domenica 6 maggio 2012

LE DUNE E L'AQUILONE, VERSO KSAR GHILANE

"Noi partiamo un mattino con il cervello in fiamme, con il cuore gonfio di rancori e di desideri amari, e andiamo, cullando al ritmo delle onde il nostro infinito sul finito dei mari. Alcuni sono lieti di fuggire una patria infame, altri l’orrore della loro nascita, altri ancora – astrologhi sperduti negli occhi di una donna – la tirranica Circe dai pericolosi profumi…
Ma i veri viaggiatori sono soltanto quelli che partono per partire; cuori leggeri, simili agli aerostati, essi non si separano mai dalla loro fatalita’, e senza sapere perche’, dicono sempre ANDIAMO, i loro desideri hanno le forme delle nuvole…"
                                                     Charles Baudelaire
E’ la prima volta che vengo in Tunisia e devo conoscere anche i luoghi, le tradizioni, le città, la gente. In cuor mio però sono venuto per una sola ragione, quella di vedere lo Schott el Djerid, il lago salato per prepararmi al Salar de Oyouni, in Bolivia. Devo capire se potrò traversarlo, se la cosa possa essere fattibile. Sono almeno 100 km di sale, perfettamente piatto. Non credo che la cosa sia così facile. Le guide riportano pericoli inauditi, auto scomparse, carovane sparite nel nulla, sepolte sotto la crosta salata che ha improvvisamente ceduto. Certo che la cosa mi attira molto, ma non è giusto correre più pericoli di quello che serve. E poi c’è l’Erg Ghilane, il grande mare di sabbia. Andrò all’oasi di Ksar Ghilane e da li spero di poter traversare almeno qualche km di dune, se ce ne sarà il tempo. Ma andiamo con ordine.
L’aereo ti porta in Tunisia in un battito di ciglia. L’aereoporto è a Djerba. Forse l’isola dei Lotofagi doveva essere bellissima ai tempi antichi, ma oggi è un serraglio di turisti e finzioni africane, villaggi, alberghi. Meno male che arrivo alle tre di notte e al mattino già è ora di partire.

