lunedì 9 luglio 2012

LA CAROVANA DI OVERLAND, UN INCONTRO INASPETTATO


Dietro a un miraggio c'e' sempre un miraggio da considerare, come del resto alla fine di un viaggio c'e' sempre un viaggio da ricominciare.
(Viaggi & Miraggi di F.De Gregori)

(Le foto relative al racconto sono di repertorio.Si riferiscono esattamente ai luoghi descritti, ma non sono state scattate quel giorno a causa delle condizioni atmosferiche che portavano particelle di polvere estremamente lesive per gli obiettivi. Del resto percorrevo un tragitto che avevo percorso decine di volte, quindi per me senza importanza).

Camminare , arrivare, fermarsi, tornare, ripartire, pedalare, camminare ancora e ancora…..che senso ha? Cosa può darti il cammino che non puoi trovare da fermo? Perché devo venire qui? Cosa cerco che non posso trovare a casa mia? Sono queste le cose a cui non saprò mai dare una risposta, eppure ho pensato molto a questo problema. Alcune volte ho l’impressione che un barlume si accenda nella mia mente, ma subito si affievolisce e scompare. 
Però ad una conclusione sono giunto: nel Sinai c’è qualcosa che non c’è in altri posti. Ora il Sinai è l’unico posto che mi mette a mio agio. Non è un’agio solo psicologico. La solitudine l’ho provata  sull’immenso Atlante, nell’Hammada Rbat, nel grande Erg, ma non è il Sinai. Molte culture, anche quelle africane, considerano il Sinai come un luogo particolare, dove lo spirito si mostra, dove il divino cammina con te, dove sono nati i profeti. Sin è la divinità lunare dei mesopotami e degli antichi egizi e questo sterile ed inospitale deserto porta il suo nome.
                   ( Il re Ur Nammun con il dio Sin)
Oggi tira tanto vento, più del solito. Grani di sabbia confondono la vista e urtando il corpo danno la sensazione di essere in un autolavaggio con le spazzole rotanti, solo che a posto delle spazzole ci sono macchine levigatrici con carta vetrata. Da lontano, sotto i monti, violenti tornado si innalzano al cielo, trascinando sabbia ed orrende buste di plastica. Roteano violenti. Tutto travolgono. Chissà come saranno da vicino.

Mi avvio verso paesaggi familiari, in un pomeriggio torrido e confuso, in cui tutto consiglia di star ben rintanati in una camera rinfrescata da un climatizzatore. La bici arranca faticosamente nella strada asfaltata che porta verso il villaggio beduino, avamposto del deserto. Già qui il vento chiede la sua gabella. Una mano invincibile mi fa sbandare, quando arriva di lato,e mi impedisce la progressione quando decide di fermare il mio tentennante pedalare. Torno indietro? Sarebbe facile abbandonare. E’ sempre facile abbandonare. Arrivo al villaggio.

Un violento tornado si aggira tra le case sollevando l’immondizia che sempre staziona . Una torre fetida avanza tra le case, ancor più insozza ogni cosa. Si dirige verso di me, poi devia. Colpisce in pieno  un lurido bar e  solleva come un fuscello un  frigorifero posto all’esterno ed innalza al cielo decine di bottiglie vuote. Numerose capre che si  aggiravano tra le case ora si stringono impaurite tra di loro, cercando nel gruppo la sicurezza.  Tutto si muove orrendamente, poi vola a nord, verso la montagna a ridosso delle ultime case e scompare al di la.
Mi affaccio verso la piana. Tutto sembra calmo, solo un vento teso tradisce ancora il passaggio della tempesta. Un suono lugubre pervade tutto il paesaggio, il sole sembra meno implacabile,  soffuso com’è dalla polvere sollevata dal vento.
All’orizzonte altri tornado si innalzano altissimi. Vedo la violenta rotazione, sento il rumore che assomiglia ad un trattore gigantesco. Un brivido di paura mi coglie, ho la medesima sensazione di quando, in montagna, bisogna affrontare la bufera,  con la nebbia che offusca la vista e nasconde un pericoloso percorso. Un’indefinibile senso di smarrimento mi pervade, poi mi fermo e mi siedo sulle prime rocce del deserto, al di la delle linee elettriche.

 Passano i minuti mentre da lontano si succedono i tornado che lasciano sul terreno una scia di devastazione. Sarebbe come affrontare una belva. Salgo sulla bici e pedalo…..verso di essa.
Scendo nello uadi, la piana accoglie lentamente la mia paura.
Devo passare verso il punto dove decine di tornado sorgono senza alcun avviso e senza alcuna ragione, come creati dal nulla, sotto un cielo sereno.
Lascio il centro e mi sposto verso sinistra, sperando di trovare un passaggio al sicuro da tanta furia.  Poi, vicino ad un pozzo secco, mi fermo e mi siedo sul muro.
 Potrei tornare indietro dentro una valle che conosco benissimo, al riparo dal vento. Il suono orrido si fa più vicino, forse al di la di una roccia sta passando un mostro, che io non posso vedere da qui. Alcuni km da me, nella piana, c’è un moscerino che avanza lentissimo. Nella foschia non riesco a distinguere, poi riconosco l’incedere di un cammello carico. Io sto qui per “sport”, loro ci vivono. E’ la seconda volta, oggi, che ho dubbi sul deserto, ma ora non è più tempo. Lascio il bordo dello uadi e mi dirigo al centro.

 Il vento ora scatena la sua furia. Non c’è molta sabbia nello uadi, che è principalmente breccioso. Devo vestirmi perché sarebbe un suicidio farsi spellare vivo dal pulviscolo abrasivo trasportato dal vento. L’aria è rovente, sembra provenire dal più profondo dell’inferno. La temperatura è sui 53 gradi, ma le particelle di sabbia alzate dal vento sono ustionanti, raggiungono i 75 e più gradi.

