lunedì 26 marzo 2012

LA PRIMA VOLTA NEL SINAI

Ormai sapevo di non poter star lontano dal deserto, ma comunque non potevo immaginare quello che sarebbe successo negli anni successivi.
Il deserto avrebbe catturato la mia anima, avrei camminato  nella fiaba, avrei respirato la tempesta, avrei sfidato i tornado, avrei attraversato con la bicicletta i panorami mozzafiato delle distese infernali, ma avrei sfidato ed attraversato tutti i reconditi meati della mia anima,mai esplorati.
Ma andiamo con ordine.
Parto per il Sinai...........è la prima volta!
(n.d.r. DA QUESTO MOMENTO TUTTE LE DESCRIZIONE SONO TRATTE DAL MIO DIARIO, QUINDI AL PRESENTE, E TUTTE LE FOTOGRAFIE SONO RIFERITE AL PRECISO MOMENTO DELLE DESCRIZIONI)

                                  SINAI

Il deserto……. Cerco inutilmente di vederlo dall’aereo.

(Sullo sfondo Ras Mohammed, estrema punta del Sinai)
Il sole ancora abbaglia a 8000 metri, ma sulla terra già è notte. La linea della notte si staglia netta tra me e il deserto come un sipario, peccato…. Sarà più bello domani, al risveglio.
Al mattino corro alla finestra del cortile perché quella della mia camera si affaccia sul mare, come promesso dai depliants pubblicitari . Il panorama è stupendo: il sole basso sull’orizzonte del mare, l’aria priva di umidità, tersissima, i colori rosso-marrone ; si intravvede la pianura desertica  e, all’orizzonte, uno, cento, mille Gran Sassi, uno, cento, mille Auguille di Chamonix.

 Un primo bastione si para innanzi ad una interminabile serie di montagne, sempre più alte, con pareti a picco e cime frastagliate, caotiche. Il mio piccolo binocolo fa il suo dovere e mi svela picchi, gole e valli.
 Ecco li le tre cime di Lavaredo, ecco il Gran Sasso con il Paretone e l’anticima dell’Orientale, ecco la parete sud della Marmolada. Non è possibile, stiamo a 4000 km più a sud, in mezzo al deserto!! Non sto più nella pelle e parto subito per un misero giro di ricognizione, pochi minuti, ma appena fuori del villaggio Valtur già si respira aria di deserto, di mistero. Al di la del muro finisce la civiltà, solo una strada asfaltata si dirige verso l’interno.
   Al mattino successivo, io e Filippo partiamo per una piccola ricognizione verso “il deserto”. Camminiamo per alcuni Km lungo la strada asfaltata che dirige verso ovest, poi in mezzo a case moderne, ma di stile beduino, infine la case si diradano lasciando il posto alle sabbie. Siamo alla periferia della civiltà, ma già ci sentiamo come Lawrence d’Arabia. Gia si respira aria di deserto, il vento ci investe come un fonn.  Cosa strana: non facciamo ombra. Certo, è normale visto la latitudine, ma la cosa mi sorprende un pò: guardare il terreno in cerca della propria ombra è strano per noi.
  Dopo alcuni km di sabbia incontriamo di nuovo la strada asfaltata e la cosa mi irrita. In compenso il traffico è quasi inesistente e tutto costituito da camion e da pick-up “chevrolet” che non sono altro che una sorta di taxi. Basta fermarli, anche con un minimo cenno, anzi sono loro a fermarsi, ed eccoti caricato, spesso sul cassonetto.
  Ad un’ora di cammino si intravvede un villaggio beduino, sotto dei monti che paiono macigni scagliati da Allah sul deserto.  Poche baracche, ma piene di vita.
(Filippo ed io al villaggio beduino 15 anni fa. Oggi i beduini sono stati sfrattati, ed hanno costruito case in muratura. Sullo sfondo a sn la doppia cima  del Ruwesat el Nima)
Dovunque un belare di capre, di piccola taglia, sembrano la caricatura delle nostre capre, ma saltano come gazzelle e corrono come levrieri. Ed eccoli, finalmente, ecco i cammelli, lasciati liberi, senza redini. Ecco i signori del deserto. Camminano lenti, con incedere regale, molti sono sdraiati a terra sotto un sole implacabile, riposano beati. Ci avviciniamo; Filippo li teme un po forse per via della taglia, sono veramente alti sulle loro lunghe e scheletriche zampe.
(Cammelli alla periferia del villaggio sotto il Ruwesat el Nima)
 E’ tardi, comincia a fare veramente caldo e non portiamo acqua, ma sono appena due ore che camminiamo ed io sto veramente bene.  Davanti a noi solo il deserto. Solo la pianura e le montagne che chiudono l’orizzonte. Qui il vento è quello puro del deserto. Qui comincia per chi va e finisce per chi viene, il deserto. Non un rumore altera il canto del vento, non un insetto ti infastidisce.  Propongo mezz’ora di cammino verso le montagne, proposta che viene subito accettata. I monti si alzano piano piano, credevo fossero più vicini. Di fronte a noi si staglia con le sue creste il Gebel  ‘At el Garbi (1095 m.) ed il Gebel ‘At esh Sharqui  (1344 m.) ed il Gebel Sahara ( 1459 m.). A sinistra il Gebel Madsus ed a destra il Gebel Wa ‘Ir. Sullo sfondo innumerevoli cime. Sembrano altezze modeste, ma si consideri che le pareti quasi verticali si ergono improvvisamente, con un solo balzo, dalle sabbie che si trovano a livello del mare e forse anche a quote negative. Quante cime dolomitiche innalzano le loro pareti per 1000 o 1400 metri? E’ ora di tornare, la sete comincia a farsi sentire. Filippo dice di avere la lingua attaccata al palato. Non portiamo acqua e neppure denaro per cui i taxi possono attendere domani.
  Al villaggio Valtur tutti ignorano l’esistenza del deserto : il villaggio vive del mare. Cerco inutilmente notizie, ma nessuno sa nulla. Con la complicità di un “taxi”,mi ritrovo subito alla base delle montagne . Con un solo passo si passa dalla pianura sabbiosa e brecciosa alla montagna. Le rocce sono color sabbia, rosse, ocra, nere, bianche. Tutto è granito, basalto, quarzo. Già immagino il tramonto. Quando i raggi del sole accendono i nostri monti, chissà cosa faranno qui?!
  Aggiro le propaggini sud del Gebel ‘At el Garbi e noto che da un’intaglio della montagna scende un canalone, l’unico che potrebbe dare un accesso al monte.