Il fuoristrada 4x4 aspetta, alle ore 7 partenza. La presenza del fuoristrada mi rincuora un po. Si approda al continente traversando il mare su un ponte lungo km, costruito dagli antichi romani. I Romani stanno dappertutto, troverò un fortino romano in pieno deserto. Si viaggia per km fiancheggiando uliveti verdi. Ma dove sta il deserto?  Pian piano, finalmente, gli ulivi sembrano rimpiccolire. Poi assumono un aspetto malandato, i rami si trasformano in stecchi rinsecchiti e ancor più contorti ed il deserto appare. Nel fuoristrada l’aria condizionata si agita sul mio collo come il cappio di un impiccato. La meravigliosa aria del deserto è modificata e mortificata, raffreddata. La libera aria dell’erg e degli uadi è costretta ed incanalata tra freddi e neri tubi di ferro ed infine sbocca nella puzzolente cabina umana. Sette esseri  agognano il fresco, mentre al di fuori il nemico implacabile del sole attende come un cecchino che qualcuno affacci la sua testa sulla porta. Sto soffocando.... nella fresca aria dell’automobile. L’ansia mi pervade sapendo che tra me e il deserto c’è solo una misera lamiera, che però è invalicabile. Faccio opera di convinzione che dura almeno due o tre ore. Parlo del deserto, del sole, del vento, della sabbia, della luna e poi degli scorpioni, delle ombre, del profumo delle rocce, dei tamerici. Tutto questo è li fuori, appena al di la di un mm di metallo arroventato. Parlo della sabbia trasportata dal vento, dei turbini che vagano liberi, del vento che non ha confini, delle orme sulle dune, delle incomprensibili paure degli uomini. Mi sembra di parlare ad un muro. In qualche piccola sosta l’uscita all’esterno è vista come una condanna. L’aria sembra ancora più irrespirabile appena  si esce dalla campana protettiva della nostra civiltà. Sembro un criceto in gabbia. Egli ha tutto, cibo, acqua e persino una pedana mobile su cui correre. Cosa può egli chiedere di più?. Abbiamo aria fresca, acqua a volontà, cibo, bibite, musica. Come i criceti…… La sabbia scorre sotto di noi, non…. dentro di noi. Difficilmente qualcuno capirà la differenza, ma la differenza è tutta qui.  Tanto varrebbe vedere un bel documentario. La nostra meta è l’oasi di Ksar Ghilane, in pieno Grande Erg orientale. Certo che deve fare una bella impressione ai miei compagni di viaggio vedere il deserto senza cuore  descritto dai libri sulla legione straniera. Ne parlano come una landa di Marte, dove non si può vivere e non sanno che persone come noi la abitano, teneri e delicati bimbi corrono sulle sue sabbie e tra le sue montagne. E noi abbiamo bisogno di un mm di lamiera per stare sicuri e al fresco. Colgo l’occasione quando qualcuno si lamenta che, nonostante l’aria condizionata, nella cabina si suda terribilmente. "E’ l’umidità prodotta da noi stessi"  tento di spiegargli. Ma c’è una soluzione, ed è quella di aprire tutte la finestre e permettere al vento del deserto di asciugare il tutto. Mi prendono definitivamente per pazzo e sul momento la cosa finisce li. Pochi minuti dopo però qualcuno comincia ad avere dubbi ed apre il suo finestrino. Al momento il vento rovente fa fare una smorfia quasi di dolore al malcapitato, ma dopo alcuni secondi egli incita gli altri a fare lo stesso. Ora viaggiamo come su una macchina scoperta. Tutto è aperto, finalmente, solo il tetto ci ripara dal sole. Il vento caldo asciuga le nostre tempie, penetra in tutti i pertugi accarezzando la nostra pelle. Il sudore scompare come per incanto, come io avevo previsto. Tutti si stupiscono del risultato. Qualcuno addirittura si sbilancia con considerazioni sul deserto e sul caldo solo impensabili pochi minuti prima. Tutti sono d’accordo che il vento profuma di qualcosa di inspiegabile. “E’ il profumo della libertà” gli sentenzio greve.

Avanziamo con difficoltà nella pista fattasi improvvisamente sabbiosa. Il vento ha accumulato metri di sabbia. Non poche volte rimaniamo insabbiati, ma la perizia del nostro autista ci toglie facilmente da ogni difficoltà. 

Una misera costruzione con foglie di palma nasconde un bar che ci prepara un magnifico te alla menta, mentre all’esterno, la bianca sabbia ha lasciato il posto ad una coltre impalpabile di sabbia rossa, quasi un borotalco colorato. Dico a tutti di uscire all’esterno invece di stare rintanati come topi nel bar. Faccio togliere loro le scarpe e li invito a camminare nel deserto. Qualcuno manifesta paure per scorpioni e serpenti, ma poi tutti seguono il consiglio.  Passeggiamo nella polvere rossa con in mano un bicchiere fumante di zuccherato te alla menta e  qualcuno forse inizia a comprendere quello che avevo detto durante il tragitto. Le dune rosse sono un panorama di sogno. Il vento va giusto nella direzione dell’oasi. Sono le 15 e l’oasi è distante circa 20 km. Ma sono 20 km di dune che non è esattamente come 20 km in una pista dura e sassosa e neppure 20 km sull’asfalto.
Se si incontrasse sabbia mobile sarebbe un guaio. Inoltre bisogna aggirare le dune più alte e quindi il tragitto diventerebbe faticosissimo e lunghissimo. Ci vorrebbero ore per percorrere quei 20 km Un buon cammello percorre circa 30 km al giorno, sulle dune. Il vento aumenta ancora nei pochi minuti che sostiamo al bar.
Questa è l’unica pista che conduce nell’oasi. Siamo in pieno deserto. Lontano 5 ore di jeep dall’ultimo centro abitato. Il grande Erg ci circonda. Devo tornare nella gabbia? E’ difficile rientrare nell’angusto e tetro abitacolo quando fuori aspetta la libertà. Fuori c’è il mio ambiente, c’è la mia solitudine, c’è il mio istinto, c’è la mia anima.
Mi faccio indicare con precisione la direzione dell’oasi.