Mi avvolgo la kefia in modo che sul viso non ci sia nessuna possibilità agli invadenti grani di sabba di passare e mi avvio mestamente contro vento pedalando ad una velocità infima, praticamente al limite dell’equilibrio.
Mi do una meta, tanto per avere qualcosa da raggiungere: il villaggio dello uadi Mandar. Lì c’è il mio amico del sedicente bar e tutto il villaggio mi conosce. Nella peggiore delle ipotesi potrei fermarmi li e tornare domani.
Certo però è che per arrivare al villaggio devo superare una zona piatta ed aperta ai venti di nord est. Non è un tragitto lungo ne difficile, ma devo procedere contro le forze dell’Ade che sembrano coalizzate per impedire a chicchessia di muoversi in questa parte di deserto. Come immaginavo, appena supero una catena di monti il vento fa sentire tutta  la sua  ira,  mentre  due  tornado  urlanti  tentano di circondarmi  da  destra  e  da  sinistra.
Stranamente non ho più timore, so che non possono farmi del male. Un nuovo, piccolo vortice mi accarezza, sembra un cucciolo, inoffensivo, mentre i loro genitori ruggiscono feroci a guardia del loro figliolo. Non è vento che rotea, non è sabbia che si muove vorticosamente. Qui i tornado non esistono. Qui sono i Djin, maligni spiriti del deserto che fanno sentire la loro presenza, che vengono a controllare, ogni tanto, chi percorre il loro territorio e cercano di impossessarsi delle menti degli uomini entrando attraverso gli occhi e la bocca. 
Si avvicinano, mi annusano, borbottano, urlano per intimorirmi, poi mi fanno passare. Non posso più aver paura. Ho alzato al cielo l’hamsa, la mia mano aperta. Essa protegge dai Djinn, dalla malasorte. In ogni posto del deserto e delle città c’è una mano stilizzata che protegge dai malefici degli spiriti Il vento però non cede. Perfettamente davanti al mio naso, spira inesorabile. Un’ultimo tornado fa alzare una nuvola di polvere che si dirige dritta lungo la pista.
                      (In fondo alla pista il villaggio di Mandar)
Ho gli occhi lacrimosi nonostante gli occhiali, la mia vista è insicura, ma questa volta il tornado non accenna a cambiare direzione. Visto che lui non cede il passo, dovrò farlo io. Mi fermo e mi accingo ad uscire dalla pista e ad allontanarmi. Nel turbine intravvedo qualcosa di arancione. Mi pulisco gli occhi e nella tempesta appare un camion enorme, appunto arancione, poi un altro, un altro ed una un altro ancora. E’ la carovana di Overland che sta percorrendo i deserti d’Africa. Grandi  sbracciate, grandi saluti, ma non mi fermo. Mi allontano subito, mentre gli enormi camion alzano di nuovo una nuvola di polvere che presto li nasconde e  li confonde con la tempesta.
Dopo poco tempo, raggiunto il villaggio di Mandar ,mentre mi accingevo ad attraversare la strada che porta a S.Caterina, ho fotografato il piccolo camion di servizio che chiude la carovana di Overland e che era rimasto indietro.
PS:  Chi ha visto la puntata di Overland che descrive il tragitto dal Sinai del Nord fino a Charm El Sheick ricorderà che Beppe Tenti racconta che quel giorno, poco prima dell’arrivo a Charm,  il vento torrido ed il caldo micidiale non permise ai condizionatori, seppur molto efficienti,  di raffreddare adeguatamente le cabine dei camion per cui i passeggeri soffrirono pesantemente di queste infernali condizioni. Inoltre la polvere rovente si insinuava in ogni pertugio. Quando vidi la puntata ebbi un  sussulto di orgoglio. Chissà, forse  non mi ero reso conto di cosa avevo fatto traversando questa piccola parte di deserto in queste infernali condizioni. Mah !…non mi erano sembrate tanto infernali, dopotutto. Non sarà mai che sto finalmente adattandomi e che la mia testa sta iniziando a pensare come la mente del deserto?

"Ho osservato la carovana attraversare il deserto," disse infine. "La carovana e il deserto parlano la stessa lingua, e perciò lui le consente di attraversarlo."   Paulo Coelho



martedì 3 luglio 2012

EL TIH, L'ALTOPIANO DELLA DESOLAZIONE


Aver casa e' bello
dolce il sonno sotto il proprio tetto,
figli, giardino e cane. Ma ahime',
appena ti sei riposato dall'ultimo viaggio,
gia' con nuove lusinghe il mondo lontano t'insegue.
Meglio e' patire nostalgia di casa
e sotto l'alto cielo essere,

col proprio struggimento soli.
Avere e riposare puo' soltanto
l'uomo dal cuore tranquillo,
mentre il viandante sopporta stenti e pene
con sempre delusa speranza
piu' facile e' l'ampliamento di un viaggio
piu' facile che trovar pace nella valle natia,
dove tra gioie e le cure ben note
solo il viaggio sa costruirsi la via.
Per me e' meglio cercare e mai trovare
che legarmi stretto a quanto mi e' vicino,
perche' in questa terra, anche nel bene,
saro' sempre un ospite e mai un cittadino.
Hermann Hesse



Traversare da solo "El Tih", con la byke,  non è soltanto pedalare nel deserto per almeno quattro giorni, ma è affrontare le paure del nostro incoscio più profondo ed  i folletti del deserto, è evitare i campi infestati dai Jinn, è sentire le voci che normalmente releghiamo nel pozzo più profondo della nostra anima.


El Tih, la desolazione. Questa è l’immane tavola sabbiosa larga 300 km da attraversare. Il solo nome mi attira  come una sfida. Forse se si fosse chiamata diversamente non sarebbe stata così attraente. Mi rendo conto che questo non va bene. Ancora non riesco a liberarmi dai condizionamenti della nostra cultura. Quando arriverò al  suo bordo orientale saprò se sarò pronto, solo allora il deserto mi dirà se potrò procedere.