 Il canalone si stempera nella pianura con un canyon scavato millenni orsono quando qui l’acqua era abbondante. Qualche rado cespuglio, seccato dal sole, cerca di sopravvivere alla calura implacabile. Più raramente si incontrano piante simili ad edera, che invece di aggrapparsi alle rocce, si adagiano sulle sabbie roventi e producono frutti simili a cocomeri, ma grandi come mele. Sono tentato di assaggiarli, poi rinuncio. Se sono li sicuramente non sono commestibili.  Con la penuria di cibo nel deserto qualcuno li avrebbe sicuramente mangiati. Il canyon procede come un serpente verso la montagna, senza salire apparentemente, poi lascia il posto alle pietre ed alla salita.
   Il caldo inizia ora a farsi sentire. Il vento  è calato nel canalone che ho chiamato “ il canalone del girarrosto” ,visto che non ha nome. Non un filo d’erba, non un fiore, non un ronzio d’ali d’insetto, nessun essere vivente cammina sulla superficie della terra. Anche il vento tace, nel canalone.
   E’ strano, ma non si suda perché il sudore evapora subito fuori dai pori, ma il caldo più che sentirlo, si intuisce, si immagina.
  L’evaporazione è enorme, l’aria che si respira è bollente, sembra non entrare nei polmoni e appena entrata sembra che i polmoni si sbrighino a ricacciare fuori questo gas rovente. Non me ne ero accorto in pianura, ma ora che il terreno si fa sempre più ripido con massi che si reggono solo per miracoli di equilibrio, ora che mi serve più ossigeno mi rendo conto di quanto faccia caldo.
(Alla sella)
Chiaramente non porto acqua.  Mi aiuta molto il copricapo a velo dei beduini (tipo Arafat) che porto con me. Appena avvolgo il viso, subito respiro meglio. Nel canalone la temperatura sarà di 55/60 gradi, mentre, con il viso coperto dal mantello di lana pesante, la temperatura almeno è di 38/40 gradi, e cioè la temperatura del corpo. Un bel guadagno!
  Finalmente la sella.  Alla mia sinistra il gebel  ‘At el Garbi ed alla mia destra il gebel ‘At Esh Sharqui.  Opto per la cresta alla mia sinistra, visto che è la più facile e la più vicina.   La cresta alla destra è molto tormentata, difficile da percorrere con l’attrezzatura che ho e cioè pantaloncini, scarpette, e bastoncini da sci-alpinismo.  In realtà quello che mi manca in quel momento è l’attrezzatura mentale. Qui tutto è più difficile, non ne ho la certezza, ma intuisco le possibili difficoltà ed i pericoli, come un sesto senso. Infatti nessuno potrebbe aiutarti, come succede nei nostri monti, per un incidente anche stupido.  Una semplice distorsione al collo piede potrebbe essere una tragedia. Non si può resistere molto senza acqua ed il territorio è talmente vasto e tormentato che solo con la radiotrasmittente si potrebbe essere in grado di pilotare i soccorsi (ma quali? Ed in quale lingua?) verso di te. Qui l’uomo scompare, viene ingoiato dal caldo e dal deserto, dalle rocce e dalle gole, le sue grida si perdono nel vento . Qui i piedi si gonfiano, le dita delle mani diventano ben presto come zamponi natalizi ed è impossibile stringere i bastoncini che, fedeli ti hanno aiutato a salire.      Dalla sella il panorama è immenso, al di la solo montagne. La sella si affaccia su di una valle chiusa, tipo circo glaciale.

(Sotto la sella)
Il vento ricompare come per incanto, finalmente si respira. So che il vento aumenta l’evaporazione e quindi il bisogno di acqua, ma almeno raffredda un po. Verso ovest, solo montagne, a strati; pareti nere, rosse, bianche, rosa.  Peccato che il sole, essendo pomeriggio, tiene in ombra i monti di fronte a me.  Mi riprometto di tornare al mattino, con il sole alle spalle, per poter ammirare le possenti pareti.
     Mi avvio quindi sulla cresta. La cima è circa 200 m. più in alto, ma è come una piramide, un piccolo Cervino in miniatura e come tale è un ammasso di blocchi granitici instabili ed estremamente ripidi. 
   Faccio miracoli di equilibrio cercando di ritrovare  qualcosa del vecchio alpinista, ma devo spesso appoggiarmi con le mani. Finalmente arrivo ad un’intaglio di una cresta. Al di la il vuoto per 200-250 metri. Alla mia destra una cima più alta di circa un metro e distante circa 5 metri, alla mia sinistra un’esile crestina  larga appena per appoggiare un piede e anche meno porta ad un’altra cima, distante circa 30 metri forse di qualche cm più bassa della prima. Mi fermo per riprendere fiato su questo intaglio e decido che la cima è quella a destra, non perché sono sicuro che sia la più alta, ma solo perché non ho la minima intenzione di percorrere la crestina che sembra un filo per funamboli teso su di un abisso e per di più costellata di massi che sono ancora li solo per aver vinto la sfida con le leggi di gravità. Arrivo alla presunta cima che è larga poco più di 2 metri e che precipita al di la per 200 metri con una parete verticale così come solo le placche granitiche sanno fare.
(Di nuovo verso la cima alla ricerca della maglietta)
  Discendo subito, ma alla sella mi accorgo di aver smarrito la maglietta gialla che portavo alla cintura. Deve essermi caduta aggrappandosi a qualche roccia. Devo tornare a cercarla non per il suo valore, ma perchè potrebbe servirmi più tardi.  Sono infatti a torso nudo ed ora non sento il bisogno di coprirmi, ma poi non so, non ho esperienza del deserto.  Darei tutto l’oro del mondo per evitare di salire di nuovo verso la cima, ma tant’è! 
( Sulla sella appena recuperata la maglietta....)
 Speravo di trovarla durante l’inizio della salita, ma a metà vedo la maledetta che mi sorride dall’intaglio tra le due vette. Raggiungo di nuovo la cima, avrei preso a morsi la maglietta, ma ora devo scendere di nuovo ( la cosa mi preoccupava già alla prima discesa) e quindi mi concentro per cercare di essere più leggero possibile   per non pesare sui massi instabili. Avrei voluto scattare  una foto sulla cima, ma non c’era spazio sufficiente per permettermi di allontanarmi in maniera adeguata dalla fotocamera.  Ma poi perché una cima è così importante? Forse ho calpestato un terreno vergine, perché chi mai potrebbe essere interessato a “conquistare”  (?!) una cima di poco superiore ai mille metri vicino a 6ooo (dico bene, tante ne sono), SEIMILA altre cime ? Forse un beduino? Certamente no, perché essi sono troppo impegnati a sopravvivere. Un alpinista? Certamente no perché quale alpinista che si chiami tale sarebbe interessato ad una “conquista “ tanto infima? Ne il luogo è di passaggio e neppure c’è qualche arbusto che permetta ad un pastore di portare qui i suoi armenti. L’unico che potrebbe essere salito fin qui potrebbe essere qualche profeta dell’antichità. Con questi pensieri scendo velocemente perché il sole si appresta al tramonto.
Le ombre si allungano, finalmente  e le pareti si accendono ,  prendono spessore .  Sembravano piatte, ora si muovono con le ombre come danzatrici del ventre Scendendo trovo due alberi di spini che non avevo visti all’andata (forse che sia stato il caldo?). E’ quasi un miracolo che possano sopravvivere. In realtà non sono spini, ma veri e propri alberi che hanno trasformato le foglie in spine per limitare l’evaporazione. Si!! E’ proprio una busta di plastica, segno di civiltà, catturata al vento dalle spine dell’albero. Con prudenza mi siedo sul tronco tormentato perché ci avviciniamo al tramonto ed ora gli scorpioni del deserto escono dai loro nascondigli per andare a caccia.

Sono estremamente velenosi e pericolosi anche per l’uomo per cui mi siedo sul tronco per riposarmi un pò dopo una accurata ispezione . In effetti gli scorpioni mi preoccupano non poco dato la loro naturale aggressività, mentre sono molto più tranquillo al riguardo dei serpenti, anche se oltremodo pericolosi ed anzi sicuramente mortali. In fondo, penso, i serpenti e nella fattispecie le vipere, sono uguali in tutto il mondo e so come evitarli e, all’occasione, affrontarli. Inoltre essendo molto grandi, essi sono certamente più visibili degli scorpioni.
   Qualcosa doveva chiaramente andare storto, e c’è andata. Questa mattina ho urtato accidentalmente con il piede nudo in una asperità del terreno del villaggio e forse mi sono rotto il II dito che è diventato nero ed edematoso a dismisura. Comunque fratturato o meno, la realtà è che non posso camminare. Speriamo domani….oggi lo dedico ai pesci.

Con un voltaren da 150 mg penso di poter camminare. Filippo è con me e di questo sono contento. Questa volta portiamo 1,5  l. di acqua a testa. Comunque credo che per gite di 5/6 ore a me non serva bere. Non sappiamo dove andiamo perchè non abbiamo cartine topografiche (che troverò all’aeroporto al ritorno, comunque al 250.000 ed è la più particolareggiata in commercio. Neppure internet mi era stato utile).
  Partiamo dal villaggio beduino e ci dirigiamo lungo il bordo sinistro dell’immenso wadi Wa’Ir salutati da due beduini sui loro cammelli .
L’aria è calma, poco vento e la gita si preannuncia torrida e per nulla tranquilla visto lo scheletro perfettamente calcinato di un cammello.

