venerdì 27 aprile 2012

IL FIORE ED IL DESERTO



Innaji, sprona il tuo cammello
In nome di colei cui forgiasti un anello!
... Come per te e' meravigliosa la tua donna,
Fatima per me fra tutte e' la piu' bella,
lei che Dio creo' perfetta tra le donne,
non somigliano alle altre le sue mani,
 i suoi piedi, l'aspetto del volto,
 la forma dei fianchi,
i suoi occhi truccati con cura
su cui scendono, mio Dio, sopracciglia
di un nero profondo,
il suo naso ben modellato che ferisce il cuore
come l'erba nel fuoco.
Il seno risplende sul busto e illumina il collo,
come piume di struzzo i capelli ricoprono il capo,
sulle spalle ricadono gli amuleti confusi,
se guardi i suoi fianchi, la follia ti rapisce,                                                      
le anche racchiudono un florido ventre,           
le cosce son quelle di ben nutrita puledra,
lunghe e robuste le gambe,
ben alti i suoi glutei,
ondeggianti quand'ella cammina...
                            (canto Tuareg)
(Il quadro è opera della pittrice Sara Chiaranzelli   http://www.sarachiaranzelli.com/ )



Questa è la storia di un uomo che cercava un fiore ed un fiore che cercava un cuore.
E’ la storia di un viaggio, il viaggio più difficile che ognuno di noi intraprende nella sua vita, un viaggio lungo, spesso lungo quanto tutta la vita, periglioso, pieno di incognite e di delusioni….il viaggio alla ricerca di qualcuno da amare e che ricambi il nostro amore……

Tanti, tanti anni fa, quando ancora non conoscevo il deserto, durante una delle mie escursioni nelle desolate lande del Sinai, improvvisamente mi giunse un soffio di vento, aveva un sapore diverso, sembrava fresco. Intuii un profumo, poi scomparve. Annusai l’aria come un orso, sollevato sulla punte dei piedi, con il naso all’insù, le narici dilatate.  Tentai di seguirlo, studiai la direzione della brezza e mi diressi contro vento, volevo scoprire cos’èra! Per alcuni istanti il profumo aumentò, poi scomparve di nuovo, infine tutta l’aria si riempì di aroma. Sapeva di menta e di incenso, una menta incensata o un incenso mentato. 

Sembrava che tutta la valle fosse stata trattata con uno spray profumato. L’essenza di menta donava all’aria un’aura di freschezza indicibile, l’incenso gli permetteva di essere persistente e penetrante. Cercai di scoprire l’origine di tanta meraviglia, ma non trovai nulla, se non la desolazione infernale del luogo. Poi in un avvallamento del terreno scorsi delle minuscole piantine, alte pochi cm, simili alle nostre stelle alpine, ma prive di fiori. Erano foglioline minuscole, pelose, grasse.  Mi avvicinai, partiva tutto da li. L’esile prato si estendeva , con rade piantine, per circa 100 mq. Il profumo era fortissimo, entrava nelle narici, negli occhi, sembrava entrare anche nelle orecchie, quasi fosse un suono soave, era magnifico!  Zittii tutti i miei principi e li relegai nella zona più profonda e meno raggiungibile della mia coscienza e colsi alcune piantine.
                       (La valle circolare dove trovai i ravael)
Come una reliquia le riposi nel mio marsupio con cura meticolosa, cercando di non farle male. Sperai che conservassero nel tempo un po di questo profumo. Le avrei fatte annusare alle persone a me care per cercare di condividere con loro un po di queste emozioni, ma sapevo già che non avrebbero capito. Per capire bisognava essere li, lontano da tutti, li dove esiste solo il vento, l’aria, il sole, la luce, gli spazi aperti, dove potevi essere veramente libero da ogni elemento superfluo che condizionava la vita a casa nostra.
Poi per tanti anni non trovai più le odorose piantine. Ad un pastore chiesi il nome delle piantine, mi disse che si chiamavano RAVAEL e che venivano mangiate dalle capre nei pochi giorni della loro fioritura. Ma non ne trovai più fino al giorno in cui………

…….ieri, tornando, ho notato che sul terreno apparivano degli stecchi. Mi fermo e cerco attorno a me uno stecco che avesse ancora qualche residuo di quelle che dovevano essere delle foglie. Lo porto al naso ed aspiro. Riconosco l’odore dei ravael..
                        (Oggi questo pozzo è scomparso......come tante altre cose)
Oggi andrò nella zona dei pascoli alti per vedere se posso trovare qualche piantina di ravael che ancora porti attaccate delle foglie con l’aroma che tanto amo. Devo trovarne almeno una, devo portarla a qualcuno e farne aspirare l’odore. Chissà se il suo odore non riesca a rivelare un cuore che possa in futuro seguire il mio nelle peregrinazioni senza senso. Ecco perché devo trovarlo, ma credo che la ricerca sia praticamente irrealizzabile. I ravael fioriscono tra maggio ed i primi di giugno. Tutti vengono mangiati dalle capre, gli altri appassiscono e muoiono. Le foglie rimaste vengono rapidamente bruciate dal deserto e scompaiono tra le sabbie. Rimangono solo dei fragili stecchi, i cadaveri dei ravael. Ora ho una missione da compiere, trovare un ravael odoroso, ma è una missione disperata.
            
                                            (L'alba.....la partenza)
 Mi avvio fiducioso al mattino presto, in una giornata tersa e calda. Il vento, mio unico compagno, mi accompagna spingendomi verso il deserto, ma presto cambia opinione e decide di contrastare il mio cammino. Sono abituato a questi cambiamenti d’umore e non  mi lascio scoraggiare, malgrado la fatica che si preannuncia terribile.
Devo salire in quota, negli altipiani dove il sole potrebbe aver risparmiato qualche piantina. Li l’umidità notturna, seppure bassissima, potrebbe aver tenuto in vita per qualche tempo una misera piantina, la quale comunque dovrebbe anche essere stata risparmiata dalle bocche fameliche delle capre che si contendono i fiori gialli e le fresche e saporite foglioline delle giovani ravael.

Salire nelle valli con la bici in spalla è quasi un suicidio, ma la fatica potrebbe valere la pena per una speciale piantina. E’ importante che la trovi. Conosco il suo odore. Bisogna che la porti in Italia e la faccia aspirare, devo sapere quali emozioni possa provocare il suo aroma a chi non conosce il deserto, se mai a qualcuno possa provocare anche una semplice emozione. Per me ora è una sorta di scarpetta di Cenerentola. Chi si emozionasse sarebbe per me una regina, anche se travestita da Cenerentola. Per me questa piantina è preziosa più del diamante.Più del diamante perché chiunque si emozionerebbe alla vista di un diamante. Ma “chiunque” non mi interessa. E’ ora la mia unica ragione del mio vagare nel deserto. Sulla  bici c’è tanta acqua, che però ha appesantito il mio mezzo con un carico difficile da gestire. Non so quanto dovrò vagare, potrei trovarla subito o anche domani, magari non la troverò…. Mi dirigo verso ovest e presto lascio il terreno conosciuto con alla mia sinistra la valle delle microonde.