Parto con la mia bici ben attrezzata, carico come al solito di acqua e questa volta porto sulle spalle uno zaino con la tendina e una bella scorta di carboidrati. Anche il corpo ha le sue esigenze. Viaggio con lena su un terreno che ormai non ha per me più alcun segreto. Mi sembra di camminare nella mia città, sotto i portici che mi conoscono da una vita. Il mio pensiero però è impegnato a risolvere il dubbio se qualcosa o qualcuno mi dirà se sono pronto. Se saprò comprendere le voci del vento e delle sabbie. Se quelle voci sono la materializzazione delle mie paure oppure la vera voce del deserto. Questo è il mio dubbio più irrisolvibile. Come farò a distinguere quelle voci? E’ inutile continuare a tormentarsi, solo il tempo potrà districare la matassa dei miei pensieri.

 Più cerco di distrarmi godendo del paesaggio, più la mia mente ritorna con ossessione a El Tih. Ora ho trasformato una piana infernale in una persona malefica che cerca di difendere il suo territorio. Ora credo di essere un cavaliere errante che sfida il drago, ora un soldato che vaga nella giungla in attesa che un nemico invisibile lo uccida con trappole invisibili. Sono anni che pedalo e cammino nel deserto, ma El Tih è un’altra cosa. Quando Lawrance d’Arabia, per annunciare agli inglesi la vittoria, decise di traversare  El Tih  con i cammelli insieme ai suoi due attendenti locali, i beduini gli dissero se era un pazzo. “Mosè lo ha fatto “ semplicemente rispose.
Il giorno sembra non passare mai, la distanza sembra accorciarsi, subito le prime propaggini di El Tih si avvicinano. Viaggio in una zona magnifica di deserto. Ho studiato bene il tragitto dai viaggi aerei di ritorno.

 La rotta aerea passa proprio su El Tih. La direzione è intuitiva e semplice, basta andare verso dove tramonta il sole, non ci si può sbagliare e prima o poi si incontra la costa del golfo di Suez. Però in cuor mio spero che succeda qualcosa. Possibile che quest’anno non foro mai? Possibile che alla bici non si rompa nulla? Possibile che non mi venga neppure un crampo? Mi basterebbe una minima contrarietà per battere in ritirata. Dove sono andati a finire gli onnipresenti dolori alle ginocchia? O la mia immortale lombosciatalgia? E il vento onnipresente? Tutto complotta contro di me. Neppure un vortice si alza tanto per annunciare che il vento potrebbe offuscare la vista. Stranamente non ho neanche tanta sete. La temperatura si mantiene su livelli accettabili. Il mio animo combatte dalla smania di andare e l'inconscio desiderio che qualcosa me lo impedisca. Arrivo in un punto qualunque , che importanza ha? Valico un basso intaglio con alla sinistra una parete verticale illuminata dal sole morente. Spingo per qualche minuto in salita la mia bici. Ancora qualche metro, sono sul valico senza un benchè minimo segno di fatica e……El Tih si stende ai miei piedi.

L’aria immobile ed il sole al tramonto fanno assumere al paesaggio un aspetto terrifico. Sotto di me basse ondulazioni tra cui si insinua la sabbia. Più in avanti la sabbia pian piano guadagna il territorio ed in lontananza dune e dune, montagne di dune. La foschia nasconde le dune più lontane e tutto sfuma con l’orizzonte, mescolandosi in un rosso abbagliante dove troneggia il sole al tramonto. Quella è la mia direzione. Decido che posso pedalare ancora per una o due ore. Proprio ora si pedala meglio, la temperatura è semplicemente magnifica, posso percorrere ancora molti Km, tantopiù che sto perfettamente bene.
Faccio un Km circa e mi fermo sulla cima di una bassa odulazione con terreno compatto.

Penso che fra mezz’ora al massimo dovrò fermarmi per preparare il campo e montare la tenda, mangiare e fare tutto ciò di cui il nostro corpo ha bisogno.
Un pensiero pauroso mi assale. Tutto mi sembra estraneo. Il deserto è cambiato. Ho la sensazione di non essere gradito e decido di tornare indietro ed accamparmi sul valico, tra le rocce e le montagne.

Arrivo ben presto e smonto i bagagli. Neppure sul valico mi sento a mio agio. La vista di El Thi mi procura una strana insicurezza a cui non so dare spiegazione. Scendo al di la del valico, nella valle circondata da rassicuranti montagne. La luna già sta salendo nel cielo perennemente terso ed illuminerà la notte.

Vado per montare la tenda e solo allora mi accorgo di non aver portato i paletti di fibra di vetro. La tenda è un igloo. Non mi interessa, non è una cosa importante, dormirò sul telo. Ceno con un poco di pane e sale. Ho lo stomaco chiuso ed una leggera nausea sale impercettibilmente verso l’esofago, mentre l’addome mi duole. Conosco bene queste sensazioni. E’ nervosismo e non so perché.
Mentre attendo la notte mi viene un’idea. Ho i bastoncini allungabili da sci alpinismo Gli do l’estensione adatta e li uso come due paletti, trasformando il mio igloo in una tenda canadese. La cosa mi riesce talmente bene che decido d’ora in poi di non portare più i paletti di fibra, così potrò risparmiare ulteriormente peso. La notte non arriva mai, sono le 22. Il tempo non si è fermato, semplicemente la luna piena ha preso il posto del sole illuminando le montagne ed il deserto con una luce spettrale ma intensissima.