All’orizzonte si staglia il gebel Wa ‘Ir con una silouette molto simile al Gran Sasso visto da Teramo .
  Lo wadi si inoltra verso NW a perdita d’occhio circondato da fiabesche montagne. Una grande pianta di spini ci fa momentaneamente ombra e ci rinfresca dal caldo opprimente. 

 Lasciamo lo wadi per inoltrarci in una valle laterale a sinistra da cui speriamo di aggirare il primo bastione di montagne ( At El Garbi e Esh Sharqi). Il contrafforte nord di questa catena di abbassa verso la valle lasciando intuire un passaggio. La valle inizia a salire molto dolcemente in un paesaggio desolato, bellissimo circondato da pareti, creste, canaloni. 

 Seguiamo una lieve traccia di sentiero, appena evidente sul duro terreno, sassoso e riarso dal sole. Quando la valle spiana, da lontano scorgiamo un’automobile. Non nascondo di aver provato un senso di fastidio  alla presenza di quella che credevo una jeep.  Mi sembrava una profanazione.  Già mi immaginavo i turisti con stereo e con la guida che illustrava il paesaggio a cui i vocianti gitanti rispondevano solo con lamentele circa il caldo, la polvere, la sete, gli scossoni del mezzo.

Poi invece si è rivelato essere un camion militare completamente forato da colpi di mitragliatrice, vittima di quello che deve essere stata una battaglia della guerra dei sei giorni tra israeliani ed egiziani. Ora la valle si dirige verso sud e sembra aggirare la catena.
(Salendo la valle delle" microonde")
Precipiti pareti ci sovrastano ai lati e si restringono sempre più su di noi , poi ci inerpichiamo sempre più in alto fino a quando la valle sembra invalicabile, chiusa da una parete.  Filippo la chiamerà "valle delle microonde", facendo riferimento al forno casalingo. Forse la gita è finita qui, comunque è stata bella. Ma no!!! All’improvviso un esile intaglio appare, si fa sempre più largo, avvicinandosi. Si passa.
                                              (Filippo all'ingresso del cayon)
E’ un canyon largo in alcuni punti meno di due metri, dalle pareti ocra e gialle. Il fondo è in pianura, il duro terreno ha lasciato il posto alla sabbia. Il canyon prosegue per circa un km sempre più incassato

. Sul suo bordo destro appare improvvisamente il primo segno di vita del deserto: una lucertola con le zampe posteriori simili ad una rana. Corre velocissima e si solleva  sulle sue lunghe zampe, forse per via del terreno rovente. Filippo soffre il caldo e la sete.  Beviamo spesso piccoli sorsi, ma l’acqua è poca.  Io fingo di bere e lascio l’acqua a Filippo.  Non sono un buon samaritano, ma veramente non sento il bisogno di bere, mentre Filippo soffre in maniera evidente perché rallenta sempre di più il passo. 

                                                 (Al passo sul Wadi Madsus)
Procediamo a circa 4 km orari ma la velocità è in rallentamento.  Finalmente il canyon, dopo alcune secche curve a 90°, finisce con un salto facilmente superabile tra massi incastrati e sbocca su di un passo che è solo il bordo di un immenso altipiano  a circa 500 m. di altezza., chiuso ad ovest da altissime monti e degradante lentamente, come un immenso fiume verso il mare che si intravvede all’orizzonte.
                                                    (Il fiabesco Wadi Madsus)
E’ il wadi Madsus . Tiro un sospiro di sollievo quando mi rendo conto che il percorso è aperto verso il mare. In questi luoghi, infatti, le valli non sempre hanno uno sbocco. Esse possono essere chiuse da montagne difficilmente superabili e quindi, dopo aver camminato per ore, bisogna tornare sui propri passi. Il caldo sta minando la resistenza di Filippo che ogni pochi passi rimane indietro.

 Faccio finta di nulla, ma come medico scruto ogni piccolo sintomo ed ogni gesto e sono sinceramente preoccupato perchè, anche se il mare è visibile all’orizzonte, forse è lontano circa 20 km. Difficile stimare le distanze nel deserto, dove l’aria è tersa, dove i miraggi ingannano, dove le pareti sembrano immense e poi sono sassi, dove i sassi diventano immense pareti, dove i colori cambiano ogni minuto con l’incedere del sole, dove il vento insinuandosi nelle fesssure delle rocce improvvisa concerti e canti, suoni irreali, anche inquietanti per noi che non conosciamo nulla del deserto. Ora mi viene difficile pensare di percorrere tutto l’immenso wadi Madsus con Filippo sempre più sofferente. Improvvisamente mi volto e non vedo Filippo. Torno indietro, lo chiamo, ma nessuno mi risponde. Poi lo vedo disteso a terra, in un avvallamento del terreno, alla inutile ricerca dell'ombra. Mi assicura che è ancora in grado di camminare. Scherzando per stemperare la tensione, gli scatto una foto.....

Sul bordo sinistro si intravvede un intaglio che forse porta in basso direttamente tra i monti: ci farebbe risparmiare molti km.  Le ombre si allungano, la sera incalza. Tutto va bene, c’è un canyon bellissimo che scende agevolmente con un fondo di sabbia dura, comodissima per camminare. Il fondo del canyon è ormai in ombra e solo le cime delle pareti sono irragiate del sole che le accende come fiaccole nel buio.  

(Sullo sfondo le precipiti pareti del Gebel Madsus)
Speriamo che il canyon non faccia brutti scherzi perché sarebbe un dramma doverlo risalire con Filippo, che, esaurita tutta l’acqua, ormai cammina solo per inerzia. Dice di scottare e che si sente bollire la testa: è un chiaro colpo di calore, patologia molto pericolosa in questa situazione. Speriamo regga fino alla fine. Il canyon non ci tradisce e dopo aver girato verso sinistra, lasciando alla sua destra l’orrido gebel Madsus,  finalmente si allarga e si intravvede il villaggio di Sharm el Sheick.  E’ comunque lontano ma la presenza, in lontananza,  delle case è rassicurante. Purtroppo una trappola è pronta a scattare a nostra insaputa e puntualmente scatta. Lo wadi scende placido verso il mare con il fondo pianeggiante, ora più nulla può fermarci. Il terreno si fa più morbido ed è ancora più comodo accelerare il passo. Incontriamo alcuni segni di cingoli che rompono lo strato superficiale, poi le tracce aumentano di numero ed il terreno diviene sconnesso e morbidissimo, ad ogni passo si affonda fino al piede. Improvvisamente tutto lo wadi è come fosse stato arato da un immenso erpice, i solchi sono profondi anche 50-60 cm, di sabbia finissima come talco, inconsistente, cede al nostro peso e diventa difficile e faticoso avanzare. Filippo sta cedendo al calore, ha un colorito paonazzo, sudorazione algida e rallenta sempre di più la sua andatura. Tentiamo di camminare sul bordo dello wadi, scomodissimo, ed io non vedo altra soluzione che risalire sul bordo sinistro, il più basso, e quindi camminare sulla cresta della collina, su terreno più agevole.
(Un moneto di riposo prima dell'arrivo alla strada asfaltata)
Penosamente Filippo mi segue, ma ogni due passi si ferma a riprendere fiato. Ormai siamo vicini alla strada e con uno sforzo che io penso per lui immane risaliamo l’ultimo tratto e finalmente, a sole ormai tramontato da tempo, mettiamo i piedi sulla strada asfaltata . Da qui il paese dista solo 2 km ma non passa una macchina e Filippo barcolla, ma non cede. Solo al paese possiamo fermare un taxi e farci portare in albergo.
(All'arrivo....momenti indimenticabili)
Filippo si riposerà e riprenderà subito, ma non se la sentirà più di partire per il deserto i giorni successivi, comunque è stato veramente bravo a non cedere nelle condizioni in cui si trovava, con chiari sintomi di un grave colpo di calore. Io mi sento bene. Abbiamo percorso circa 34 km, che non è poco, nel deserto. Forse ho resistito di più solo perchè sono più vecchio e come tale ho meno bisogno di acqua.  Comunque domani vado..