Risalgo una valle stretta e malagevole con ciottoli incoerenti e neri, roventi come un cuore bruciato dall’amore.
Il caldo infernale mi fa consumare più acqua del preventivato. Qui non c’è traccia di vegetazione. Del resto i ravael crescono negli wadi e negli altipiani, comunque su terreno breccioso e sabbioso e qui è inutile cercare, ma devo attraversare questa valle se voglio arrivare nella zona degli altipiani. Anche il wadi Madsus poteva essere un posto buono, ma ieri ho visto che non c’era alcuna traccia delle adorate ed agognate piantine.


Forse è meglio tornare indietro e cercare in un posto più adatto alla presenza umana. Qui servirebbero due ali, non basterebbero due cuori. Forse potrebbero essere sufficienti quattro gambe, ma se le gambe fossero di un fennec o di un’addax. Io non ho neppure due gambe, me ne sono rimaste si e no un po più di una…E sicuramente non ho neppure un cuore intero. E poi oggi vedo un deserto vero, non quello che ho immaginato per anni. La mia fantasia ed i miei sogni non bastano più a dipingere un quadro inesistente, sono solo un uomo, non ho più sogni, ne fantasia, ne poesia e non posso attraversare questo luogo. Mi sforzo di proseguire, ma tutto mi dice di tornare indietro. Tanto a che serve? Nessuno apprezzerà il suo profumo, e poi non so neppure se la troverò.

Il sole del mattino arriva al culmine che sto ancora salendo e spingendo la bici contro la mia stessa volontà di non proseguire. Come sono stupido, per quale ragione devo salire sugli altipiani? Almeno non fossi solo. Ma non lo sono!! Ormai sono anni che me lo ripeto, ma ora non ci credo più. Il deserto non può più ammaliare ed offuscare la mente, quando la realtà è troppo evidente. Forse può dipingere come un acquerello su un foglio immacolato, ma non può coprire un disegno già stampato, riuscirebbe solo a confondere un po i contorni già sbiaditi. Finalmente  la malagevole salita accenna a finire, ecco il valico.


 Ora lo wadi torna in lieve salita, però posso pedalare, il terreno permette alle ruote di non affondare e sono scomparsi i tetri ciottoli. Non vedo alcuna bellezza, il vento non scandisce le parole amate, taglia solo le labbra con il suo coltello affilato e rovente, le pareti ai miei lati  sono solo ammassi informi di pietre nere incombenti che aspettano solo il momento opportuno per precipitare a valle con un eco sinistro. Che ci sto a fare qui? Che ci sto a fare nel deserto? Perché non sono a monte Calvo con la mia fata? Cosa cerco quaggiù che non posso avere sui miei monti? La risposta non la voglio sapere, ma la so. Nei miei monti non posso avere più nulla ed allora cerco un’illusione lontano da tutti, un’illusione che nessuno può smentire, perché non c’è nessuno. Ma ora è successo qualcosa, quest’anno un’altra realtà ha preso personalità.
Nessuno, Nessuno, Nessuno…..Quello che mi proteggeva, che mi permetteva di far sopravvivere i miei sogni ora è un’entità viva, non più astratta. Nessuno…Nessuno..ora parla e mi dice che Nessuno può sentirmi, che Nessuno può venire con me. Nessuno distrugge le mie fantasie, Nessuno distrugge i miei sogni. Perché sono quassù? Anche se colgo la piantina, che senso ha? Perché dovrei portarla in Italia? Il suo profumo si perderà prima di arrivare.

Le tetri pareti mi sovrastano, incombono sul mio animo, pesano sulla mia mente, il caldo è insopportabile. Grido, urlo per scaricare la mia rabbia, la mia debolezza, la mia inettitudine. Non so cosa urlo, ma l’eco mi risponde, all’infinito, non si ferma. Cos’ho urlato. Credo di saperlo, ma l’eco echeggia con un’altra parola, non è possibile!
Mille volte ripete e più ripete più sono atterrito. Allora il deserto non è quello che avevo visto da qualche ora, da qualche giorno, è quello che ho sempre saputo, è quello che ho sempre visto. O creduto di vedere. Ma dura poco, tutto torna come prima, l’incanto è scomparso. Pedalo come un automa nella breccia riarsa e rovente, senza scopo, senza meta. E’ pomeriggio e vado ancora avanti, nessuna piantina è sopravvissuta per me. Neppure una piantina per me. Cosa sarebbe costato ad una semplice piantina sopravvivere per me? Mi avrebbe fatto sentire meno solo.

Ma nulla compare sulla superficie sterile e dannata. Solo io mi ergo al di sopra dei ciottoli. Che inutilità! Ora sono sull’altipiano immenso, il sole ormai rincorre i suoi raggi tra le creste. Devo tornare anche se già so che è tardi e che comunque non riuscirò ad arrivare prima di notte. Anzi, credo che ormai dovrò dormire all’addiaccio. Devo comunque avvicinarmi il più possibile alla costa perché non posso correre il rischio di dover fare un lungo tragitto di ritorno senz’acqua. Ma il rischio vale una piantina? Per un uomo normale senza fantasia, ne sogni, no, sicuramente no! Ma spero che un po di fantasia e di sogni, un po di poesia sia ancora rimasta nelle profondità della mia anima, altrimenti non saprei come giustificare la mia presenza quassù a quest’ora.

Decido di andare ancora un po avanti e poi di tornare. Pedalo come un ubriaco a destra e sinistra, ma possibile che una piantina…..una semplice piantina….anche uno stecco….una misero stecco…..solo per me…
Non guardo più neppure dove dirigo la bici, poi…..un arbusto minuto, da lontano, potrebbe essere, chissà..andiamo a vedere.
Il cuore mi batte, forse,  ma si !!! E’ una piantina
“Eccola finalmente, finalmente! Finalmente una piantina, Ho camminato un giorno intero per lei!” .
Mi avvicino e la raccolgo, povero stecco rinsecchito. Ha perso quasi tutto il suo profumo, ma a me non importa. La metto tra le mani e me la porto al naso, chiudo gli occhi ed inspiro.
Ora sono  felice, ho trovato ciò che cercavo e carezzo le foglioline rinsecchite che, divenute fragili come cristalli, si trasformano in polvere appena toccate.
Porgo  le mani a conca cercando di non disperdere i resti delle foglie e amorevolmente le ripongo in un sacchetto. Che profumo emana da esso!
Ora perché sento il petto scoppiare, perché ho voglia di piangere? Forse semplicemente questo è l’amore?