 Prendo un pugno di sabbia, lo alzo al cielo e lascio scivolare la sabbia per controllare la forza e la direzione del vento.  Mi allontano e mi siedo sulla cima di una piccola duna, pensieroso, con lo sguardo rivolto verso l’invisibile l’oasi. Il sole si accinge ad abbassare il suo cammino e già la luce, riflessa dalle dune vermiglie, avvampa con un colore ancora più rosso. Qualcuno mi chiama per ripartire. E’ arrivato il momento, il momento di decidere. Apro il bagagliaio, trovo il mio aquilone, allungo i cavi sulla sabbia e lo alzo al cielo. La trazione è enorme. Il vento spira inesorabile ed ancora più teso a trenta metri d’altezza. Lo accelero per controllare che tutto sia a posto. Saluto tutti dando loro appuntamento a Ksar Ghilane e parto trascinato dal vento.

 Devo aggiustare la direzione di trazione  in riferimento alla posizione dell’oasi. Faccio alcuni tentativi man mano che procedo, poi tutto mi sembra a posto e posso lasciare libero sfogo al vento. Ora posso percorrere un’itinerario rettilineo non curandomi delle dune. Ci penserà l’aquilone ad aiutarmi nella risalita dei pendii sabbiosi. Normalmente l’itinerario nel Grande Erg presuppone che le dune debbano essere aggirate, per cui il tempo di percorrenza e la distanza si dilatano a dismisura. Non che la cosa possa interessarmi, ma ora ho dei doveri verso i miei compagni.
Gli spiriti del deserto devono aver dato ordine ai venti di mettersi al mio servizio. Spira come se fosse provocato da una ventola immane. Non c’è una raffica, tutto si sposta senza alcuno scossone verso l’oasi. Ed io vengo trascinato da una mano inconsistente che mi spinge e mi innalza procurandomi una sensazione di onnipotenza.


Risalgo le dune e quindi mi getto al di la scendendo il pendio sottovento come un fulmine, mentre l’aquilone mi tiene in aria. In discesa, sul terreno impalpabile, faccio balzi anche di 10 m ed atterro alla base appena in tempo da essere pronto a farmi riprendere dal vento e trasportarmi di nuovo alla cima. 

Alcune volte mi fermo sulle  dune più alte, facendo sostare l’aquilone sulla mia testa in modo tale che non abbia più alcuna trazione trasversale. Non posso distrarmi come vorrei, per ammirare il panorama. L’aquilone può tendere dei tranelli quando meno te lo aspetti. Una raffica può dare un’improvvisa trazione che può procurare uno strattone difficile da controllare se si è impreparati e distratti. Inoltre non si deve mai dare la possibilità alla vela di prendere il sopravvento. Possono intrecciarsi i fili ed allora sarebbe difficile in questo ambiente liberarli  e rimettere tutto a posto.
Non dimentichiamo inoltre che la vela tira con una forza che è sempre di molto superiore alla nostra. Possiamo controllarla, indirizzarla, ma non opporci, per cui è facile farsi male, e qui non è auspicabile che succeda qualcosa.