Parto alle 12.00. Credo che partire a quest’ora sia la cosa più saggia perché penso che più di 40-50 km, non si possano percorrere, a piedi, nel deserto alla fine di luglio, almeno per me. Dalle 13 alle 21 sono 8 ore, ad una media di 5-6 km orari fanno 40-50 km, la mia meta. Inoltre qualunque cosa succeda si va verso la notte, quindi verso il fresco ed in più c’è la luna piena. Ho sperimentato che posso camminare sotto il sole per 7-8 ore senz’acqua, oggi porto 1.5 litri. Ho con me il copricapo beduino che mi scende dalla testa fin quasi alla cintola, i fedeli bastoncini, i pantaloncini e le scarpette ed infine il GPS con una piccola bussola ad ago magnetico, tanto per sicurezza (fidarsi è bene e non fidarsi è meglio).
(La partenza)

Alle 12 ora solare sono ai limiti del deserto pronto alla partenza dopo un leggero pranzo e svariati litri di acqua bevuta a mo di cammello.  Spero che i giorni precedenti non mi abbiano disidratato in maniera subdola. La mia meta è il Wadi Wa ‘Ir, quindi il gebel Wa ‘Ir, l’attraversamento di una immensa piana che si trova probabilmente sotto il livello del mare per poi aggirare il gebel  ‘At Esh Sharqi. A questo punto spero di trovare la possibilità di  valicare la catena per scendere nella valle che ho esplorato nei giorni scorsi ( la valle delle microonde) e quindi tornare, per piste conosciute, al villaggio beduino. Sono circa 40 km, se tutto va bene. Nel caso non sia possibile valicare la catena il percorso complessivo sarebbe circa 60 km, obiettivamente un po troppi, comunque tornerei a notte inoltrata.  

Alla partenza mi salutano due indolenti  cammelli  che oziano all’ombra di una pianta di spini nei pressi di una tenda . Per un momento penso che sarebbe più giudizioso se mi fermassi in loro compagnia a riposare sotto l’ombra. Sono le 12.30 solari e il sole picchia implacabile.  Più avanti altri cammelli incedono lentamente.
  Per tracce di sentiero mi avvio verso NW. In lontananza ammicca l’immensa valle dello Wadi Wa ‘Ir. Non una voce, non un ronzio, non un rumore se non il vento che vibra tra le pietre rosse e nere del terreno, quasi una sorta di terreno marziano. Mi aspetto che da un momento all’altro compaiano degli alieni. Le tracce  finiscono in un promontorio da cui purtroppo bisogna scendere per penetrare nello wadi il quale si divide in due gigantesche fiumane secche.

 La divisione delimita un altro promontorio che si oppone al punto dove mi trovo in questo momento . In lontananza si staglia il gebel Wa ‘Ir, al centro il gebel Nuzaf e il gebel Bareika e sulla sinistra delle quote 1400 e 1370, altissime e vertiginose. E’ li che mi dirigerò dopo aver attraversato lo wadi. Qui, ancora più che sulle montagne ti rendi conto della tua piccolezza e della solitudine. Mi sento bene e riposato, anche il ginocchio tace grazie al voltaren, per cui accelero il passo, risalgo il promontorio della riva opposta, scendo di nuovo, risalgo ed infine mi getto nello wadi. Un bellissimo cammello ozia sotto il sole, nello wadi. E’ di pelo bianco, pulitissimo, alto e slanciato, sembra una macchina da corsa, i muscoli evidenti ed elastici. Deve essere un giovane.  Lo incito alla corsa e quando inizia a muoversi, lo seguo. I suoi passi accelerano il ritmo, ora trotta; lo seguo di corsa a 16 km/h (letto dal GPS) per 1 km poi per 2.

Come sono bravo!!! Riesco a correre come un cammello, nella calura !!!  Poi, all’improvviso, come se avesse voluto scrollarsi di dosso un tafano fastidioso, distende le sue lunghe zampe, non aumenta la frequenza , ma aumenta la lunghezza del passo.  Inizia ad accelerare, il collo disteso e proteso in avanti, come per migliorare la penetrazione all’aria. Cerco di seguirlo, 18, 19, 20 km/h. Il respiro si fa affannoso, le gambe non seguono più il ritmo della corsa. Decido dignitosamente, un momento prima di un infarto, che la gara l’ha vinta lui. Gli grido che ha vinto, che ora può fermarsi, ma non sente ragione.  In poco tempo si allontana al punto che quasi scompare dalla vista, nell’immensa pianura. La sua agile figura, sospesa in aria per un miraggio, trema nella calura, poi improvvisamente scompare come se fosse stato ingoiato dal lago sul quale sembrava galleggiare.  Appena mi fermo il caldo si presenta con tutto il suo vigore.  Sono costretto a camminare velocemente per far si che un po di aria si muova attorno a me, raffreddandomi. Il mio respiro e il mio cuore a fatica tornano alla normalità. Che meravigliose macchine crea la natura, adattate a perfezione a questi ambienti, apparentemente goffi nel cammino, ma agili e scattanti nella corsa. Cammino da circa due ore nello  wadi, ma le montagne non sembrano subire cambiamenti di prospettiva, tanto è immenso. Finalmente i monti del gebel Wa ‘Ir cambiano prospettiva e si innalzano. Non è una grande quota, circa 600 metri, ma si alza come un urlo da una base sotto il livello del mare.


(Il gebel Wa 'Ir)
 Dalla sua parete si può passare con un solo balzo direttamente sulla pianura. Mi comincio a rendere conto che il sole è veramente implacabile anche se sto perfettamente bene. Che non sia vero quello che si dice del deserto ? Filippo però insegna, quindi devo stare attento a non sottovalutare ogni piccolo sintomo di cedimento. Ora costeggio il bordo sinistro orografico dello wadi, sotto una parete alta circa 200 metri, quando un rumore improvviso mi fa trasalire. Noto qualcosa tuffarsi in un buco nel terreno. Sarà una volpe del deserto o un rettile? La tana però ha un ingresso di circa 50 cm di diametro per cui mi avvicino con circospezione. Improvvisamente sbuca una “lucertolona” di colore viola, blu, rosa, grigia, non manca nessun colore.