Il suo profumo sa di vento, di libertà, di notti passate sotto le stelle, di speranze, di ricordi, di sogni, di rimpianti. Sa di caldo, di paura. Sa di folletti e di tempeste. Ora so perché sono venuto quassù, come avevo fatto a dubitare ?.

Ma il deserto è un luogo speciale. Un luogo dove la realtà si confonde con la fiaba, dove ogni cosa assume un'anima. Quando sei lontano centinaia di km da un'altro essere umano, il  rumore della sabbia che scende dalle dune diventa un suono lugubre che lo fa sembrare un calpestio di cavalli, dove i piccoli tornado non sono altro che  i malefici djnn che si insinuano negli esseri umani con il respiro e lo fanno impazzire mentre la sua mente insegue le persone amate. E' qui che anche un fiore può assumere un'anima....ma poi, perchè non dovrebbe? Ciò che il deserto crea nella tua mente sono solo sogni, oppure non sarà che qui  i nostri occhi  vedono la  pura realtà, non più abbagliati e confusi dai fumi della nostra protettiva civiltà?......

Una piantina di ravael nacque in mezzo ad altre, poche, ma molte nello sconfinato deserto. Era bella, odorosa, succulenta ed aveva tra i capelli un bel fiore giallo. Essa rappresentava la vita, la vittoria sulla morte, la possibilità che l’amore vincesse sul nulla.

Era orgogliosa della sua bellezza e quando qualche insetto si inebriava della sua essenza sentiva che essa era indispensabile a perpetuare la vita li dove la morte faceva scorribande travestita da turbine e da tempesta.
Poi arrivavano le capre e tutte le piantine si rassettavano i capelli, alzavano il busto e si spruzzavano il profumo per far innamorare qualche capretta.

 Come si poteva resistere loro? Le loro foglie erano dolci e succulente, il loro profumo irresistibile ed erano belle, belle, belle. Il vento, complice del loro amore, faceva ondeggiare  i loro fianchi ed il fiore sulla loro testa era una maledizione divina per le caprette che si contendevano le poche piantine.
            (Un pascolo di ravael fotografato negli anni successivi nella fioritura)
Com’era dolce per loro essere annusate, leccate, contese e poi carpite. Sapevano che nella bocca delle capre esse potevano vivere, si sarebbero trasformavate in carne e avrebbero potuto vagare nel deserto, non essere succubi del vento e del sole, avrebbero potuto esse stesse annusare i profumi, e poi avrebbero amato con un cuore, non solo con la linfa. Questo tutte speravano, avere un cuore, magari di capra, ma avere un cuore che battesse non solo quando bisognava correre, ma specialmente per amore. Ecco, meglio avere un cuore di capra che non averlo affatto. Poi non era finito. Sai che soddisfazione diventare latte profumato! Si potevano nutrire gli agnelli. Loro si che avevano un cuore, un cuore di cucciolo.

Questa era l’aspirazione di tutte le piantine di ravael: diventare un cuore di cucciolo. Quel cuore poteva vedere dove nessun altro nemmeno immaginava. Quel cuore non doveva imparare ad amare, era lui stesso l’amore. Poi avrebbe dimenticato e forse più avanti negli anni avrebbe potuto di nuovo imparare ad amare, ma era un rischio. Un cuore di cucciolo era una sicurezza. Questo cuore non aveva dubbi che il sole sarebbe sorto ancora. Il cuore di una capra batteva la sera, al tramonto. La luce scompariva, il nulla ingoiava il mondo. Il cuore di una capra vegliava tutta la notte perché aveva timore che il sole non avesse più la forza di sorgere. Ma perché i cuori di cucciolo non battono la sera? E’ semplice, loro sanno che il sole sorgerà ancora, basta attendere. Il loro cuore non ha dubbi e possono riposare tranquilli. Era necessario quindi diventare cuore di cuccioli, ma per farlo bisognava essere mangiate. “Porca miseria!” pensò la piantina “forse che io abbia qualcosa che non va? Perché nessuna capra mi annusa? In verità alcune si sono avvicinate, mi hanno annusata e persino assaggiata, ma poi si sono allontanate. Eppure sono bella, almeno come le altre!”

Ora il tempo passava ed il deserto era implacabile, bisognava far presto. Il sole non da tregua ed inaridisce i viventi. Sapeva che in poco tempo essa sarebbe rinsecchita, avrebbe perso il suo peso, le sue meravigliose curve sarebbero avvizzite. Chi l’avrebbe più neppure guardata? Se non faceva presto gli armenti avrebbero abbandonato la zona e tutto sarebbe morto. Nell'estate neppure un insetto resiste al calore infernale. Ma comunque non avrebbe avuto senso perché essa non sarebbe più servita a nulla, sarebbe morta inutilmente e non avrebbe saputo cosa fosse l’amore, non avrebbe mai avuto un cuore che batte. I giorni passavano e tutto era morto, nel deserto. Solo lei, ormai irriconoscibile contrastava il vento, a pochi cm da terra. Si era piegata, non aveva più il colorito rubicondo dei giovani, ma non cedeva. Nessuno avrebbe scambiato lo stecco sterile per una bella piantina di ravael.

Attorno a lei non c’erano più neppure i resti delle piantine più fortunate. Il deserto aveva cancellato tutto. Il vento rovente aveva sepolto tutto e la sabbia ora tentava di seppellire anche lei. “Nessuno si accorge che sono viva?” pensava la piantina. Ma chi avrebbe potuto accorgersene? Resisteva alla morte con stoicismo quando un giorno udì un calpestio lontano, fors’anche uno sferragliare  confuso. Si alzò con tutte le sue ultime forze, sporgendo dalle sabbie per quel che poteva, sperando che fosse qualche capretta dispersa dal gregge, ma sapeva che era una speranza inutile.

Tutti erano andati via da un mese. Ora era piena estate, ma chissà! Chi poteva essere che camminava sul rovente terreno? Per quale scopo avrebbe dovuto farlo? Le forze la stavano abbandonando, ma non avrebbe mai ceduto, forse era l’ultima occasione per avere un cuore. Ora vedeva bene, era un essere umano.