Ho solo un misero pantaloncino, un paio di scarpe e lo zainetto in cui ripongo l’aquilone e che in questo momento quindi è vuoto.  Non posso fermarmi per fotografare, dovrei far atterrare l’aquilone ed è meglio non cercarsi guai.
Il terreno corre sotto i piedi, mentre il sole si avvia a grandi passi verso il tramonto. Non ho mai visto un’atmosfera tanto rossa. Quasi non c’è differenza tra il rosso della sabbia e il colore del cielo. Poi come l’ultimo respiro di un corpo morente, il vento, dopo un’improvvisa raffica, improvvisamente abbandona il deserto. L’aquilone si affloscia come una foglia morta ed il silenzio cala nel deserto. Non ho nessuna preoccupazione. Sapevo che il vento sarebbe calato all’imbrunire, la cosa non mi sorprende. Il sole sfiora le dune più alte. Una grande duna ha una consistenza che varia nel tempo e nello spazio, quasi si trattasse di un corpo, che con movimenti rilevabili solo con un orologio geologico, contrae sotto la pelle i suoi muscoli. Fisse o mobili che siano, le dune cambiano comunque aspetto nel tempo, ed in questa mutazione cambiano la consistenza della loro superficie.
Parti dure come cemento possono alternarsi ad altre molli come farina senza che nulla possa indicare questo mutamento. Mutamento che avviene sia nel corso degli anni, sia nel corso della giornata col variare del tasso di umidità nell'aria, della direzione del vento e dell’altezza del sole. Il colore rosso arreca tranquillità all’anima. Questa parte di erg è di un colore rosso incredibile. Altrove la sabbia è bianca e, di giorno, accecante. La sabbia finissima e rossa significa semplicemente che è molto antica, più di un milione di anni, e quindi ha avuto tempo di ossidarsi e di ridursi in granuli impalpabili.

Non ho alcun dubbio sulla direzione seguita, sono certo di non essermi sbagliato. Il dubbio non deve neppure sfiorarmi, sarebbe un grosso guaio nel Grande Erg.
Davanti a me ci sono 800 km di sabbia, poi 1500 km di rocce ed ancora 600 km di sabbia. A nord la sabbia si stende per altri 500 km ed a sud forse  più di 1500 prima di incontrare qualcosa, che comunque è qualcosa nel bel mezzo del deserto. Ritornare indietro non è neppure ipotizzabile. Con le tracce cancellate dal vento non potrei sperare di ritrovare il bar e la pista, ammesso di ritrovarla, corre per 200 km prima di sfociare in una strada asfaltata. Non ci devo neppure pensare, ma in effetti neppure ci penso. Comunque ora devo camminare, non ci dovrebbe mancare molto, lo sento istintivamente.

Avverto chiaramente la disperata immensità del nulla che mi circonda. Questo non avviene più nel Sinai, dove ora mi sento compresso e come circondato da un recinto. Lo sguardo non supera le creste delle dune, limitando la sensazione di immensità, ma il vuoto è palpabile, si insinua nella mente come un pensiero che più si cerca di scacciare, più ricompare prepotente e terribile. Bisogna ricacciare lo sconforto che tenta di affievolire la certezza dell’itinerario. E’ la prima volta che sento veramente il vuoto attorno a me. Altre volte avevo creduto di provare questi sentimenti, ma non sapevo di avere la possibilità di sentire queste sensazioni così prepotentemente. Cosa rappresento in questo luogo sconfinato? Meno che nulla. Che senso ha vagare nei deserti? Non lo so, so che mi serve. Potrei dire “che senso ha andare sui monti, o sciare? Oppure, che senso ha andare al cinema o ….vivere?” Forse qualcuno ci costringe a vivere, senza che noi ce ne rendiamo conto, forse lo stesso essere costringe me a vagare nelle sabbie e nelle piane infuocate.   Avverto un cambiamento nell’aria. Sento la frescura delle palme e l’odore della terra umida, come dopo la pioggia.  La sabbia si raffredda,  mentre il sole tramonta. Mi spoglio completamente del misero perizoma e delle scarpe e cammino completamente nudo nel deserto. Il delicato talco accarezza i miei stanchi piedi con una carezza vivificante e riposante. Sento l’energia del deserto che penetra dentro di me, caricandomi di forza rigenerante.