(Un innocuo e timido uromastice)
E’ di taglia tozza con una coda che sembra spinosa e di grande diametro . Visto la lunghezza (60/70 cm) mi tengo a rispettosa distanza. Non ho la più pallida idea di cosa si tratta. Non sembra aggressivo visto la paura che mostra nei miei confronti. Sarà velenoso? Questo non lo so. Si ferma un istante davanti alla fotocamera per mettersi in posa da grande attore, poi con una velocità insospettata si dirige verso destra dove è scavato un secondo ingresso della tana e scompare nel buco.  Solo successivamente mi sono informato che si trattava di un uromastice, erbivoro (!) , timidissimo , non velenoso, uno di quei rettili che possono essere presi in mano senza alcun pericolo In una piccola depressione sabbiosa i beduini hanno piazzato tre piccole tende, ma da lontano sembrano disabitate . La mia direzione è un’altra e dovrei fare una deviazione per raggiungere le tende, per cui proseguo il mio cammino. Il gebel Wa ‘Ir si erge incombente di fronte a me. Mi infilo in un intaglio tra due colline che come sentinelle fanno la guardia all’immane parete ,aggiro la collina a sinistra del passo  e questa decisione si è rivelata una fortuna. Di lontano mi appare, tremolante nella calura, un cammello ancheggiante lentamente che, dinoccolato si dirige verso di me. Lo monta un beduino. Si avvicina ed io provo una certa emozione. E’ la prima volta che incontro un beduino, quello vero, nel deserto, e non quelli del villaggio ai margini della civiltà. Quelli vivono in un limbo dove non si possono chiamare uomini “civili” (tra virgolette), ne uomini del deserto. Il cammello ora che è vicino e il cavaliere lo cavalca a gambe larghe, non di lato e, meraviglia, è una donna. Lo intuisco dalle gambe scoperte, dai piedi nudi e delicati, dalla delicatezza della pelle. La gonna è di mille colori e data la posizione delle gambe, assume la forma di pantaloni larghi alla vita. Il viso è completamente coperto dal caratteristico velo beduino, questa volta a due strati, uno interno a contatto della pelle e di variopinti colori, ma con dominante rossa ed uno esterno, più pesante e di colore nero. Dalla fronte pendono alcuni gioielli, molto semplici che incorniciano gli occhi di un nero profondo e dalla sclera bruna. Sono di una fierezza profonda, mi fissano intensamente, senza parlare. Sta di fronte a me a spalle erette, le redini in mano, la fronte alta. Il velo copre tutto il viso, solo gli occhi sono scoperti, sembra un guerriero, un principe arabo e dire che è solo una pastorella in cerca delle capre disperse al pascolo al  bordo dello wadi. Chissà come dovevano essere i guerrieri o gli sceicchi!!! Forte della tanto decantata ospitalità beduina, le parlo per avere notizie del deserto, sono avido di informazione e di consigli, ma la donna tace mettendomi in imbarazzo. Forse parlo arabo? Ma poi ricordo che le donne islamiche non possono parlare agli uomini. Mi viene in aiuto, da lontano il rumore di una jeep.
E’ il marito che era in cerca della moglie. E qui iniziano  i convenevoli……Tenta in tutti modi di convincermi a recarmi alla sua tenda distante circa due km verso N. Gli dico che devo andare, che il deserto è grande e che devo percorrere ancora 20 o 30 km, non so neanch’io. Tutto si supera pur di avermi come ospite: “ti riporto qui dove ti ho lasciato” e addirittura: “ ti accompagno sul tuo cammino” oppure: “ti riporto al villaggio al tramonto”. Già immagino la bevuta di carcadè, l’ombra e il vento fresco sotto la tenda, ma non mi faccio convincere e vi assicuro che in quella situazione ci vuole un carattere di ferro ed ottima conoscenza della lingua. Vi chiederete dove possa aver imparato così bene l’arabo. Ma io non parlo arabo. Ed allora? Semplice! Il beduino parla italiano! No. E allora? Allora è ancora più semplice. Nel deserto tutti i beduini, come  gli italiani, usano gli stessi gesti. Tutti gli italiani, come i beduini, gesticolano a dismisura in confronto agli anglosassoni. Allora le parole, qualunque suono abbiano, sono solo un corollario dei gesti, tanto per non far sembrare di essere al cinema dei fratelli Lumiere. Vorrei scattare una foto alla principessa e penso che accetterebbe, tanto più che ora è presente suo marito, ma non oso chiederlo. Appena mi allontano abbastanza scatto una foto, solo per ricordo perchè già so che non si vedrà nulla, ma a me basterà per ricordare.

 Il beduino ha voluto sapere la direzione da cui provenivo e dove avevo intenzione di andare. Alle risposte avevo notato una sorta di rispetto nei miei confronti e questo mi aveva riempito di orgoglio. Forse aveva conosciuto solo turisti in jeep ed ora si trovava di fronte ad un pedone che cammina solo per “amore”.  Mi dice di aggirare la gigantesca conca, ma non capisco il perché. I gesti sono confusi e le parole arabe non mi aiutano di certo. Io, comunque non ho alcuna intenzione di prolungare un tragitto già abbastanza lungo e che ora, alle ore 15 solari, anche abbastanza duro ed inoltre non so cosa mi aspetta. Mi avvio verso il centro della depressione a passo svelto, salutando la coppia con ampi gesti delle braccia. La donna finalmente si apre e alza tutte e due le braccia, agitandole, alta sul cammello, gli occhi sorridenti, nel tipico modo beduino di salutare. E’ un bel regalo, considerando che le donne non possono manifestare agli estranei alcun sentimento. Ogni tanto mi giro e continuo a salutare ottenendo una vigorosa risposta da tutti e due che mi osservano fino a quando non scompaio. Il beduino mi aveva detto il nome della depressione verso cui ora mi dirigo, consigliandomi di aggirarla. La traduzione è molto libera, i gesti facevano intendere una pentola o una padella sopra il fuoco e le braccia successivamente alzate al cielo facevano pensare al sole o ad Allah o a Maometto. A me piace tradurre la pantomima con: Il CROGIUOLO DI ALLAH. Non me ne vogliano i beduini per questa libera traduzione, ma il nome è venuto dopo aver attraversato la depressione e forse è proprio quello il nome.


Il terreno scende molto lentamente verso il centro, l’aria è tersa, immobile, il caldo opprimente. Piccoli tornado si formano improvvisamente, non so come, visto la calma assoluta di vento e ballano veloci sul terreno bianco e riflettente, sembrano danzatrici, agitano i fianchi, poi improvvisamente scompaiono, così come improvvisamente erano sorti. Mi stringo il velo al viso ed accelero l’andatura per poter passare più velocemente la zona. Il silenzio è quasi “rumoroso”. Noi non siamo più abituati al silenzio. La civiltà non ci concede più questo lusso.  Sotto i piedi si percepisce l’orrendo calore ulteriormente aggravato dal riflesso del bianco terreno. Mi accuccio per sistemare sul terreno la macchina fotografica e quindi mi chino fino a terra per controllare l’inquadratura. Avvicinarsi al terreno è terribile.