Peccato, l’uomo non mangia i ravael. Era finita. Reclinò la testa ed aspettò la morte. Con l’ultimo sguardo vide che l’uomo si aggirava senza senso su e giù per lo wadi. Ora si fermava e guardava lontano, ora tornava indietro, deluso. Poi si avvicinava verso di lei, ma poi improvvisamente deviava. Sicuramente era un pazzo. Perché fare tanta strada nel deserto? C’era un giorno di cammino dal villaggio. E perché poi vagare senza senso? Perché sprecare tante energie?  “Non capirò mai gli uomini” pensò la piantina. Poi gli venne in mente che non aveva cuore e credette che era questa la ragione per tanta incomprensione. “ Non è vero” Urlò “ gli uomini li ho conosciuti ed è per questo che voglio un cuore di capra !! Gli uomini ci calpestano, ci schiacciano sotto i loro sandali.  Nessuno , neppure per pietà ha mai rialzato una piantina riversa a terra. Qualcuno addirittura ci tira i calci e ci strappa le membra. Forse ho fatto male ad urlare, potrebbe avermi sentito ed ora verrà a darmi il colpo di grazia.” Chiuse gli occhi ed attese la morte.
Un urlo lontano la fece trasalire prima che la vita l’abbandonasse. “Eccola finalmente, finalmente! Finalmente una piantina, Ho camminato un giorno intero per lei!” . La piantina non si spiegava lo strano comportamento dell’uomo, ma attese che egli si avvicinasse. Non riusciva a capire. Forse che l’uomo aveva detto che per lei aveva camminato un giorno nel deserto? Chi è quel pazzo che avrebbe fatto tutto quel tragitto quand’anche  per una donna? Figuriamoci per una piantina! L’uomo si avvicinò e la raccolse, povero stecco rinsecchito. Aveva perso quasi tutto il suo profumo, ma all’uomo non parve importare. La mise tra le mani e se la portò al naso, chiuse gli occhi ed inspirò. Com’era felice la piantina. Cercò di emanare tutto il suo misero profumo. “Se quest’uomo ha traversato l’inferno per me ora che sono inguardabile, chissà cosa avrebbe fatto se mi avesse conosciuto quando ero florida, quando il mio profumo si aggirava nel deserto attirando insetti, quando la mia presenza poteva essere avvertita alla distanza di una corsa di cammello. Lo avrei fatto impazzire di gioia”. Ma l’uomo era felice, aveva trovato ciò che cercava e carezzava le foglioline rinsecchite che, divenute fragili come cristalli, si trasformavano in polvere appena toccate.

L’uomo mise le mani a conca cercando di non disperdere i resti delle foglie e amorevolmente le ripose in un sacchetto. Che profumo emanava da esso! Com’era stata fortunata la piantina. Aveva atteso tanto, aveva perso quasi tutte le speranze, ma ora sapeva, sapeva cosa vuol dire avere un cuore. Ora lo sentiva battere, ma non sapeva come poteva essere successo. L’uomo non mangia i ravael ! Allora perché sentiva il petto scoppiare, perché aveva voglia di piangere? Forse questo era l’amore? Poi pian piano capì. Il suo profumo, ormai quasi esaurito era stato respirato dall’uomo ed era andato nei polmoni, quindi nel sangue e si era annidato nel suo cuore. Quello che sentiva era il cuore che batteva per il profumo che ancora inspirava, era la sua essenza a dargli l’emozione che lo faceva piangere. E lei lo ripagò. Il suo profumo sapeva di vento, di libertà, di notti passate sotto le stelle, di speranze, di ricordi, di sogni, di rimpianti. Sapeva di caldo, di paura. Sapeva di folletti e di tempeste. Ma l’uomo ora non era in grado di distinguerli, egli sentiva solo l’odore dell’amore. La piantina seppe che l’uomo era venuto sin li proprio per lei e fu felice come non lo era mai stata in tutta la sua vita. Non c’era stato bisogno di essere mangiata, del resto chi avrebbe più avuto il coraggio visto come era ridotta? Era bastato il profumo. Era entrato nel corpo dell’uomo, in tutti i suoi capillari, si era fuso con esso e sentiva ora che non era vero che gli uomini non hanno un cuore.


     (Anni dopo, in  un bivacco in un prato di ravael..... per respirare il profumo dell'amore)
Lo sentiva battere d’amore, sentiva la sua mente vagare lontano, sentiva il sapore del vento, il,profumo della libertà, la felicità delle notti passate sotto le stelle, capiva le speranze, i ricordi, i sogni, i rimpianti. E si chiese : “Ma non sono le stesse cose che ho provato io quando credevo di non avere un cuore?”……
Chi crede che questa sia una favola non vada nel deserto. Vedrebbe solo sabbia rovente e sentirebbe solo caldo.....................

PS:
 Uno dei più bei regali che ho ricevuto è una lettera della madre di un mio amico che si firma "mamma Adalberta" riferita alla storia di monte Calvo ed alla ricerca del fiore nel deserto che raccontai in un incontro al CAI. Mi sono permesso di riportarla già in questo blog nel post " Monte Calvo: il mito d'origine" del mese di marzo, Mi scuserete la ripetizione , ma è stato un bel regalo...giudicate un po Voi.



                               GRAZIE ANCORA, MAMMA ADALBERTA!!!


mercoledì 25 aprile 2012

WADI MANDAR: il labirinto.

                               
SILENZIO E SOLITUDINE
Solamente chi vive nel deserto
ne conosce il silenzio
che scende da ogni stella palpitante
e dalla bianca tomba della luna.
Si stende senza palpiti il deserto
simile al cuore di una donna morta
che nessuna carezza può svegliare
Solamente chi è perso nel deserto
senza canti di uccelli
né stormire di fronde
nell'arido grigiore
di pietra e sabbia
conosce la vera solitudine
Io mi sono disteso
in questa immensità che scava
di sotto ai nostri piedi
la cuna della tomba e del vagito
                                      (Canto tuareg)
                            
Su una guida turistica avevo visto una gita da fare in fuoristrada. Diceva mirabilie su uno wadi neppure tanto lontano. Urgeva andare a vedere di cosa si trattava.

