giorno intero tenuti in catene come dei titani. Ora stanno per spezzare le catene e quando lo faranno distruggeranno le mie gambe, io ne so qualcosa.
                             ( Il picco sotto cui c'è il villaggio di Mandar)
Ecco perché a me non piace avere compagnia. Neppure Filippo portai in queste gite senza sicurezza, negli anni scorsi.  Io so di cavarmela sempre.  Spesso ho l’esigenza che questo qualcuno sia con me, ma poi mi domando se veramente lo vorrei.  Ed allora creo la mia compagnia che mi segue come un’ombra. Che anche se si attarda mi raggiungerà presto. Ma poi mi fermo e non viene nessuno, la voce di richiamo non è altro che il vento. La pista, ben tenuta e perfettamente levigata,  si dirige verso il villaggio. Su una pietraia assurda una pianta grassa fa bella mostra di se.

 Verde splendente, rigogliosa, sembra sfidare il sole. Da vicino sembra quasi una pianta finta, messa a bella posta dall’ente turistico locale, tanto per addolcire un po il paesaggio. La fotografo come un’attrice famosa e riprendo il cammino con qualche crampo sempre più incipiente. Ora la pista è una vera e propria strada che si capisce essere molto frequentata, delimitata da rocce nere messe appunto per evidenziarla. Alla mia destra compare una costruzione in muratura, con accanto una tenda. Davanti sono messe ad asciugare delle tovaglie. Le lampade poste sulle rocce circostanti mi fanno capire di essere arrivato in uno di quei luoghi in cui accompagnano i turisti per le passeggiate in cammello e conseguente cena beduina. Generalmente sono vicine ai villaggi. Qualche minuto e, dopo un’ampia curva a sinistra, appaiono le prime capre, poi uno stazzo in cui oziano smagriti cammelli ed infine ecco il villaggio.


Torme di bimbi mi circondano, mi rincorrono, mi parlano come se capissi, attendono una risposta alle loro domande e non si fanno minimi problemi se rispondo in italiano. Quasi non posso pedalare. Gli adulti che incontro mi salutano a grandi bracciate a cui rispondo con la voce roca. Quasi non mi esce più alcun suono. Ho la gola impastata di sabbia e delle ultime gocce di saliva. L’impasto ha un sapore acre. Ingoiato brucia come il fuoco.
                       (Alla periferia del villaggio. Le prime macchine)
Davanti a me, all’inizio del villaggio, appare come in un film, una costruzione con alcuni cartelli appesi. E’ UN BAR !!!!.
Dire bar è un’eufemismo. E’ un parallelepipedo di circa 2 m. di altezza ,  4 di lunghezza e circa 3 di larghezza, costruito con cartone ed onduline in un’impalcatura di fatiscente legno. Tutto è scuro e nero all’interno. C’è una minuscola finestra che si affaccia all’esterno, con una piccola mensolina. Quasi un drive-in. Tutto è lercio e sporco, fatiscente ed in disuso, ma all’esterno c’è un piccolo magazzino di acqua minerale. Entro e chiedo dell’acqua. Soliti convenevoli di rito.
    (Il sedicente "bar" e sullo sfondo il villaggio di Mandar sotto il picco montuoso che mi ha guidato)
Il “barista” è adatto al luogo. Una galabja ex-bianca, ora scura e strappata fino all’inverosimile, lo veste lasciando ampio spazio alla pelle scura che si affaccia scandalosa tra le innumerevoli aperture. Apre il frigorifero…
Frigorifero? Ma che dite!! E’ una bara. Si, una bara dei poveri con dentro un motore di frigoriferi ed una serie di anse che servono appunto per rinfrescare. Nel suo interno la temperatura non sarà più bassa di 20 gradi, ma è un’enorme divario tra i 50 dell’interno del bar. Chiedo due bottiglie e pago con 10 dollari. Mi da un mucchietto di pounds di resto. Neppure li controllo, tanto avrei pagato 1000 dollari ogni bottiglia, figuriamoci!!!..
Esco all’aperto e bevo la prima bottiglia tutta d’un fiato. Mentre mia accingo a bere ingordamente anche la seconda bottiglia il barista inizia a parlarmi e mi chiede da dove provengo. Cerco di farmi capire spiegandogli che provengo dal Wadi el At, che ho scavalcato il gebel, indicandoglielo, che poi ho percorso lo Wadi Mandar. Mi chiede se la bici è la mia. “wadi el At ?!” dice: “Gebel?! Wadi Mandar”. Ripete alcune volte la domanda, indicando la bici, attendendo ogni volta la mia risposta affermativa. Mi guarda, poi improvvisamente si da un colpo alla fronte con la mano, poi chiude le nocche e si colpisce la tempia.
Scompare all’interno del bar, poi ricompare subito e mi da altri 5 pounds come se si fosse sbagliato a darmi il resto. Va dietro il bar e prende un tappeto che svolge ai miei piedi, invitandomi a sedere. Il tappeto è unto e bisunto, sporco fino all’inverosimile. Steso a terra alza una nuvola inimmaginabile di polvere e probabilmente di acari, pidocchi e zecche, ma nessun prato fiorito mi è mai sembrato tanto bello ed accogliente. Stesi sotto la tettoia traballante al vento vuole sapere dove sono passato, quando sono partito e dove sto di base. Bevo altre tre bottiglie di acqua e poi parto.
Nei giorni successivi sono tornato al villaggio, ho percorso lo wadi Umm Adawi, ho salito alcuni gebel della zona. Egli mi ha aspettato al mio ritorno, ogni giorno. Ogni sera lo vedevo che guardava verso la direzione da cui sarei arrivato. Ogni volta, appena mi vedeva, prontamente preparava il tappeto e si accomodava vicino a me per sentire i miei racconti, che neppure capiva…………….
     


Nessun commento:

Posta un commento