(Il "crogiolo" in una foto panoramica )
 Temo che la macchina non resista al calore, quindi aziono velocemente l’autoscatto e proseguo il cammino con la una strana sensazione di dover uscire presto da quel luogo. Qualcosa infatti mi dice che sta per succedere qualcosa, ma non so cosa possa succedere in una piana senza alberi, libera a perdita d’occhio, con il tempo “magnifico”. Quindi mi convinco che forse è solo la suggestione.  A 2/3 dal centro della depressione mi accorgo di respirare a fatica, quindi mi scopro il viso, ma la cosa improvvisamente peggiora. 
Sembra un attacco di asma, ma ho la netta sensazione che l’aria non entri nei polmoni. Viaggiavo a 7 km orari , in lievissima discesa, per nulla affaticato. Cosa mi sta succcedendo?  Immediatamente dopo avverto delle vertigini che iniziano con uno sbandamento laterale a cui mi riesce difficile oppormi.  Quando finalmente riprendo la direzione, sbando dalla parte opposta.  Non mi resta che fermarmi, se cado a terra penso che sarò cotto in 5 minuti perché sul terreno la temperatura sarà di 70°-80°. Mi appoggio sulle ginocchia, poi mi accuccio, ma non ottengo il minimo sollievo. Mi viene da pensare che ormai i beduini sono troppo lontani per darmi aiuto, saranno sicuramente andati via e comunque solo con un binocolo potente potrebbero vedermi. Allora capisco: non sono io a stare male, ma è la mancanza d’aria o almeno sono incappato in una zona di basse pressioni per via dell’aria torrida che sale e che non so per quale ragione, non viene colmata da venti laterali. Devo assolutamente alzarmi e camminare, mi copro gli occhi per via delle vertigini e mi avvio. Ora capisco perché il beduino mi aveva consigliato di aggirare la depressione!!! Chissà quante risate si saranno fatte i beduini quando mi hanno visto partire. Mi ricordano le scene frequenti dei turisti sulle nostre montagne che ti chiedono un consiglio poi fanno tutto l’opposto. Tutti i turisti sono uguali e io “qui” sono un “turista”   Ho la medesima sensazione di quando, d’estate, all’inizio della vacanza e quindi senza acclimatamento, mi recavo con la funivia fino all’aguille du  Midi e da li iniziavo a correre verso il m. Bianco. Però li la sensazione era passeggera, erano solo alcuni momenti, quando tentavo di accelerare la corsa in salita, verso i 4300 m. E’ una brutta sensazione quella di non riuscire a respirare. Tento di accelerare il passo, ma il GPS segna inesorabilmente 3 km/h. In perfetta simmetria, a 2/3 dal centro della conca, improvvisamente ritrovo l’aria, le vertigini scompaiono, le gambe accelerano senza ordini, i polpacci fanno male, i quadricipiti sembra abbiano sollevato quintali, ma presto recupero e al bordo della valle sto perfettamente bene.  Aggiro la catena di monti di fronte a me sul bordo N, dove la cresta si abbassa nelle sabbie lasciando riemergere due cupole .
Tra di esse è tagliato un passo e, miracolo, incontro una pista che poi scoprirò dalla cartina, essere di una certa importanza (si fa per dire) che però si ferma ben presto sotto alcune montagne alla mia dx.. Improvvisamente mi giunge un soffio di vento, ha un sapore diverso, sembra fresco. Intuisco un profumo, poi scompare. Annuso l’aria come un orso, sollevato sulla punte dei piedi, con il naso all’insù, le narici dilatate.  Non sento più nulla, poi ricompare.  Allora cerco di seguirlo, studio la direzione della brezza e mi dirigo contro vento, voglio scoprire cos’è! Per alcuni istanti il profumo aumenta, poi scompare di nuovo, ma questi momenti sono sempre più brevi, poi tutta l’aria si riempie di aroma, sa di menta e di incenso, una menta incensata o un incenso mentato.  Sembra che tutta la valle sia stata trattata con uno spray profumato. L’essenza di menta dona all’aria un’aura di freschezza indicibile, l’incenso gli permette di essere persistente e penetrante. Cerco di scoprire l’origine di tanta meraviglia, ma non trovo nulla, se non la desolazione infernale del luogo. Poi in un avvallamento del terreno scorgo delle minuscole piantine, alte pochi cm, simili alle nostre stelle alpine, ma prive di fiori. Sono foglioline minuscole, pelose, grasse.  Mi avvicino, parte tutto da li. L’esile prato si estende , con rade piantine, per circa 100 mq. Il profumo è fortissimo, entra nelle narici, negli occhi, sembra entrare anche nelle orecchie, quasi fosse un suono soave, è magnifico! Nessuno spray sintetico può confrontarsi con esso.  Zittisco tutti i miei principi e li relego nella zona più profonda e meno raggiungibile della mia coscienza e colgo alcune piantine. Come una reliquia le pongo nel mio marsupio con cura meticolosa, cercando di non farle male. Spero che conservino nel tempo un po di questo profumo. Le farò annusare alle persone a me care per cercare di condividere con loro un po di queste emozioni, ma so già che non capiranno. Per capire bisogna essere qui, lontano da tutti, qui dove esiste solo il vento, l’aria, il sole, la luce, gli spazi aperti, dove puoi essere veramente libero da ogni elemento superfluo che condiziona la vita a casa nostra. Ora in lontananza intravvedo la possibilità di superare la catena in un punto in cui sembra più accessibile.
Salire il valico non è facile, tanto più che sono circa 6 ore che cammino sotto un sole implacabile che qui, nella valle che sto percorrendo, sembra ancora più rovente.

 Come nei film a lieto fine, compare una sentiero ben tracciato che mi porta con ripide svolte, verso il passo. Ora tra i monti mi sento più a mio agio, ed anche più al sicuro. Il sole comincia ad essere stanco  e mi regala un po di ombra sul passo. Da queste parti l’ombra è un lusso. Sassi piatti sembrano panchine messe a bella posta su un belvedere eccezionale. Chiaramente ancora scottano anche se sono in ombra già da molto tempo ed emanano calore come tubi di stufa, ma comunque permettono, finalmente, di stare seduti. Scruto il cammino percorso , la valle che sale ancora in pieno sole e non provo alcuna invidia per le caprette ed i rettili che vi si trovano ( se ci sono). In lontananza si notano le due colline che delimitano la pista e che da qui sembrano minuscole, tanto sono lontane. Ancora una volta ho la riprova che qui le distanze ingannano. All’orizzonte ammicca il Crogiolo di Allah incorniciato dalle pareti verticali del gebel Wa ‘Ir. Davanti a me il passo scende in una valle magnifica, circondata a sinistra da montagne più basse, caotiche e a destra da monti altissimi, precipiti, con orrendi canaloni che delimitano pareti che solo per un miracolo di equilibrio si reggono in piedi, composte da placche granitiche di un colore grigio solo perché il sole non le illumina, altrimenti di un vivido colore rosso. Lo spettacolo è affascinante, ma la situazione un po meno. La valle, come tutto qui, è immensa e percorrerla mi porterà via molto tempo, mentre il sole sta per tramontare.  Forte dell’esperienza dei giorni precedenti, stimo in circa due ore la  percorrenza, ma poi non so se la valle permetta di tornare verso E, cioè verso il mare. Qui le valli non hanno una direzione e spesso non hanno sbocchi, come da noi, sono valli chiuse, caotiche, difficilmente accessibili sia per entrarvi che per uscirvi. L’accesso spesso è alpinistico, su terreno difficile ed instabile, aria sottile, le mani possono aiutare poco se non sono guantate perché le rocce ustionano. Dentro i canaloni si respira un’aria infernale, le pareti emanano tanto calore da sembrare un maglio sulla tua testa eppure qui tutto è magnifico, irreale, fiabesco. Qui è difficile riposare, l’allenamento atletico serve a poco, ci si deve fidare solo della propria resistenza organica. Qui il pericolo è subdolo, è ovunque, anche sulle pianure dove basta solo camminare, dove sarebbe in grado di camminare anche uno zoppo (cioè…io). Perché il pericolo sei tu. Improvvisamente in pieno benessere puoi cedere. La stanchezza qui non si preannuncia. Ti cade addosso come un ariete, ogni momento è buono ed allora le gambe si rifiutano di camminare e se sei solo e non sei al riparo dal sole, puoi essere morto in poche ore. La disidratazione è subdola, la sensazione di caldo non è poi così evidente. Il caldo è meno sopportabile a Roma o a Firenze in estate. La sensazione che si prova è di benessere e ciò ti tranquillizza, ma l’evaporazione è enorme e ti prosciuga in poche ore. Il primo ed unico sintomo è la lingua che si appiccica al palato e si ha difficoltà od impossibilità ad ingoiare. Poche decine di minuti dopo le gambe diventano di legno, i polpacci di argilla secca, la testa ribolle, le orecchie pulsano.  Solo litri di acqua possono salvarti. Accompagnato da questi pensieri mi avvio verso la valle, rassegnato a percorrerla integralmente e con la speranza che poi possa uscire verso E. Il buio non mi preoccupa minimamente. Il fresco della sera mi permetterebbe persino di correre, accorciando i tempi in maniera drammatica e poi c’è la luna piena ad illuminare il cammino. Ora quasi spero che non ci sia uno sbocco laterale per trattenermi nel deserto. Mi cruccia solo il fatto che possano preoccuparsi per  me. Io ho esaurito da tempo l’acqua, ma non avverto molta sete, anzi sto benissimo e mi sento in grado di percorrere ancora molti km. (Peraltro il GPS misura da qui al villaggio beduino, 12.5 km in linea d’aria, con una catena di monti nel mezzo, che comunque non sono pochi da percorrere nel deserto). Mentre scendo, il sentiero diviene persino comodo e si intravvedono tracce di cammello, quindi in ogni caso sono su una buona pista.