Così  nudo non sono altro che un piccolo granulo di sabbia che si erge appena tra le ormai basse dune. Mi confondo completamente con la sabbia e questo è quello che cercavo. Nessun ostacolo artificiale si oppone tra me e il nulla, nessun tessuto impedisce al deserto di circondarmi completamente e penetrarmi. Sento che potrei camminare così per giorni, che sarebbe il deserto a darmi, e non più a togliermi, energie.  Poi scorgo delle tracce di fuoristrada nella sabbia. Vanno nella mia direzione e quindi sicuramente verso l’oasi. Ora le dune sono diventati piccoli avvallamenti del terreno, ma dalla cima di una di esse mi sembra di scorgere all’orizzonte una linea nera che si fa sempre più decisa man mano che avanzo. Sono arrivato all’oasi proprio nel momento in cui il sole tramonta dietro una duna più alta. Infilo solo il costume da bagno, tanto per non essere indecente.

 Incontro una carovana che si appresta a partire. Qualche nomade ha avvistato in lontananza la mia policroma vela e mi da un segno allegro di assenso misto a stupore, condito con i soliti graditi saluti. Il sole soffonde l’atmosfera di una patina magica mentre le palme  attendono che il viaggiatore assetato si sdrai sotto le loro riposanti e fresche foglie.  La prima fila di palme di alza di fronte al deserto come un fiero bastione,  non un filo d’erba preannuncia la loro presenza. Mi inoltro dentro i primi alberi, quando improvvisamente un lago fatato compare tra le palme a conforto della vista e del corpo. E’ una sorgente termale di acqua ferruginosa e potabile, la temperatura sfiora i 40 gradi, circolare, e dal suo bordo sgorga un fiume di acqua limpida mentre un piccolo emissario esce da essa e si inoltr. Alcuni bagnanti si immergono nelle sue acque e tra di loro riconosco i miei compagni appena arrivati.