 Nella tenda c’è troppo caldo, l’umidità fa innalzare la sensazione di calore, non riesco a dormire. A mezzanotte esco e mi sdraio a terra sulla kefja. Appena pochi minuti poi mi sveglio di nuovo. Nessun rumore mi tiene compagnia. Dove sono gli scorpioni ed i fennec? Perché la brezza notturna non vaga tra le rocce? Dove sono i Djinn? Un silenzio mortale è sceso sul deserto. E’ la prima volta. Il silenzio mi sveglia. L’unico rumore che si sente è il sangue che pulsa nelle mie orecchie. Sono nervoso, non riesco a dormire. Decido di fare una passeggiata sotto la luna. Mi avvio verso il vicino valico. Mi siedo su una roccia. La luna illumina la desolata distesa dandole un’aspetto ancor più terribile. “Mosè lo ha fatto” mi dico, ma io non ho la stessa protezione di Mosè da parte di Dio. Lui era destinato a fare quello che ha fatto. Era tutto scritto. Poi però penso anche  che Mosè, secondo la tradizione biblica ( Esodo), vagò proprio nel Badiat El Tih per 38 anni, fosse mai che si era perso anche lui, nonostante che  il suo "GPS" si chiamasse Javè?
Mi siedo sulla sabbia del valico appoggiato ad una roccia ancora tiepida con il viso rivolto verso El Thi e la luna alta su di me. Mille pensieri passano nella mia mente. Comunque nessuno rassicurante. Pian piano mi addormento in quella posizione. Mi sveglio con il vento che mi acceca. Turbini di polvere non mi fanno respirare. Non ho neppure la kefja per coprirmi la bocca e mi ricordo che i Djin attendono queste occasioni per penetrare attraverso i polmoni nella mente degli uomini. Inutilmente porto la mano per ripararmi dalla polvere. Il vento urla sulla piana e respiro sempre più a fatica. Mi accuccio a terra con la schiena rivolta al vento mentre la sabbia mi ricopre. L’affanno mi da la sensazione di soffocare ed l’urlo del vento mi riempie le orecchie. Infine l’ultimo sospiro, proprio prima di soffocare, mi fa svegliare. Era tutto un sogno. Un sogno, ma terribilmente vero. Ancora ho nelle orecchie il vento e nei polmoni la sabbia. L’affanno ancora accelera il mio cuore.

Ma tutto intorno a me è silenzio, ancor più angosciante della tempesta immaginaria. Non guardo l’orologio, ma credo siano passati solo pochi minuti. L’ombra della parete ha solo fatto pochi passi sul terreno. Non credo di poter più tentare di addormentarmi in quel posto. Devo tornare nella tenda. E se i Djiin si fossero impossessati di me nella notte? Se mi sono addormentato  in un kambaltou , di proprietà dei Djiin? Entro nella tenda credendo di avere una misera protezione da quel telo impalpabile. Come può un esile telo proteggere da quello che è dentro di noi? Ricordo quando feci un altro sogno prima di partire per l’hammada Rbat. Quel sogno si dimostrò poi una premonizione. Lo sarà anche questo? Un dormiveglia continuo mi fa arrivare fino alle rassicuranti luci dell’alba. Faccio tutte le operazioni necessarie per essere pronto prima del sorgere del sole e mi avvio verso il valico. Scendo nell’ondulato terreno seguendo le tracce di ieri sera, cercando di distrarmi ed estranearmi dall’ambiente circostante, ma la cosa dapprima mi riesce difficile, poi diventa impossibile. Non posso continuare a queste condizioni. Forse il deserto mi ha parlato in sogno consigliandomi di rinunciare.

 Ancora non sono pronto per El Thi. Questo luogo ancora mi è precluso. Forse non lo sarà in futuro. Devo ancora capire tante cose dentro di me e del deserto. Non posso andare ad El Thi con la paura nell’animo. Non posso andare perché la paura potrebbe innescare una sfida per sconfiggerla, una sfida tutta occidentale che qui nessuno potrebbe capire, tanto meno lo sfidato, il DESERTO.
Una foschia densa si para tra me e l’orizzonte precludendomi la vista dell’itinerario. E’ normale. La scarsa umidità della notte, con il calore del primo sole si innalza e si espande e diviene, con l’espansione, ancora più densa. Tra qualche decina di minuti tutto diverrà trasparente, fino a quando il sole distruggerà le ombre attenuando la profondità del paesaggio. Guardo verso ovest, ma lo sguardo si ferma al di la delle prime dune. Tutto è estraneo a me stesso. Questo ambiente mi respinge, un’occhio nemico mi guarda. Ho bisogno dell’Amsa. Alzo la mano aperta verso il mio immaginario itinerario. L’amuleto non sortisce effetto. Ancora una personificazione impalpabile e invisibile delle sabbie e del vento mi parla  della mia incapacità a comprendere …… comprendere cosa? Ma che necessità c’è di comprendere? Forse sulla Alpi, i rocciatori si chiedono queste cose? Eppure vanno, salgono, arrampicano, sciano. Perché io ho bisogno di “comprendere?”.

Perché io ho bisogno di sentirmi una cosa unica con l’ambiente in cui mi muovo? Qualche anno fa non ero così. Tutto è cominciato quando ho iniziato a muovermi in queste lande abbandonate. O forse avevo in embrione queste necessità che sono poi divenute essenziali quando ho dovuto combattere contro le mie debolezze. O forse è perché qui la natura è talmente preponderante rispetto alla fragilità umana che abbiamo bisogno di sentirci succubi del vento e del sole. Abbiamo bisogno di dimostrare loro che siamo loro schiavi, con la speranza che ci permettano di  vagare nel deserto.

 Ho la necessità di dimostrare che non sono loro nemico, che sono solo un grano di sabbia spostato dal vento secondo il suo volere. Penso che devo andare avanti, che devo vincere la paura, che devo domare il deserto, che devo far vedere al caldo che il suo artiglio non mi piegherà. Ma subito mi pento di questi pensieri. Faccio finta di non averli mai neppure immaginati, sperando che il deserto non si sia accorto che erano affiorati nella mia mente. Però li ho pensati e fors’anche li ho addirittura pronunciati a voce alta, senza accorgermene. E’ un bel guaio!
Ho poca scelta. Se li ho pronunciati non posso più andare avanti. Avanti…per dove? 250 Km di nulla, sono troppi per me.