Poi improvvisamente la riconosco: è la valle delle microonde che ho già percorso nei giorni scorsi con Filippo.  Allora c’è un Wadi che dirige a sinistra e che porta a casa con sicurezza. Scendendo mi fermo all’ombra di una collina  che sembra artificiale tanto si erge improvvisamente e mi diverto a vedere l’ombra che inizia la sua corsa sul terreno, per poi accelerare lungo lo wadi, man mano che passano i minuti, fino a perdersi all’orizzonte. Il tragitto è ancora lungo, ma ormai conosco la via e potrei percorrerla anche al buio. Poi sono gli ultimi minuti che posso trascorrere nel deserto, domani si parte, quindi mi attardo sul tiepido, regale trono formato da due pietre e da li domino tutto il circondario, come uno sceicco arabo.

Mi sento felice. Forse i beduini sono così sempre, loro amano il deserto, non cambierebbero la loro misera vita con nessun altra. Non rinuncerebbero mai al vento, alle sabbie, al cielo, alla libertà, forse anche alle tempeste e persino alla sete. Noi abbiamo tutto e non apprezziamo nulla, loro apprezzano quel poco che hanno, che poi non è poco, anzi è tutto quello che serve. Non hanno macchine, ma si spostano con sicurezza nel deserto, non hanno televisione o radio, ma le notizie che servono le porta il vento, le dune, gli scorpioni, non hanno bisogno del cinema per assistere tutti i giorni a spettacoli stupendi, non possono andare ai concerti, ma nessun musicista ha mai composto musica più bella di quella creata dal vento tra le pareti o le sabbie. Ed i bambini che ho incontrato, felici e ridancianti sui cammelli sfrenati nella pianura desertica non mi sono sembrati meno felici dei nostri figli. Loro però non hanno istruzione, non sono colti, forse non sanno neppure scrivere e leggere, però conoscono i movimenti delle dune,  la voce del vento, sanno riconoscere la presenza dell’acqua, l’arrivo della tempesta, dove si nascondono le vipere e gli scorpioni, dove trovare le misere piante per sfamare le capre, sanno orientarsi senza bussola o GPS, con il sole o le stelle o semplicemente con il proprio intuito. E sanno, cosa più importante, gioire di queste cose, sanno essere orgogliosi di questa vita, miserevole per noi, ma preziosa ed insostituibile per loro. Aggiro i monti a me familiari quando ormai il sole è tramontato da tempo. Mentre mi allontano da essi per percorrere gli ultimi 4 km di pianura, uno sciacallo ulula alla luna piena, bassa sull’orizzonte dello wadi. Forse, sapendo che parto, è venuto a salutarmi. Come ad un comando il deserto si anima. Ora veloci scarabei compaiono e scompaiono sotto le rocce, persino le mosche volano attorno a me e credo di aver visto, nella notte incalzante, un topo del deserto saltare inseguendo una preda. Ormai sono nei pressi del villaggio beduino. Incontro gli stessi cammelli. 

Ora si sono finalmente alzati e passeggiano apparentemente senza senso nel deserto. Si fermano un momento, curiosi, e mi osservano a lungo finchè non mi allontano. Entro nel villaggio....... è finita.
  Il cassonetto “comodo” di un “taxi” mi ospita fino a casa per 4 pounds . Finalmente bevo, litri e litri di acqua. Per tutto il giorno non avevo orinato e solo dopo aver bevuto circa 10-12 litri di acqua, durante tutta la notte,  il giorno successivo il mio rene sarà in grado di espellere un po di acqua in eccesso. E questo solo per 8 ore di cammino!!!
   Ho resistito perfettamente, ma erano solo 8 ore. Mi sono reso conto che non si può resistere, a luglio, nel deserto per più di uno o due giorni senza una enorme quantità d’acqua a meno di camminare di notte e riposare all’ombra di giorno. Qui ti rendi conto di non valere e di non essere nulla, qui ti rendi conto di quanto sei fragile, solo qui potevano nascere i profeti. Qui la natura ti può uccidere come e quanto vuole.  In questi luoghi scomparve l’intero esercito di Cambise e non se ne seppe più nulla.
                                                    Qui tornerò…………







domenica 25 marzo 2012

FINALMENTE.....IL DESERTO

Considerando che avevo poca autonomia deambulatoria, la mia famiglia mi convinse a fare una vacanza in crociera. Data la mia assoluta avversione per le crociere, comunque accettai perché la crociera era non in un mare aperto,ma nella culla della civiltà: era la crociera sul Nilo.

(Io e Roberto -30 anni dopo- alla partenza a Fiumicino)
Inoltre sarebbe venuto con noi anche il mio amico Roberto ( quello dello sperone centrale) e Giansaverio  (Il padre di Filippo) con cui ero e sono molto legato da fraterna amicizia. Avevo sempre avuto una passione per i segreti della millenaria storia egiziana e quindi fui molto felice di partire. Ancora una volta non sapevo che quel viaggio sarebbe stato la svolta della mia vita.
All’inizio la permanenza sulla nave mi faceva sembrare un criceto in gabbia. Mi erano strette le montagne, figuriamoci un “barcone”. Poi mi accorsi di viaggiare nel tempo. Viaggiavamo su un terrazzo e sotto di noi scorreva la vita degli egiziani. Era la stessa vita di duemila anni fa. Quando scendevamo dalla nave si apriva ai nostri occhi la meravigliosa storia egizia con templi immensi, inimmaginabili anche se confrontati con le nostre più grandi cattedrali.
Ma io non potevo non “salire sui monti” ed allora sapete cosa feci? L’unico monte della valle del Nilo è un monte perfetto, che sfida i secoli: LA GRANDE PIRAMIDE.
Purtroppo arrivati a circa 20 m di quota, un nugolo di cartelli in tutte le lingue avvertono i facinorosi che al di la è proibito salire. Cosa fare? Girai attorno alla piramide a livello dei cartelli e solo per caso mi accorsi che dal lato opposto a quello dove arrivano i turisti, i cartelli erano solo in arabo.

(Salutata la moglie mi accingo a partire per la Grande Parete...)
Non mi feci sfuggire l’occasione e salii fin quasi sotto la cima. Improvvisamente si formò un gruppo numeroso di guardie che in perfetto arabo mi redarguivano e mi urlavano qualcosa che non capivo ( immaginate cosa potevano urlarmi…!). Dovetti interrompere l’arrampicata e scendere guardingo ( non è poi così facile) tra gli enormi massi accatastati. Mi accolsero con i fucili spianati e dovetti contrattare lungamente la mia liberazione, mentre tutto il pulman mi attendeva per ripartire. Giustificai il mio errore dal fatto che non conoscevo l’arabo e che credevo che i cartelli intimassero di non rubar reperti e di non sporcare ( inverosimile….). La cosa funzionò e fui rilasciato quando i miei amici ormai avevano perso la speranza di ritrovarmi.
Ma questo è solo l’inizio.