Si sono sistemati in un campo tendato. Ad ogni equipaggio è stata assegnata una tenda con 8 posti. Non mi interessa. Mi getto nell’acqua. Cos’è l’oasi? Non è un insieme di palme che crescono dove c’è l’acqua. L’oasi è qualcosa di più. L’oasi è solo per il nomade, per gli altri non è nulla. L’oasi è il paradiso per chi percorre il deserto. E’ l’aria per chi non respira, l’oasi esiste solo in quanto esiste il deserto, come la vita esiste solo in quanto esiste la morte o come il bene che ha la sola ragione di essere solo fino a quando esisterà il male.  Essa è la vita che contrasta la morte, è il bene che vince sul male, è la pace dell’anima. Tra le fronde delle sue palme nascono leggende portate dai nomadi. I turisti le ripetono come Pinocchio o Biancaneve, ma qui esse non sono favole.  Solo chi è stato a contatto con il deserto sa che esse sono il racconto di fatti veri, non fantastici. Chi ha dormito nel deserto, in solitudine e ha percorso le sue sconfinate lande sa che tutto è vero, quaggiù. Quando torneremo nella civiltà tutto questo sarà immaginario. Scompariranno i folletti e gli spiriti. La voce delle dune, di notte, tornerà ad essere della semplice sabbia che rotola giù per i pendii sommando il rumore di ogni grano a quello di altri milioni e milioni. Allora si produce un suono lugubre, come quello  del tuono lontano che rimbomba tra le gole , come quello di cavalli al galoppo oppure come quello di monaci buddisti che pregano all’unisono i loro mantra. Ma finché sei qui quella voce è la voce delle dune che ti parla, sono i folletti della sabbie che di notte si aggirano nel deserto e che non bisogna contrariare.  Una forte corrente di acqua cristallina percorre tutta la pozza e si può nuotare lentamente contro corrente rimanendo sempre nel medesimo posto. Attorno alla pozza ci sono sedie e sdraie, un piccolo bar di canne e palme serve bevande moderne. Questo rovina il fiabesco spettacolo, ma è lo scotto da pagare. Ormai in nessun posto di ritrovo del deserto la nostra civiltà non ha inquinato il terreno e il pensiero delle popolazioni.  La cena viene servita su un lungo tavolo, all’aperto, da cuochi enormi vestiti con polverose vesti ed ancora più polverosi copricapi. Tutto è cucinato in enormi pentole all’apparenza poco rassicuranti dal punto di vista igienico. I  miei compagni sono titubanti, ma io li ammonisco con un buon proverbio: “Quello che non strozza ingrassa” e mi getto a capofitto nell’ottima zuppa servendomi di posate unte e bisunte.  I cuochi sono allegri, come tutte le popolazioni nomadi ed appena finito di cenare improvvisano canti e balli del deserto costringendo anche i più restii ad unirsi a loro. Un’enorme fuoco al centro della radura tiene lontani gli insetti ed il profumo del legno di palma bruciato invade l’aria mescolandosi con il profumo dei fiori e dei tamerici.  Seduti attorno al fuoco e cullati dapprima dalle allegre canzoni, poi dalle nenie dei nomadi, il sonno sta vincendo. Ci apprestiamo a raggiungere la nostra tenda. Entro ed un senso di sconforto me prende. Il cielo stellato come un dipinto scompare, coperto dal polveroso telo della tenda. Chiedo ai  miei compagni se vogliono venire a dormire nel deserto. Un coro di scherno e di risa mi risponde, ma ben presto, visto che io sto preparandomi a partire, qualcuno mi chiede se può venire con me. Pochi secondi e tutti siamo pronti a partire per dormire tra le dune, armati di cuscini e coperte, qualcuno addirittura con l’esile materasso della brandina. Ci avviamo come sfollati verso le dune, ma all’uscita dal campo siamo bloccati dai guardiani che ci rimproverano aspramente perché stiamo portando con noi le lenzuola,  i cuscini e le coperte delle tende. “Così si impolverano!” ci ammoniscono, come se tali stoffe potessero impolverarsi più di quanto già non lo siano. Ci bloccano all’uscita e ci fanno tornare indietro. Ai criceti non è permesso uscire dalle gabbie. Ma ormai tutti sono decisi. Lasciamo le coperte ed i cuscini e ci avviamo di nuovo verso le dune con tutti i nostri leggeri indumenti sulle spalle ed il k-way alla cintola. Ci allontaniamo qualche km dall’oasi che intanto ha spento tutte le sue luci. Le dune sono illuminate solo dal chiarore delle stelle. Ci stendiamo sulla impalpabile sabbia. Io mi scavo un giaciglio con esperienza misurata ed accumulo la sabbia  nel versante da cui proverrà  la brezza del mattino. Dico agli altri quale è il punto migliore per sdraiarsi, al piede delle dune, nella migliore posizione per ripararsi dal freddo della notte e dal vento dell’alba. Commenti entusiastici, rimproveri e scherno per tutti quelli che si rintanano sotto le tende, esclamazioni di stupore. Il deserto ha campo libero per entrare nelle menti anche dei più riluttanti e paurosi. Scorpioni e rettili sono scomparsi, nessuno ne parla più, poi improvvisamente tutto si confonde ed il sonno mi vince. Mi sveglio con il Cigno già sulla via del tramonto e noto che quasi tutti  hanno abbandonato la postazione, il freddo ed il deserto li ha vinti, ma non mi interessa. Mi volto dall’altra parte e mi riaddormento.   La sabbia si raffredda molto di notte, non è come le pietre del Sinai. Il sole sorge appena in tempo per non far gelare le ossa.

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