Tre, quattro giorni per arrivare al di la. Se il terreno è morbido forse potrebbero non bastare. Non sono ancora pronto a tanto. Sono sicuro di farcela, altrimenti non tenterei. Ma ora posso farcela solo sfidando il deserto e me stesso, quindi è ora di tornare indietro. Nessuna sfida qui può essere accettata. Non è una scusa per tornare indietro, è un’obbligo ed una necessità. E’ un gesto di riguardo verso il deserto che diventa sempre più un uomo che cammina con me, che mi indica la strada e mi dice come comportarmi. Mi tranquillizza durante la notte, mi protegge dai vortici, mi tiene compagnia durante il giorno. Mi fermo sulla cima di una piccola duna. Non c’è più foschia. L’orizzonte si spalanca fino alla fine del mondo…..ed oltre. Un senso di smarrimento penetra nel mio cuore.
Volto le spalle ed il sole mi abbaglia la vista. Vado verso il sole, torno a casa. Sono felice. Sento che è la cosa più giusta. Avrò uno scopo l’anno prossimo. Tenterò ancora e se non sarà il momento tornerò ancora ed ancora. Può darsi che non traverserò mai El Tih. Forse arriverò solo un metro più avanti rispetto al punto in cui sono oggi tornato indietro, un solo metro, ma potrebbe essere lungo tutta una vita.

PS: Al ritorno, vicino alla costa, mentre pedalo sulla strada asfaltata il mio pensiero ritorna ai momenti trascorsi in compagnia di El Tih. Devo decidere dentro di me se sono fuggito o se ho semplicemente ascoltato la voce del deserto che mi intimava di fermarmi. Sul momento non ho avuto risposta, ma poi, qualche giorno dopo,sdraiato sotto un ombrellone sulla scogliera corallina di Charm, la risposta è emersa come i sub che nuotano davanti a me.  Bollicine d'aria preannunciano la loro presenza, poi essi affiorano in superficie. Così le bollicine dei miei pensieri  preannunciano il sommozzatore della mia anima che emerge solo perchè, forse, ha finito l'aria della sua bombola. Ora sono certo, ho avuto paura, ma ancora non mi spiego di cosa ho avuto paura ed ancora oggi non trovo una ragione. Non credo di aver avuto paura del deserto, della solitudine, della notte. Forse ho semplicemente avuto paura di me stesso, di dovermi confrontare con il mio inconscio, nel silenzio assoluto di El Tih, nelle notti stellate, nel vento rovente della piana infernale. Ho avuto paura...e non me ne vergogno, dopo tutto come si può non aver paura di una tigre quando non si è un domatore? O forse, in fondo, non si è tattato di paura, ma di rispetto. Rispetto per la natura.....e per se stessi.

"Sono felice di essere un camminatore sconosciuto, giacchè questo mette fine ad ogni sfida".
Rabindranath Tagore

lunedì 2 luglio 2012

IL DESERTO, LO SPECCHIO DELLA MIA ANIMA



"Dio ha creato le terre con laghi e fiumi perché l'uomo possa viverci. E il deserto affinché possa ritrovare la sua anima".
(Proverbio Tuareg)


Ormai  non ho più alcuna sicurezza. Cosa è vero? Cosa è  fantasia? Mi sembra che il tempo non sia passato. Un anno è scomparso, eppure in quest’ultimo anno sono successe tante cose. Mi sembra un attimo da quando sono partito dal deserto , un battito di ciglia è passato dal giorno che tornai per l’ultima volta in bicicletta.


Mi sembra di vivere solamente quando sono nel deserto, tutto l’altro tempo è solo un sonno in cui sogno di partire. Chissà se uno psicologo si diletterebbe con la mia mente….
Il tempo però passa ed inesorabilmente modifica il corpo e la mente degli uomini così come modifica la morfologia di wadi e montagne.
Il mio corpo è ancora più debole, così come è giusto che sia, ma purtroppo quello che è più fragile è la mia mente. Quest’anno anelo partire, ma contestualmente una paura latente si aggira dentro i più reconditi meati della mia contorta anima.
Sarà perché qualche giorno fa è morto il mio amico Enrico mentre pedalava felice in sella alla sua bicicletta? Oppure sarà perché due mesi fa è precipitato Stefano mentre scendeva con i suoi sci in un oscuro canalone? Non credo sia questo, io non ho mai pensato alla morte, oppure ci ho pensato come una evoluzione normale e naturale delle cose e quindi non terrorizzante. Poi credo nel "tutto è scritto" ed è inutile quindi preoccuparsi.
Allora? Allora non lo so. Forse sono cambiate le motivazioni e le ragioni per cui vagavo nel deserto. Forse a causa delle promesse fatte di non correre rischi. Neppure questo però è vero perché io non ho mai creduto di aver corso dei rischi veri e propri. E’ inutile tentare di spiegarlo. In ogni caso questo stato di pensiero mi ha indebolito e quindi non credo di avere più la capacità di traversare l'altopiano di El Tih . Potrei cedere psicologicamente ed allora si che sarebbe pericoloso. Ma non mi preoccupo, perché posso nascondere la mia paura dietro le promesse fatte e quindi la coscienza è a posto.
La prima cosa da fare è montare la bicicletta. In un batter d’occhi, così come la Fenice, eccola risorgere da un ammasso informe di ferri smontati e legati per poterli trasportare in aereo.

