lunedì 7 novembre 2016

BAYANZAG, MONGOLIA, LE RUPI FIAMMEGGIANTI DEI DINOSAURI


La Mongolia è una calamita dell’anima, se rende l’idea. Ti abbraccia, riempie di spazio, di cielo, di vento, restituisce alla profondità della vita, alla spiritualità che non pensavi di avere, guarisce dalla solitudine, dalla timidezza, autorizza a commuoversi” (da “Mongolia – L’ultimo paradiso dei nomadi guerrieri” di Federico Pistone

By Zoharby  English Wikipedia
La Mongolia è una terra sconfinata, dove la steppa si confonde pian piano con il deserto, un deserto desolato, rovente d’estate e gelato in inverno,
 
dove le temperature passano da + 45 gradi a -60 ed il vento spazza le orride lande a 150 km/h, disseccando e gelando qualunque cosa possa solo pensare di vivere in quelle zone.

 
Li si stende senza cuore il deserto di Gobi. E laggiù, dopo cinque giorni di fuoristrada senza niente e senza nulla, c’è la falesia di Bayanzag, la mia meta. Pian piano che procediamo, l’erba della steppa cede il suo posto ad una sabbia rossastra, dove cresce solo qualche filo d’erba particolarmente resistente. e si scorgono rarissimi fiori che si ergono fieri su un terreno assolutamente sterile.
 
 La mia guida si ferma in una piccola valle dove sono stati trovati numerose ossa di dinosauri.
 
ma la sosta è breve perché qui le distanze sono dilatate, così come il tempo che impieghiamo a percorrerle, non potendo prevedere lo stato delle piste, mutevoli sotto l’imprevedibilità delle meteore.
 
Una bella sorpresa !  Dei fiori  si ergono fieri su un terreno assolutamente sterile.
 
 La tenda dove alloggerò si innalza come un trofeo di vittoria in mezzo al nulla più assoluto.
 
A 360 gradi l’occhio si perde in un orizzonte infinito, nulla ferma lo sguardo e l’anima si smarrisce nell’assoluta perfezione di questo territorio mondato da qualunque cosa superflua. ( “La perfezione non si ottiene quando non c’è più nulla da aggiungere, ma quando non c’è più nulla da togliere”. A. de Saint Exupery).
 
  La falesia è un gradino di roccia arenaria che si erge sulla piana delimitando la zona superiore, anch’essa perfettamente piana. Non era altro che la costa del mare antico. Li si frangevano le onde ed erodevano la costa fino a farla diventare una scogliera rossa, di un rosso incredibile nel sole al tramonto.  
 
Roy Chapman Andrews era un esploratore che più tardi ispirò il personaggio di Indiana Jones simile anche negli atteggiamenti e nel modo di vestire.
 
Nel 1922 partì da Pechino con alcune auto e traversò tutto il Gobi alla ricerca del primo uomo. Dopo alcuni mesi,  superando difficoltà inimmaginabili in territori sconosciuti, finalmente arrivò a Bayanzag (rupi fiammeggianti) e si apprestò allo scavo. Non trovò il primo uomo, ma in compenso un suo assistente scivolò nel pendio terroso e atterrò letteralmente su un uovo fossile, scoprendo il più grande cimitero dei dinosauri che sia mai stato rinvenuto.
 
Famosi gli scheletri di un  velociraptor ed un protoceratopo avvinghiati nel combattimento, mortale per entrambi. La mia gher è a circa 10 km dalla falesia che raggiungo in fuoristrada. La guida mi lascia sul bordo del gradino. Ricordo un racconto di fantascienza della collana Urania,
 
“Il gradino di venere” e  mi sembra di vivere in quel libro, dove degli astronauti naufragati su Venere, si ritrovano a dover superare un rosso e fiammeggiante gradino roccioso per salvarsi. Mi affaccio sul bordo tagliente.
 
La “costa” precipita verso un mare evaporato dai millenni.
 
Le ere lo hanno innalzato fino a 1500 m. e tutto ormai è morto e disseccato, ma milioni e milioni di anni fa questo posto era brulicante di vita.





 Giganteschi rettili correvano sulla piana, giganteschi rettili volavano nell’aria, giganteschi rettili nuotavano nel mare. 
 
Io sono in piedi, sul bordo del precipizio e giganteschi rettili mi circondano. Mi immergo in un  rosso cupo, attutito da un cielo plumbeo che minaccia pioggia.
 
 Cammino sul bordo della falesia  frastagliata, dove numerosi fiordi sfidano non più le onde, ma il vento inesorabile che spira da  nord,
 
 un vento che parte dal polo e che nulla ostacola per migliaia di km. Un vento che si carica di sabbia e che diviene sempre più violento ma mano che avanza e che plasma la tenera roccia arenaria in figure mitologiche,
 
 in precipizi orridi, in canali, archi, pennacchi.
 
Cammino lassù, nel vento e sento gli spruzzi delle onde che si frangono sulle rocce.
 
Ora una cresta sottilissima mi permette appena di camminare come un equilibrista su un filo ,
 
ora un terrazzino mi fa affacciare su  un panorama che si perde sotto di me e che sfuma nell’orizzonte foscoso, carico di pioggia. Salgo e scendo tra fragili creste di tenera arenaria, per nulla sicure mentre l’ambiente mi sommerge.
 
 Alzo gli occhi al cielo e tra le nubi basse volano gli pteranodont, mentre i velociraptor combattono tra di loro. Il vento rinforza e rade gocce di poggia mi battono sulla fronte con forza, trasportate dal vento.
 