Il tragitto sembrava abbastanza ben descritto e relativamente facile, anche se si parlava di fuoristrada 4x4 e non di bicicletta e gambe. La cosa non è perfettamente identica. 50 km in fuoristrada su terreno molle e con temperature di 55 gradi è una risata, appena una o un’ora e mezzo, seduti comodamente in una cabina magari climatizzata e ben forniti di bibite in frigobar. Sul terreno, in bicicletta può essere un’inferno.
Dato che a me fanno ridere decine e decine di  km in un deserto molle ed ardente, ho pensato di non percorrere lo wadi partendo dal villaggio che si trova al suo sbocco e poi risalirlo e tornare indietro. Quando sono andato al Wadi el At mi sembrava di riconoscere un monte che doveva essere al lato dello wadi Mandar e che avevo visto in una foto della guida.
Quindi quale meglio decisione di risalire il Wadi el At, tentare di trovare un valico che porti nello wadi Mandar e poi ridiscendere nelle sue sabbie fino al villaggio? Ci sarà il passo? E poi anche se ci fosse, chi mi dirà che quello è proprio lo Wadi Mandar che mi porterà fino al villaggio? E se non fosse lo Wadi Mandar dove andrò a finire? Staremo a vedere. In ogni caso porterò una quantità d’acqua che mi dovrebbe bastare per due giorni, quindi non avrò preoccupazioni.
(Il percorso dallo W El At al Mandar. Visto da google sembra facile, ma sul terreno è un labirinto inestricabile di valli collegate da valichi impercorribili)

 L’unico problema è sempre il solito. Se mi si dovesse rompere irrimediabilmente la bicicletta quando sarò alla massima distanza non sarei in grado di tornare. Questo è un po come quando si arrampica.
 Se non ci si fida della corda o dei chiodi il discorso è già bello che chiuso. Ci si deve PER FORZA fidare. Ma in realtà nessun rocciatore pensa che possa mai cadere. Non si può andare sui monti con la paura della morte o di cadere. In montagna ci si va per la vita, non per la morte. In conclusione, è inutile pensare a tutto quello che potrebbe succedere. Infine chi mi dice che non potrei tornare  da 50 km di distanza?
Ancora non albeggia quando parto in una giornata che sembra la più torrida di quest’anno. L’aria notturna quest’oggi è calma e umida come mai avevo sentito. Chissà cosa significa. Anche il sole sorge perforando una bruma inglese. Il vento non si alza. Sul momento sono contento della sua assenza, posso pedalare senza sforzo verso lo Wadi el At. (Cfr Wadi El At in questo blog).  La bicicletta è carica fino all’inverosimile di acqua, porto circa 16 litri, che sembrano molti quando si sta seduti alla Villetta dopo aver sciato, ma qui sono meno che niente. Per essere in equilibrio idrico, durante lo sforzo sotto il sole di luglio nel deserto, ci vogliono anche 3 litri l’ora. Quindi sono circa 4 h di autonomia, ma poi c’è la resistenza dell’organismo.

Comunque bastano per un giorno in maniera abbastanza tranquilla. Il sole non è poi così assassino per tutto il giorno. Solo per tre o quattro ore egli è micidiale, poi la sua forza decresce e il deserto diviene vivibile e……pedalabile. E poi c’è la notte, che sembra fatta apposta per fare una prestazione fisica, con temperatura ed umidità ottimale. Durante la notte si può raddoppiare il percorso effettuato durante il giorno.  La strada corre. Conosco il tragitto e quindi sembra tutto più corto. Il sole ancora non sbuca completamente dalle brume, ma quando finalmente lo fa, si accende la stufa. L’aria vibra, ma non si muove. Il villaggio è addormentato, ma il cammello da guardia lancia un grugnito sinistro. Sapete che qui non ci sono cani? Non ne ho mai visti nel deserto. Del resto da chi dovrebbero difendere le capre? Poi i cani sono carnivori e quindi di che si dovrebbero nutrire se non delle stesse capre? Lascio velocemente il villaggio e risalgo in maniera inaspettatamente veloce lo Wadi. Ricordo ogni particolare ed anzi c’è la mia traccia  di qualche giorno prma ancora perfettamente intatta. Prima del termine dello wadi mi fermo, faccio colazione con il solito pane e datteri e studio il territorio. Lo Wadi Mandar si trova a nord, quindi dovrebbe essere ora di lasciare il terreno conosciuto e tentare di trovare un valico che mi porti nel Mandar. Mi inoltro in una valle che sembra risalire verso nord. Ai lati non ci sono alte montagne, ma colline di terra rossa ed il terreno è abbastanza pedalabile.

Forse la fortuna aiuta veramente gli audaci perché sembra che ci sia uno sbocco a poca distanza da me. Mi sembra tutto troppo semplice, ed io non mi sbaglio facilmente…..
Ben presto le montagne che si trovavano all’orizzonte si avvicinano e più si avvicinano, più mi rendo conto che sono invalicabili. Diventano un muro aggettante sulla mia testa.

Alla mia destra non c’è speranza di valico, mentre sembra che a sinistra il monte dia un minimo di tregua al cielo. Andare a sinistra però significa allontanarsi dalla direzione est da cui provengo e significa che poi dovrò percorrerla per tornare. Sotto il monte la temperatura aumenta, anche perché il terreno è nero e tutto inizia a ballare. Non so se questa sensazione sia oggettiva o soggettiva. Provo a stropicciarmi gli occhi. Mi fermo, bevo, mi distraggo un po, cerco di non pensare per non farmi influenzare, ma nulla cambia alla mia vista. Percorrere la zona pedemontana per cercare un valico diventa una sfida contro il calore e la voglia di abbandonare. Strette valli scendono dalla parete e tagliano il mio percorso perpendicolarmente. E’ un saliscendi infernale in un’aria sottile e rovente che fa male alla gola. Basterebbe seguire una qualunque delle valli e il tormento sarebbe finito.

Ma dove sta il gusto nel non avere sete? Nel non sentire i muscoli che reclamano sali minerali ed acqua? Nel non sentire il cervello bollire ed udire ciò che non c’è e nel vedere ciò che non esiste? Dove sta il gusto nel non sentire il cuore battere tumultuosamente, fermarsi e poi ripartire come all’ordine di un direttore d’orchestra?
Dove sta il gusto nel sapere sempre che durante una gita si parte e si torna sempre? Nella nostra civiltà tutto deve essere stabilito, tutto programmato. Devi fare questo e questo, devi lavorare e comperarti la macchina…….. Qualunque imprevisto mette la nostra civiltà e noi stessi al tappeto. Guai ad essere stanchi o ad avere sete o fame.
Qui non c’è tutto questo. Qui non c’è nessuna sicurezza, siamo fuori la nostra campana protettiva e forse solo qui mi accorgo che normalmente viviamo in una gabbia, comodi  e sicuri quanto si vuole, ma pur sempre una gabbia.

Finalmente una valle più stretta ed incassata tra le argille pedemontane mi sembra promettere un tragitto verso nord. Ai suoi lati, man mano che procedo, l’argilla lascia il posto alla roccia, che si alza come un muro inclinato. La valle corre quasi in pianura e poi, repentinamente così come quando era iniziata, finisce. Esco allo scoperto in una valle che non sembra procedere verso alcuna direzione. Non sembra uno wadi, anzi, sicuramente non lo è.