 Il primo pomeriggio incalza, due bottiglie d’acqua e via, a provare  le gambe e la mente in un’aria sottile ed ardente. Tanto ardente che dopo un’ora ho finite le due bottiglie d’acqua ed insieme a loro ho finito anche le mie scarse energie. Il cuore palpita e numerose extrasistoli vagano nel torace dolente come se avessi ingoiato un acido corrosivo. Mi siedo sotto le rocce che danno un’ombra scura, ma non ristoratrice.

Il cuore non rallenta i suoi battiti e le gambe sono sempre più deboli. I muscoli dolenti arrestano il mio progredire. Ho fatto solo alcune decine di Km, sto ancora in vicinanza del villaggio beduino di el Roassac e non ce la faccio più. La mia paura era solo preveggenza? Sono felice di aver promesso di non correre rischi, così posso battere in ritirata con dignità. Sto seduto all’ombra delle montagne che si stagliano davanti a me, nascondendo un sole ormai stanco, ma pur sempre  insensibile alle umane debolezze.

Una piatta pietra accoglie un fantasma d’uomo che si trascina faticosamente verso la parete per trovare un sedile meno ustionante. Mi siedo ed aspetto, aspetto...... aspetto che il deserto mi dia la forza. Ma questa volta è inutile. Più il tempo passa, più mi sento svuotare le forze. Ho sete, una sete non fisiologica. Credo che se potessi bere mi sentirei meglio, ma ho finito i miei tre litri d’acqua. E’ così come già sapevo. Quest’anno è cambiato qualcosa. Comunque anche il mio corpo non reagisce e non solo la mia mente. L’età incalza. Mi pesa che gli anni facciano diventare sempre più grande la palla che ho legata al piede. Le mie ginocchia ormai sono completamente distrutte ed i miei muscoli sono diventati deboli come quelli di una bimba. Molte volte mi sono chiesto se veramente sono diventato così debole.

Poi, quando sono al punto di essere imprigionato psicologicamente in un vicolo cieco, esco in bici, pedalo per 150 e più km, testo la mia resistenza e mi rincuoro.  Il mio più grande desiderio sarebbe stato quello di trasmettere ad un figlio queste mie passioni e sensazioni, ma il fato che mi ha regalato la capacità di capire il deserto e le montagne, mi ha negato un figlio che condividesse con me le montagne ed i deserti, il gelo ed il vuoto, il ghiaccio e le sabbie. Quando deciderò che sarà finita, il mio pensiero non continuerà a camminare in un altro essere . Quando le forze mi abbandoneranno tutto sarà finito per me. Quando non potrò più pedalare contro un calore infernale nelle sconfinate distese, non mi accontenterò più di passeggiare a S. Giuliano. Così ho fatto con lo sci. Quando le mie ginocchia non  mi hanno più permesso di scendere nei canaloni non sono più andato neppure sulle piste da sci. E’ triste ora dover ammettere , seduto a qualche km dal villaggio, che quel momento potrebbe essere arrivato. Sento che qualche lacrima  è pronta a scendermi sulle gote. Me ne accorgo dalla gola che inizia a  farmi male come se qualcuno stesse tentando di strozzarmi. Poi alzo lo sguardo verso i picchi frastagliati e scorgo un canalone che avevo salito gli scorsi anni.

Una frana immane ha modificato il canalone. Un picco che ricordo perfettamente tanto era la sua arditezza ora non c’è più. E’ precipitato ed ora giace nel canalone trasformato in enormi pietre incoerenti ed instabili. Ed allora perché mi preoccupo? Un picco basaltico ha ceduto. La sua  invincibile  schiena è stata piegata dagli elementi.  Una torre che era nata per sfidare il tempo ora è scomparsa ed il suo cadavere si stende ai piedi dei picchi più giovani e forti. Come posso credere io di essere più forte ed importante di un picco immenso? La gola mi si schiarisce. La lacrima evapora immediatamente sulla gota e gli occhi possono vedere più chiaramente. Non sono gli occhi che non vedono, è la mia mente che non vede, anzi, non vedeva. Una piccola piantina si erge fiera tra i  miei piedi. Mi accuccio e colgo una piccola fogliolina. La porta al naso e…miracolo!! E’ la piantina che molti anni fa trovai in una valle desolata. La riconosco dal magnifico odore. Un odore resinoso che rimane nel naso per ore, un misto di incenso e menta, fortissimo.

Sono felice di averla ritrovata, ma poi alzo lo sguardo, un intero prato si stende di fronte a me. Guardo meglio, l’intero wadi è fiorito. Prendo la bici e spendo le ultime energie per portarmi dentro lo wadi. Tutta l’aria è densa, le narici si riempiono dell’odore penetrante. Mi siedo nel prato e mi rotolo a terra sulle piantine. L’odore mi si attacca addosso e rimarrà su di me fino alla prossima doccia.  Al ritorno incontrerò un pastore beduino a cui chiederò il nome delle piantine. Sono i “ravael”, le mangiano le capre. Questo è il momento della fioritura, che quest’anno ha ritardato un po. Ecco perché  avevo visto solo qualche stecco rinsecchito. Colgo alcune piantine, le metto dentro lo zaino e le dispongo nella stanza del villaggio. Il suo odore rimarrà per tutto il tempo della mia permanenza a Sharm.
La giornata che era iniziata malissimo, improvvisamente assume un altro significato. Sono felice di essere tornato, anche se non sono più sicuro di me stesso, delle mie capacità e possibilità. Il percorso è in discesa ed il sole ormai tramontato fa assumere all’aria una freschezza ristoratrice. Le montagne verso cui mi dirigo, per tornare alla costa, sono di un rosso abbagliante. Ma cosa mi importa se sto diventando debole? Prima o poi dovrò accettarlo, meglio che mi prepari…..