E’ un ambiente affascinante, travolgente come il pensiero di un’amore che non potrai mai avere e che ti segue tra quelle cangianti pareti.

 
 Ma la piana si stende laggiù, duecento metri più in basso e tra me e quella piana c’è “il gradino di Venere” da superare. Voglio scendere ed ammirare la falesia dal basso. Tra il dire ed il fare c’è di mezzo… la falesia.

 
Trovo un intaglio netto, con pareti verticali che sembrano solide da lontano, ma si rivelano essere due muri di terra compatta , ma che danno l’idea di crollare ogni istante.

Le meteore hanno scavato un canyon profondo, con le pareti verticali distanti non più di tre metri e che più scendo più formano una sorta di grotta, fragile come i pensieri che mi consigliano di tornare indietro.

 Con un sospiro di sollievo esco finalmente nella piana.

Enormi blocchi di arenaria si sono staccati dalla parete e giacciono come palazzi ridoti in macerie da terrificanti terremoti.

Scendo verso “il mare”, incontro bizzarre formazioni rocciose che credo scavate dall’acqua, ma che non distinguo da giganteschi femori ed ossa di dinosauri.

Ora giro a destra e cammino sotto la parete, ad una distanza di sicurezza. Queste rocce rossastre non mi lasciano sicuro.
Passo sotto un blocco enorme, aggiro vari alvei di fiumi inesistenti e camino seguendo la costa che si dirige verso dx, con una direzione che mi allontana sempre più  dalla tenda.

 Il sole non è visibile, il cielo è cupo, nubi temporalesche all’orizzonte lo nascondono. Neppure una luminosità tradisce la sua presenza. Proseguo per qualche ora con un’andatura veloce solo valutando che la falesia forma un’ enorme curva, ma non riesco a calcolare di quanti gradi. Il sole non mi permette di stimare la mia mutata e mutevole posizione. La costa infatti come ho detto, fa un’enorme curva, ma in più  ci sono continue insenature che complicano di  molto la valutazione della mia posizione. Qui la notte arriva alle 23,30 e quindi non mi preoccupo, anche perché per tornare indietro basta seguire la costa. Comunque non porto lampade ed il cielo è nuvoloso. La mancanza del sole è solo un fattore secondario, il problema è che sono distratto e la mia bussola interna, di cui mi fido totalmente, ha perso i riferimenti principali.

La mia mente vaga lontano, vaga oltre i confini del tempo e dello spazio, li dove i desideri si realizzano. In questi momenti non sono più solo, perso nell’immenso Gobi, la mia mente crea la mia compagnia, un compagno irreale, virtuale, che non potrà mai esistere. Spesso mi volto per vedere se mi segue, parlo con lui, gli confido i miei dubbi.

Finalmente guardo l’orologio, non mi ero accorto di quanto fosse tardi. Devo trovare il modo di risalire la falesia e tornare sull’altipiano. Non è facile risalire, non trovo nessun punto praticabile. Fosse roccia compatta sarebbe un gioco, ma tutto crolla al solo appoggio della mano.
 
 Ma ecco laggiù… laggiù sembra che la falesia si abbassi, devo arrivare laggiù ma devo stare attento a valutare la distanza. Mi sembra sia fattibile ed infatti riesco a salire con facilità. Ora mi trovo sull’altopiano, piove, una densa foschia non fa superare il km di visibilità. Calcolo rapidamente il mio itinerario e procedo velocemente verso il punto stimato, dove penso sia la tenda.

Qui è il Gobi, non è Campo Imperatore, qui siamo in una zona perfettamente pianeggiante per 400 km attorno a me e piccole ondulazioni del terreno possono nascondere la tenda. Seguo delle flebili tracce di un fuoristrada che evidentemente portano verso il nulla
 
 

ma dopo due ore non avvisto ancora nulla e comincio a chiedermi dove mi trovo. Valuto la mia posizione, ma non so di quanti gradi ho girato quindi non posso sapere se la direzione che ho seguito sia quella giusta.
 
Guardo attorno a me, ora la foschia mi chiude in una prigione le cui pareti si stringono sempre più man mano che la notte avanza.

 
Forse dovrò dormire all’aperto e domattina tornare indietro, cosa per ora improponibile. Piove, non fa freddo, ma piove e certamente non porto impermeabili. Ci sediamo… “ci” ? Si… “ci” sediamo, tranquillizzo il mio compagno e “ci” sediamo. Ho fatto uno sbaglio madornale. Quando sono uscito dalla falesia ho tentato di ragionare per determinare la direzione. Ma io non sono così, io ho sempre seguito il mio istinto che mai mi ha ingannato.


 Il dolore alle ginocchia non ha dimenticato neppure un istante di abbandonarmi, ma ora, dopo ore ed ore di cammino, sta raggiungendo un livello mal sopportabile.  Mi siedo e tento di sgombrare la mente dai ragionamenti razionali. Pian piano, come in una mappa di googleheart, tutto ruota e si aggiusta nei punti cardinali.
 
 Ora mi alzo e, senza pensare, mi avvio cambiando la mia direzione di quasi 45 gradi. Neppure mi chiedo se la direzione sia giusta… la direzione deve essere giusta. Cammino tra ondulazioni del terreno
 
 e dopo tre ore avvisto un branco numeroso di cammelli e quando i cammelli sono passati, dietro di loro avvisto la tenda.
 
  Ormai sono le 23, sbatto letteralmente nella tenda, senza variare l’itinerario neppure di un metro.
 
 Il mio gps ancora una volta non mi ha ingannato. Sono stanco, bagnato, ma sono felice. Domani mi aspettano le meravigliose dune di Kongoorin Els.