                                               (Una delle valli interne)
Forse è meglio tornare indietro e tentare più a ovest. La sola idea di ripercorrere tutte le valli mi mette il terrore, meglio esplorare bene il posto dove mi trovo. Salgo su una collina alla mia sinistra, quella che mi sembra più facile da percorrere. La sua cima tonda mi permette di osservare tutto il panorama. Lo sguardo si perde all’orizzonte, ma man mano che focalizzo le zone più vicine, mi rendo conto di cosa mi aspetta ed un brivido mi corre nella schiena. Tutto il territorio è composto la un tavolato piatto, largo non so quanti km, da cui emergono monti ripidi, in realtà non eccessivamente alti, solo poche decine di metri. Le loro pareti sono però ripide e difficilmente superabili.

Strette valli corrono tra questi monti formando un labirinto inestricabile. Ci sarà pure una via per passare, ma ogni volta che tento di seguire con lo sguardo una valle, questa prima o poi si ferma contro una parete. Alla fine, dopo aver riflettuto per qualche minuto, credo di aver trovato il bandolo della matassa. Credo, ma non ne sono sicuro. Inoltre non sono certo che al di la del labirinto si trovi lo wadi Mandar. Tornare indietro sarebbe più facile, perché potrei seguire le tracce della bicicletta. Bevo dell’acqua che sembra scendere nella gola come un sorso di centerbe a 75 gradi. Brucia come un boccone di peperoncino. Bevo altra acqua perché questi sono i primi sintomi della disidratazione. Controllo l’acqua. Ancora ho scorte a sufficienza e mi tranquillizzo. Mi avvio in discesa senza scendere dalla bicicletta, con circospezione sul terreno duro e sassoso. Arrivo alla pianura e un impeto di sdegno compare sul mio viso.

 Il terreno della pianura, che da lontano sembrava sabbioso, è invece durissimo e, benchè le ruote corrano senza sforzo, esse però non lasciano la  minima traccia. Se dovessi tornare indietro, non potrei seguire il tragitto già segnato. Dovrei essere in grado di riconoscerlo. E la cosa non è così facile come sembra. Più mi inoltro nel labirinto, più mi rendo conto che è tutto perfettamente uguale. Dopo pochi minuti già non sono più sicuro di stare seguendo la valle che avevo attentamente studiata. Dopo circa un quarto d’ora sono completamente fuori rotta e la valle mi porta verso est invece che verso nord. Devo tornare indietro e tentare un’altra strada. Comunque devo seguire un metodo scientifico perché altrimenti potrei andare avanti ed indietro nella stessa valle fino a notte. Tento di ritornare al punto di partenza, ma la cosa non è così facile. Sono sicuro di aver percorsa questa valle, ma quando una parete ferma il mio cammino, allora mi accorgo di aver sbagliato.
                         (La mia strada si interrompe sotto una parete...)
 Il sole ora scatena la sua forza. Il termometro, tenuto scrupolosamente all’ombra, sale a 53 gradi, poi a 54 e si assesta infine a 55.6. Tra i meandri infiniti non un filo di aria si muove. Solo camminando con la bici  posso muovere un po di aria attorno a me. Non posso fermarmi, perché fermarsi equivale a riscaldarsi improvvisamente ed inesorabilmente.  Devo bere perché mi gira la testa e questo non è un buon segno. Forse non sto particolarmente in forma, forse gli anni cominciano a reclamare i propri diritti. Spesso mi dico che non posso ogni volta confrontarmi con quel me stesso degli anni precedenti, che devo darmi un handicap ogni anno che passa, ma poi è tutto inutile.
                                         (Quale sarà lo wadi giusto?.....)
Ogni volta mi scopro un po più debole e la cosa mi rattrista come un atleta che non vince la sua più importante gara. Qualche volta addirittura baro e sovrastimo quel che ho fatto in gioventù. Allora il confronto diventa ancora più duro, perché è una battaglia persa, ma inconsciamente io non me ne accorgo. Solo quando torno e mi riposo riprendo il mio spirito critico e giudico la verità, ma ogni volta ricado nell’errore.
Anche ora questi pensieri tengono impegnata la mia mente, mentre vago senza meta nel labirinto minoico, temendo ogni passo di incontrare il Minotauro. Mi basterebbe un piccolo filo, ma Arianna non c’è.   Arianna…… chissà dove sarà!!. Nel mondo moderno Arianna sarà  impegnata in mille attività, sicuramente altri uomini la distrarranno e Teseo soccomberà al Minotauro. Ma non sa che la leggenda la lega ad un folle che si è perso nel labirinto? Che deve essere li a tirarlo fuori prima che il Minotauro lo divori?
                                              ( Non un filo d'ombra.....)
Almeno nel labirinto di Minosse non faceva caldo. Era tutto tenebre ed umido. Mi accorgo di farneticare.....Qui il Minotauro è mascherato da Sole. Il sole penetra in tutti i pori, in tutti pertugi. Ogni più piccola roccia è permeata in esso. Non un filo d’ombra reca ristoro, se non al corpo, almeno all’anima. Mi basterebbe vedere un po di ombra, ma la luce abbaglia tutto, Il sole ora è a picco sui monti e le valli, sulla mia mente e sui miei occhi. Tutto è abbagliante, tutto è piatto, senza pietà. Le gambe sono pesanti, nonostante il terreno scorrevole. Devo bere, bere, e bere ancora. Non ho sete, ed anche se avessi sete potrei resistere senza sforzo. Ma  il fatto non è di estinguere la sete, quanto quello di reintegrare i liquidi che evidentemente stanno evaporando in fretta dal mio corpo. Speriamo che non compaiano i primi crampi.
Ancora ho acqua , ma finchè non saprò di essere nello wadi Mandar non potrò dare fondo alle riserve. Altre volte in montagna mi sono trovato in simili situazioni. Mi era bastato concentrarmi ed estraniarmi dal luogo. Potevo allora seguire il mio istinto. Nessuna bufera o nebbia mi hanno mai minimamente impensierito. Tento di farlo, ma non riesco a concentrarmi.  Mille pensieri si accalcano nella mia testa, distraendomi. Arianna….il Minotauro….gli anni che passano….la vita…la morte… Filippo…i ricordi… quelli non mi abbandonano mai e qui nel deserto sono sempre più vivi e nitidi. Pedalo senza alcuna destinazione, tanto ormai non sono più in condizione di giudicare dove sono.  Devo tornare indietro molte volte, tanto che infine credo sia meglio rinunciare e tornare indietro definitivamente.
                           ( Le piste non vanno mai al posto giusto.....)
Dopo un’ennesimo tentativo trovo una pista. La seguo e scopro che passa proprio a fianco di dove sono appena transitato, solo che credevo che non ci fosse sbocco. Un passaggio angusto, largo appena per far passare la bicicletta, mi permette di superare la prima catena di monti. Al di la la cosa non cambia, mentre il livello dell’acqua nella tanica scende inesorabilmente e pericolosamente.  Mi preoccupa poter rimanere senz’acqua. Questo è il peggior incubo nel deserto. Ne ho consumato più del previsto, ma non potevo sapere di dover attraversare un territorio tanto infernale. Comunque ora le valli sono più larghe e l’animo respira un po.
                   (Un po di respiro in una piana tra il labirinto.......)
Inoltre i monti sono più accessibili e nella peggiore delle ipotesi posso anche superarli direttamente senza aggirarli. Ben presto la peggiore delle ipotesi si rivela purtroppo la triste realtà. Non c’è verso di aggirare le colline. Ogni volta mi ferma  una parete o le mie stesse tracce che ora sono ben evidenti. L’unica soluzione è salire su una collina percorribile ed andare al di la. Salire sulla collina consuma molte delle mie energie non tanto per la difficoltà del percorso, quanto a causa del mio cuore che improvvisamente ha accelerato la sua corsa, come sempre succede quando mancano liquidi e sali.
Ingoio dei chicchi si sale grosso, stando ben attento a che non  mi si attacchino alla gola ed inizio a bere  l’ultima bottiglia di acqua.
Arrivo alla sella. Lo sguardo spazia su una piana costellata da rare acacie ed abbellita da colline semisferiche che sorgono repentine dal terreno, mentre l’orizzonte non troppo lontano è chiuso da alte montagne. Tra queste c’è un cima altissima, con una parete liscia che guarda il versante est sotto cui si stende il villaggio di Mandar. Conosco il villaggio di Mandar. Questo è lo WADI MANDAR!!!!