                  -----------------------------------------------------------------------

Vagare nel Sinai è una parte essenziale della mia vita. Diventa sempre più difficile far capire ai miei familiari questa semplice cosa, ma non mi preoccupo. Sono abituato al fatto che quasi nessuno ha mai compreso la mia indole. Sono però loro grato per gli sforzi che hanno fatto per decine di anni di convivenza con me.
Parto in un giorno già all’alba caldo ed accecante . Sono le sei del mattino e alla periferia di Naama già tutti sono svegli. I bambini del luogo giocano a pallone davanti le loro case come fosse mezzogiorno. Davanti ai bar gli uomini sono seduti come se già stessero riposandosi in una pausa di lavoro. Già! Qui la giornata comincia presto. Dalle 11 alle 16 tutto è morto. Nessuno lavora. I muratori sono sdraiati sotto le gru e le benne.

Tutti trovano un po di ombra ed aspettano che il sole permetta loro di fare un solo piccolo sforzo. Ma come!! Direte voi!! Io posso pedalare nel deserto durante tutto il giorno, mentre i locali non fanno uno sforzo durante le ore centrali. Certo! Io faccio uno sforzo, ma poi mi riposo nelle piscine e mi reidrato con litri   e litri dei più svariati liquidi. Quando mi sento pronto parto di nuovo. E’ ben diverso doversi alzare tutti i giorni dopo aver dormito nel deserto alla periferia della città senza docce ne bagni, senza potersi rinfrescare nelle stanze con aria condizionata e senza poter bere a volontà ; e sapere che tutti giorni della propria vita saranno così.

Mi avvio come sempre verso una porta che si apre spesso dentro il mio inconscio. Queste pietre inanimate, la sabbia rovente, le piante morte, il vento, l’aria che sembra sfuggire ai polmoni, la sottile paura… tutto ritrovo puntuale appena varcata la soglia del deserto.
Ora vedo cose che neppure immaginavo qualche anno fa. Il paesaggio pauroso, ostile, disabitato ora mi appare familiare, tutto ora ha un significato. Mi allontano dalla civiltà in compagnia del deserto, del vento, degli spiriti delle sabbie. Risalgo lo uadi madsus in un terreno duro e liscio. Evidentemente gli elementi, durante l’anno passato, hanno consolidato il fondo breccioso. Ora so dove si trovano le spine. Lo immagino pensando al vento e all’acqua che durante l’inverno hanno spazzato lo uadi.

Vedo i segni delle meteore. Tutto è scritto sul terreno. So come il vento ha percorso le lande. Come ha lasciato i grani più pesanti e come ha spostato quelli più leggeri, come gli spiriti hanno alitato formando piccoli avvallamenti che sembrano fatti dalle acque. Riesco a capire quando sono stati fatti.
Segni più antichi e recenti si intrecciano, si accavallano e si incrociano pur mantenendo ogni loro individualità. Mi sembra un libro. Riesco a capire su che tipo di terreno mi muovo semplicemente ascoltando il suono che il vento  crea soffiando sulla sabbia o sulle pietre. Sento l’odore delle pietre o della sabbia, diversa dalla terra alluvionale.

 Il vento mi porta odori infiniti di rocce distrutte dall’escursione termica o di sabbie impalpabili. Qui si possono distinguere odori di vita e di morte. Mi muovo in un ambiente che mi manda continuamente informazioni sul mio itinerario. Anche il calore che sale dal terreno ha un codice che posso interpretare. Senza vedere posso sapere se sotto di me ci sono rocce o sabbia. Se c’è basalto nero o rosso. Gli odori ed il calore  scrivono nella mia mente un nuovo mondo che pian piano si apre ai miei occhi. E’ come se vedessi un'altra realtà. Ma non sono solo i miei sensi che sono cambiati.  Non so se sono visionario, ma credo di sentire dove devo passare. Faccio delle controprove di ciò che penso, ma poi smetto di chiedermi ogni cosa e mi lascio sommergere dall’ambiente.

Una sensazione di pace immensa mi pervade. Qui ora sono al sicuro. Le tracce degli animali parlano della vita notturna. Si possono leggere semplici gite e drammi di battaglie. Sulla micidiale lavagna c’è scritto tutto. L’allegro saltellare di un topolino, il greve incedere di uno scorpione, lo zampettio degli uccelli. Flebili tracce di piccoli insetti che scompaiono quando incrociano la via di animali più grossi ed affamati. Alla mia sinistra si apre una scura valle, incassata tra nere pareti. Mi fermo per riposare, ma è solo una scusa. Non sono stanco. Devo salire un piccolo valico e devo farlo con la bici in spalla. Sotto i miei piedi c’è una massa immensa di ciottoli roventi. Questo luogo mi attira e mi affascina e non capisco il perchè. Ancora sono lontano dalla comprensione della natura. Chissà se i tuareg o i bedu sanno interpretare  queste sensazioni. Quanto invidio la loro comprensione dei luoghi e di se stessi!! Ma attenzione, ho detto comprensione, non conoscenza. Per conoscere i luoghi basta andarci una volta, ma la comprensione è un’altra cosa.

 Arrivo alla sella e scendo in una valle stretta ed angusta che il caldo ha trasformato in un terreno inpercorribile. Salgo sul bordo destro che si rivela essere un luogo abbastanza facile da percorrere, anche se ora i ciottoli sono diventati neri quindi il calore è ulteriormente aumentato. Il vento stempera la sensazione di caldo, ma so che la disidratazione procede implacabile.

Anche se ora capisco tante cose che prima mi erano sconosciute, purtuttavia devo fare i conti con le esigenze del mio corpo. E l’unica esigenza veramente essenziale è l’acqua. Ho azzerato ogni altro desiderio, ma l’acqua è la vita. Anche la fame è assolutamente secondaria, a breve scadenza. Non mi preoccupo più di portare cibo per uno o due giorni di cammino.