(Le due Sfingi....)
Visitammo tutti i templi e le città, vagammo per i fantastici mercati contrattando qualunque cosa così come gli arabi si aspettano da un acquirente che sia rispettabile.
Poi un giorno……
Tutta una serie di coincidenze, nella mia vita, condite e potenziate dal mio carattere, hanno fatto si che il mio animo avesse bisogno di qualcosa che non sapevo di anelare finchè non l’ho visto per la prima volta. E questo qualcosa era il deserto.
La prima volta che lo vidi fu in occasione di quel viaggio quando, insieme ai miei amici, mi dirigevo all’aeroporto di Aswan per recarmi ai templi di Abu Simbel.  Qualcosa mi disse di non andare e non andai. Io seguo sempre il mio istinto, mi ha salvato innumerevoli volte in montagna.  L’aereoporto dista circa 15/20 km dalla città e si trova immerso nel deserto nubiano. Non avendo preso l’aereo, dovevo tornare in città e come potevo tornarci se non a piedi? La strada, dalla diga, fa un’enorme curva ad angolo retto, inspiegabile in considerazione che è tracciata nel deserto. Quella mattina era ancora notte quando scesi dal pulman che mi aveva portato all’aereoporto. Dovevo andare a est per tornare a casa. Io mi diressi a sud-ovest, ancora in piena notte, inoltrandomi nel deserto, la prima volta…..
Faceva freddo, un freddo glaciale e iniziai a correre più per scaldarmi che per fare un gesto atletico. Una duna si ergeva davanti a me. La sua cresta vergine si svolgeva come la schiena di un serpente. Iniziai a salirla nel momento stesso in cui il primo raggio di sole illuminava il cammino. La mia ombra si allungò all’infinito, nel deserto. Dietro di me le mie stesse orme proiettavano ombre nette. Il deserto era sabbioso e rari sassi neri sporgevano tra la sabbia, mentre rosse cupole rocciose sembravano giochi di bimbi fatti con il secchiello con la sabbia bagnata, sulla spiaggia.
Qualcosa in me stava cambiando, ma io ancora non lo sapevo. Me ne sarei accorto  più tardi, quando dovetti ammettere che solo nel deserto potevo avere consolazione alle mie problematiche ed ai miei dolori. Solo più tardi capii che questo territorio senza cuore, dove nulla sopravvive, era fatto apposta per far sopravvivere la mia mente. Negli anni successivi la cosa  poi sarebbe peggiorata, man mano che le vicende della vita sconvolgevano la mia esistenza. Tanto più dovevo affrontare dolori e delusioni, tanto più mi attaccavo al deserto. Tanto più mi rendevo conto di essere un essere fragile, tanto più dovevo dimostrare a me stesso che neppure il deserto poteva intimidirmi. Tanto più la vita mi dimostrava di essere un pavido, tanto più il mio inconscio esigeva una prova di coraggio.
Tutto questo era misto alla certezza che neppure nel deserto potesse succedermi qualcosa. Correvo nella sabbia, sulle dune, mentre il sole si innalzava incurante di un essere tanto fragile, quando di lontano intravvidi un palazzo scuro. La sua sagoma ondeggiava all’orizzonte, immersa nella foschia. Mi diressi verso di esso, ora andavo verso ovest, allontanandomi dalla mia meta. Corsi per ancora mezz'ora prima che il palazzo fosse nelle mie vicinanze. Ma non era un palazzo, era un alto parallelepipedo nero. Basalto compatto che emergeva improvviso dalla sabbia. Le sue pareti verticali e perfettamente livellate si innalzavano con quattro spigoli scolpiti come con un calibro. Era un monolito perfetto…
E completamente inspiegabile.  Mi sedetti sulla sabbia ancora tiepida. Il sole mi concedeva ancora l’ombra. Poi mi alzai e girai attorno alla torre, cercando un’improbabile porta. Mi allontanai alcuni metri e mi sedetti di nuovo, di fronte al monolito Udii un lieve, sordo rumore, come uno strisciare di serpente tra le foglie.  Aumentò, man mano che il sole si innalzava, poi scomparve, improvvisamente, come rispondendo all’ordine di un comandante. Un silenzio irreale calò sul deserto, il monolito incombeva su di me. Di fronte a questo altare innalzato al cielo capii che ero tornato a casa. Non so descrivere le sensazioni, ma capii che ero sempre stato li, in mezzo a quelle sterminate distese. Il monolito concentrava tutta la mia attenzione, attirava il mio sguardo. Sembrava di essere a “2001 odissea nello spazio” .  Nel film il monolito rappresentava la conoscenza dell’uomo, qui esso era la focalizzazione della conoscenza di me stesso . Era il punto iniziale, dopo avrebbe dato incarico al deserto di proseguire la sua opera. Il giorno dopo ho ripercorso le mie orme per tornare a fotografarlo. Sono sicuro di aver seguito le mie tracce, nella sabbia. Ho camminato per più di quattro ore ( ne avevo impiegate tre a tornare), ma non ho ritrovato il monolito. Può darsi che il vento abbia cancellato le mie orme e che abbia seguito delle tracce di qualcun altro, ma io sono sicuro di aver seguito il mio cammino. Posso aver sbagliato, questo lo ammetto, ma con la stessa probabilità devo ammettere che potrei solo aver immaginato la presenza del monolito. Forse era necessario per iniziare questo viaggio dentro le mie paure, le mie esigenze, i miei tabù ed allora io l’ho creato inconsciamente nella mia fantasia. Ma esso era reale, tangibile, la sua ombra era fresca e perfettamente consona alla sua sagoma e non sfumata come nei sogni.  Io che mi vantavo di essere adattato ai ghiacci ed alle quote, io che credevo di trovarmi a mio agio  nei bianchi ed immacolati pendii nevosi, ora sapevo di essere tutt’uno con la sabbia, le dune, le piane infuocate. Era solo un germe di sensazione. Questo germe sarebbe diventato certezza negli anni successivi, quando con me venne anche Filippo che mi considerava come immortale e quando decise poi di scendere nella sua ultima grotta. Sarebbe diventata certezza  quando capii che vivevo in una gabbia di canne, ma da cui non sapevo liberarmi. Quando ammisi di essere prigioniero di corde di paglia, ma che per me erano più resistenti del titanio.
La fragile gabbia strozzava la mia esistenza, imprigionava la mia anima  e solo nel deserto potevo vedere il mondo come era, e non attraverso le sbarre create forse solo dalla mia fantasia e dalle mie paure. Consideravo la mia normale esistenza come un sogno passeggero da cui mi svegliavo solo quando mi trovavo nelle sterminate distese del Sinai o tra le interminabili hammade del Sahara. O nel  Tenerè, il deserto del nulla o tra le impalpabili dune del Grande Erg occidentale, o tra il sale degli chott.  Mi incamminavo veros il Nilo, assorto in questi pensieri, quando improvvisamente fui sveglito da dei soldati che stazionavano in una casermetta nel deserto. Mi chiesero dove andavo e mi indicarono la direzione da seguire. Io sapevo benissimo dove andavo e seguivo un'altra direzione solo perchè volevo traghettare più avalle invece di traversare la diga di asswan. Non ci fu verso di spiegargli la cosa. Ogni volta che mi allontanavo, miraggiungevano con la jeep e mi costringevano a cambiare direzione. Dovetti seguire la loro indicazione e quindi mi ritrovai alla diga. La diga è lunga quasi 4 km ed è territorio militare strettamente controllato. Non so come feci, ma riuscii, senza problemi ad arrivare quasi al centro della diga, quando improvvisamente mi piombarono addosso tre militari con armi in pugno e mi riportarono all'ingresso a brutto muso. Seppi che non poteva essere superata perchè c'era un posto di blocco rigidissimo in cui si controllavano i documenti. Purtroppo io non li avevo quindi ero bloccato. Potevo sempre scendere a valle e tornare all'altra riva con la barca di un pescatore, quando si fermò un camioncino sgangherato pieno di sacchi. L'autista mi vide ed immaginò la cosa. Evidentemente era conosciuto perchè sfuggì ai controlli. Mi nascose tra i sacchi e mi portò al di la. Questi traccheggi avevano fatto passare il tempo, per cui avevo fatto molto tardi. Mi incamminai verso la nave, quando fui fermato da varie persone che mi chiesero se io fossi  Paolo. Risposi di si ed essi mi fecero tutte un sorriso di soddisfazione. Mah! Come facevano a sapere il mio nome?  Al rientro alla nave tutto fu chiarito. IL capitano aveva semplicemente espresso la sua preoccupazione per il mio mancato rientro, visto che i mie amici erano tornati da Abu Simbel e gli avevano detto di avermi lasciato nel deserto. La cosa era trapelata e tutto il porto era stato sguinzagliato a cercarmi nonstante mia moglie lo avesse rassicurato sulla mia incolumità.
Il viaggio fu indimenticabile, ma tutto iniziò da allora.................