                         (Sotto la montagna aguzza c'e il villaggio seminomade di Mandar)
Ma mi trovo ancora sulla sella. Salendo avevo notato orme rade di cammello, stampate sulle zone meno dure del terreno, tra le rocce.
Questo piccolo segno mi aveva rincuorato un istante, prima di sapere di trovarmi in prossimità dello Wadi Mandar. Ora sulla sella siedo e penso che dovrò percorrere almeno 50 km, con poca  acqua. Ed il sole impietoso irradia calore avvampando qualunque cosa esista attorno a me. Alla sinistra del valico una pietraia nera sembra il radiatore di un termosifone. Non posso riposarmi qui al sole. Proprio sotto di me, circa 50 m più in basso, si vede un’ acacia. Devo scendere rapidamente fino li e riposarmi all’ombra. Tutto sembra facile, ma tra me e l’acacia si interpone una parete ripida e rocciosa, anche se relativamente facile da scalare. A piedi sarebbe un’inezia, ma devo scendere anche la bicicletta. E questo complica enormemente le cose. Se reggo la bici non mi aggrappo alla roccia, se mi aggrappo alla roccia mi scivola la bici. Il dubbio di non poter scendere si affaccia prepotente alla mia mente. Non posso certamente tornare indietro, non saprei ripassare il labirinto e mi sembra di non aver più la forza di cercare un nuovo passo che potrebbe anche non esserci. Alla fine lego i due elastici del portapacchi e la scendo un po alla volta, ogni volta agganciando l’uncino alle asperità della roccia. Con molta fatica e consumo di acqua, finalmente arrivo alla pianura e l’acacia mi appare come la salvezza.  Dapprima lascio la bici a debita distanza dall'acacia, ma poi mi faccio vincere dall'ombra e sfido le spine.

 Le acacie non hanno foglie, anzi le hanno ma sono trasformate in pericolose e durissime spine che hanno la capacità di penetrare senza problemi in qualunque materiale, anche se apparentemente resistente. Cadono dall’albero ed il vento le sparpaglia attorno ad esso. Sarebbe un dramma dover riparare le ruote se dovessi forare.  Pulisco diligentemente il terreno e finalmente mi siedo. Nessuno può sapere quanto l’ombra possa essere magnifica. Nel Mandar finalmente il vento ha ripreso vigore. Vento ed ombra stanno rinfrescando il mio corpo. Sento la linfa vitale tornare nelle mie gambe, ma so che è una sensazione ingannevole. I sali persi non si riacquistano con il riposo ed i muscoli ne hanno estremo bisogno, quindi devo essere prudente. Vorrei rimanere qui fino all’imbrunire e potrei farlo, ma non conosco il tragitto che devo percorrere e non so dove andare, quindi devo lasciare a malincuore l’acacia. Una roccia rotonda alta circa 20 m si para tra me e l’est, li dove credo debba andare.
                ( Dalla collina si intravvede la bicicletta sotto la prima acacia)
 Prima di muovermi salgo sulla semisfera perfetta e levigata, attraverso delle rocce appoggiate come una scala alla sua destra. Sulla cima il vento è fortissimo. Ma il Minotauro ha perso le sue corna e l’orizzonte lo tira a se inesorabilmente. Il termometro inizia la sua parabola discendente. Ora segna 49 gradi. Il panorama è a 360 gradi. Fotografo  circolarmente. Tutto attorniato di monti che lo chiudono, lo Wadi Mandar è un Wadi anomalo. Più che una valle è una vera e propria pianura sterminata, perfettamente livellata. Sabbia e brecciolino finissimo compongono un terreno incoerente da cui si innalzanocolline improvvise, ora semisfere, ora parallelepipedi, ora torri, ora guglie.