Il nostro corpo civile ha accumulato talmente tante energie che forse neppure una settimana di cammino sarebbe sufficiente anche solo ad intaccare le riserve. Ben presto la valle si chiude sotto un monte contorto e devo tornare indietro. Riesco a montare in bici e, ritto sulle gambe, posso sfruttare il mezzo anche se i ciottoli ne mettono a dura prova le strutture metalliche. Ma la bici è acciaio, mentre le mie gambe sono di tenera carne.

Rientro nello uadi seguendo delle inesistenti tracce appena accennate tra le pietre. Non so se possa trattarsi di sentieri o della statistica che ha costruito dei sentieri lasciando spazio tra le rocce. Lo uadi principale mi accoglie poco prima che la mia schiena dia i primi segni di cedimento. Mi sembra un’autostrada e procedo velocemente verso ovest mentre le montagne si fanno sempre più basse man mano che salgo. Il caldo aumenta, ma ora mi sembra un amico, forse perché so come reagisco. Sono sempre guardingo, anche un amico può tradirti! Il valico è vicino, ma il terreno diventa inconsistente dentro un riarso ruscello e il cammino si fa improvvisamente difficile.

Ecco il momento! Non devo cadere nel tranello della cultura occidentale. Non devo vedere la cosa come una sfida verso il deserto o verso di me. Nel deserto non bisogna dimostrare nulla. Gli spiriti sanno già tutto, inutile mentire. Qui deve essere il mio ambiente. Nessuno, in europa, sfiderebbe la “Camera da letto” o “il Bagno”, semplicemente perché quello è il nostro ambiente. Così deve essere anche qui. Il terreno corre sotto i piedi, la sabbia diventa un morbido tappeto che ammortizza le mie doloranti ginocchia.

E procedo sotto un sole accecante che sembra, ora, aver assunto una colorazione verdastra. Il valico, la mia meta. Ma quale meta? Nel deserto non c’è una meta. Quella è solo nella nostra testa, meglio scordarla. Grosso guaio è la meta, nella nostra cultura. Quante persone hanno immolato la loro vita per una “meta”! Quanti corpi riposano sotto “le cime”, le mete del nostro orgoglio!
Non so come spiegarlo, mi sembra tutto chiaro qui, ma già so che appena tornerò, la mia indole di “civilizzato” tenterà di riappropriarsi della mia mente, ed ancora una volta ci riuscirà, anche se un flebile ricordo resterà in un piccolo angolo della mia anima.
Devo tornare. Già questa affermazione mi allarma. Perché decido che “è ora di tornare?”. Sono domande sciocche qui, dove solo il deserto decide cosa tu debba fare. Scendo lungo lo uadi, senza pedalare, e percorro larghe curve a tempo di un valzer che mi martella la mente. Corro sotto una cima verticale mentre il caldo che emana da essa mi rincorre.
Devio a sinistra verso una valle laterale ed improvvisamente la ruota posteriore, con un sibilo sinistro, si sgonfia. Tre spine di acacie hanno perforato la ruota. Non mi preoccupo. È solo perché mi sono distratto ed il deserto mi ha punito. Mi rendo conto che umanizzo le rocce e le sabbie, che parlo con i folletti. Ma chi ci dice che le cose non stiano veramente così? Ormai riparo le ruote con destrezza e senza sforzo. Ben presto mi inoltro nello wadi laterale e mi tuffo in una strettissima valle larga appena qualche metro con sabbia inconsistente.

Al mio lato destro incombe una parete di fango secco alta parecchie decine di metri. Una svolta e la parete crolla davanti a me . Sono centinaia e centinaia di tonnellate di terra alluvionale che si appoggiano lentamente , ma inesorabilmente, dentro l’angusta strettoia riempiendola quasi completamente di uno strato di terra alto qualche metro e lungo almeno 50 metri. Qualche secondo di differenza e……..
Ma i Djiin sono guardinghi e mi hanno fatto forare al momento giusto. Tutto è scritto!!!!
Scavalco la terra inconsistente e scendo nel ripido pertugio che si inoltra in un’incasso  che dall’alto non so quanto sia percorribile.

Rare tracce di cammello si inerpicano alla mia destra, sotto una parete poco rassicurante formata da massi accatastati alla rinfusa e che sembrano ogni momento sul punto di crollare. La traccia scavalca un’intaglio della cresta e poi con tornanti vertiginosi scavati tra crolli recenti, mi porta alla base della parete. Sono felice di allontanarmi da questi monti inconsistenti. Ancora sono scosso dall’esperienza appena trascorsa e non ho alcuna intenzione di sfidare ancora la sorte. Mi rendo conto che è una roulette russa. La parete scarica i massi quando viene illuminata dal sole a quando l’ombra la raggiunge…ed ora questo è il momento. Meglio svignarsela.
Km di discesa sotto terreno mobile hanno stancato le mie braccia, ma in lontananza si intravvedono le luci della costa quando il sole ormai é tramontato sotto un’ultimo bagliore.
L’aria è fresca nella vallata che si allarga accogliendo la brezza che sale dal mare lontano. Non vorrei più tornare. Mi fermo alla vista di una pastorella che spinge avanti a se un gregge di  capre che corrono come camosci sulle rupi laterali. E’ una donna con il suo figlioletto.
La legge coranica viene ben presto infranta perché tutti e due si fermano a parlare con me. La donna, con un gesto misurato e sensuale, discosta il velo dagli occhi rivelando un volto magnifico, come quasi tutte le beduine. Poche parole in arabo, il bimbo, come al solito, è attratto dalla mia bicicletta. Alcuni minuti, poi la donna, come se solo allora si fosse resa conto del grave peccato, si ricopre il viso. Mi allontano salutando. Gia da qui, decine di km dalla costa, sento l’odore nauseabondo della civiltà. Odo i rumori dei motori nel perfetto silenzio del deserto. Devo tornare nel mio mondo. Ma ora sempre di più mi domando: “Ma quale è il mio mondo?”.