 Tutti i tipo di terreni geologici sono rappresentati. Una collina è calcare, una guglia è intrusiva, un cubo è granito, un cumulo di sassi è nero, un pinnacolo è bianco.
Comunque ogni tipo di roccia è eroso dal vento e scalpellato dalla mano inesorabile della natura che ha composto opere d’arte moderna. Ogni più piccola parte potrebbe essere ammirata per ore, scoprendo nuove ed inimmaginabili sculture.
La fantasia ci fa scoprire orsi, aquile, statue umane, cavalli, ma le nostre paure ci fanno vedere streghe ed orchi, diavoli e mostri pronti a rapirci, mentre il vento si insinua nelle ance minerali zufolando suoni lugubri.
Su tutto domina la parete che avevo intravisto dallo wadi Ashawira, sotto di lei ci deve essere il villaggio. Ora non posso più sbagliare

               (L'ultimo valico. In fondo a dx  il monte sotto cui c'è il villaggio)  
Un’ultimo sguardo al panorama mi fa scoprire una pista che gira attorno ad una collina. La distanza non mi fa apprezzare la sua reale esistenza, ma sono sicuro che debba trattarsi di una pista, addirittura delimitata da sassi la cui ombra incalzante nel pomeriggio la rendono più evidente.
Scendo dalla cupola con difficoltà a causa dei muscoli indolenziti ed il dolore delle ginocchia. Mangio qualcosa che non vuole decidersi a scendere nel mio stomaco, controllo che tutto sia a posto e parto. L’acqua è quasi finita e quando mi trovo a qualche km dall’acacia finisce del tutto. Ora vado a riserva, speriamo che il tragitto sia quello giusto perché i crampi sembrano proprio decisi a prendersi la rivincita dopo un giorno intero tenuti in catene come dei titani. Ora stanno per spezzare le catene e quando lo faranno distruggeranno le mie gambe, io ne so qualcosa.
                             ( Il picco sotto cui c'è il villaggio di Mandar)
Ecco perché a me non piace avere compagnia. Neppure Filippo portai in queste gite senza sicurezza, negli anni scorsi.  Io so di cavarmela sempre.  Spesso ho l’esigenza che questo qualcuno sia con me, ma poi mi domando se veramente lo vorrei.  Ed allora creo la mia compagnia che mi segue come un’ombra. Che anche se si attarda mi raggiungerà presto. Ma poi mi fermo e non viene nessuno, la voce di richiamo non è altro che il vento. La pista, ben tenuta e perfettamente levigata,  si dirige verso il villaggio. Su una pietraia assurda una pianta grassa fa bella mostra di se.

 Verde splendente, rigogliosa, sembra sfidare il sole. Da vicino sembra quasi una pianta finta, messa a bella posta dall’ente turistico locale, tanto per addolcire un po il paesaggio. La fotografo come un’attrice famosa e riprendo il cammino con qualche crampo sempre più incipiente. Ora la pista è una vera e propria strada che si capisce essere molto frequentata, delimitata da rocce nere messe appunto per evidenziarla. Alla mia destra compare una costruzione in muratura, con accanto una tenda. Davanti sono messe ad asciugare delle tovaglie. Le lampade poste sulle rocce circostanti mi fanno capire di essere arrivato in uno di quei luoghi in cui accompagnano i turisti per le passeggiate in cammello e conseguente cena beduina. Generalmente sono vicine ai villaggi. Qualche minuto e, dopo un’ampia curva a sinistra, appaiono le prime capre, poi uno stazzo in cui oziano smagriti cammelli ed infine ecco il villaggio.


Torme di bimbi mi circondano, mi rincorrono, mi parlano come se capissi, attendono una risposta alle loro domande e non si fanno minimi problemi se rispondo in italiano. Quasi non posso pedalare. Gli adulti che incontro mi salutano a grandi bracciate a cui rispondo con la voce roca. Quasi non mi esce più alcun suono. Ho la gola impastata di sabbia e delle ultime gocce di saliva. L’impasto ha un sapore acre. Ingoiato brucia come il fuoco.
                       (Alla periferia del villaggio. Le prime macchine)
Davanti a me, all’inizio del villaggio, appare come in un film, una costruzione con alcuni cartelli appesi. E’ UN BAR !!!!.
Dire bar è un’eufemismo. E’ un parallelepipedo di circa 2 m. di altezza ,  4 di lunghezza e circa 3 di larghezza, costruito con cartone ed onduline in un’impalcatura di fatiscente legno. Tutto è scuro e nero all’interno. C’è una minuscola finestra che si affaccia all’esterno, con una piccola mensolina. Quasi un drive-in. Tutto è lercio e sporco, fatiscente ed in disuso, ma all’esterno c’è un piccolo magazzino di acqua minerale. Entro e chiedo dell’acqua. Soliti convenevoli di rito.
    (Il sedicente "bar" e sullo sfondo il villaggio di Mandar sotto il picco montuoso che mi ha guidato)
Il “barista” è adatto al luogo. Una galabja ex-bianca, ora scura e strappata fino all’inverosimile, lo veste lasciando ampio spazio alla pelle scura che si affaccia scandalosa tra le innumerevoli aperture. Apre il frigorifero…
Frigorifero? Ma che dite!! E’ una bara. Si, una bara dei poveri con dentro un motore di frigoriferi ed una serie di anse che servono appunto per rinfrescare. Nel suo interno la temperatura non sarà più bassa di 20 gradi, ma è un’enorme divario tra i 50 dell’interno del bar. Chiedo due bottiglie e pago con 10 dollari. Mi da un mucchietto di pounds di resto. Neppure li controllo, tanto avrei pagato 1000 dollari ogni bottiglia, figuriamoci!!!..
Esco all’aperto e bevo la prima bottiglia tutta d’un fiato. Mentre mia accingo a bere ingordamente anche la seconda bottiglia il barista inizia a parlarmi e mi chiede da dove provengo. Cerco di farmi capire spiegandogli che provengo dal Wadi el At, che ho scavalcato il gebel, indicandoglielo, che poi ho percorso lo Wadi Mandar. Mi chiede se la bici è la mia. “wadi el At ?!” dice: “Gebel?! Wadi Mandar”. Ripete alcune volte la domanda, indicando la bici, attendendo ogni volta la mia risposta affermativa. Mi guarda, poi improvvisamente si da un colpo alla fronte con la mano, poi chiude le nocche e si colpisce la tempia.
Scompare all’interno del bar, poi ricompare subito e mi da altri 5 pounds come se si fosse sbagliato a darmi il resto. Va dietro il bar e prende un tappeto che svolge ai miei piedi, invitandomi a sedere. Il tappeto è unto e bisunto, sporco fino all’inverosimile. Steso a terra alza una nuvola inimmaginabile di polvere e probabilmente di acari, pidocchi e zecche, ma nessun prato fiorito mi è mai sembrato tanto bello ed accogliente. Stesi sotto la tettoia traballante al vento vuole sapere dove sono passato, quando sono partito e dove sto di base. Bevo altre tre bottiglie di acqua e poi parto.
Nei giorni successivi sono tornato al villaggio, ho percorso lo wadi Umm Adawi, ho salito alcuni gebel della zona. Egli mi ha aspettato al mio ritorno, ogni giorno. Ogni sera lo vedevo che guardava verso la direzione da cui sarei arrivato. Ogni volta, appena mi vedeva, prontamente preparava il tappeto e si accomodava vicino a me per sentire i miei racconti, che neppure capiva…………….