lunedì 7 maggio 2012

UN SOGNO DI SALE. LO CHOTT EL DJERID

 
"Il viaggio é una porta attraverso la quale si esce dalla realtà nota e si entra in un'altra realtà inesplorata, che somiglia al sogno."
                                                  Guy de Maupassant

La Tunisia del sud è caratterizzata dalla presenza di un insieme di depressioni chiuse, denominate Chott, tra cui la più estesa, con una superficie di quasi 5000 kmq è lo Chott el Jerid. Collegato con lo Chott Fejaj (800 kmq), è separato invece dallo Chott el Gharsa (600 kmq) da un rilievo denominato Draa Jerid. Nell’inverno l’arrivo delle acque negli Chott avviene con le piogge, lo scorrere dei torrenti e soprattutto attraverso le falde idriche sotterranee.

           ( La posizione dello Chott el Djerid,  evidenziato con la croce color rosso)

In tutti i casi, gli apporti idrici sono di volume trascurabile in rapporto a quello della evaporazione. In effetti i prelevamenti effettuati dalla evaporazione sono 7 volte maggiori del volume d’acqua apportato dalle piogge, dai torrenti e dalle falde sotterranee. Durante l’inverno c’è una falda superficiale di acqua che copre gli Chott. Al contrario, nel corso del lungo periodo di siccità, la lama d’acqua superficiale lascia il posto ad un sottile strato di sale. Nelle zone dove l’apporto di sale è meno importante si ha piuttosto un paesaggio dominato dalle efflorescenze saline che si presentano secondo una rete poligonale nel mezzo delle argille. In altre zone le acque ricche di gesso sciolto risalgono in superficie.

 

Nel corso di questa risalita e prima di giungere in superficie, il gesso contenuto nell’acqua precipita a causa della intensa evaporazione. Il gesso quindi cristallizza in direzioni diverse in seno alle sabbie che si agglomerano dando l’impressione di una rosa. Sono le famose rose del deserto.

                             ( Una delle rose prese nello Chott)

Attualmente la traversata dello Chott si fa attraverso una strada a partenza da Kebili. La strada attuale corre su una zona terrosa di riporto che in ogni caso la mantiene stabile e sopraelevata anche in inverno. Da sempre si racconta di viaggiatori che, persa la pista, sono sprofondati nel fango senza lasciare tracce. Le parti del terreno fangoso si richiudono rapidamente dopo l’inghiottimento di un corpo di qualsiasi taglia. I racconti degli storici del Medioevo menzionano casi di carovane e di interi eserciti totalmente inghiottiti e scomparsi senza lasciare la minima traccia. Sono annegati nella melma tantissimi cammelli, cavalieri ed uomini. Anche oggi si parla di fuoristrada sprofondati nel lago, ed a conferma di ciò vi sono nelle guide numerose foto di quattroruote quasi totalmente sepolte dal fango salino. Attraverso la storia, il paesaggio straordinario delle superfici degli Chott è stato oggetto di numerose descrizioni. Queste, al tempo stesso, denotano la particolarità di queste superfici e lo stupore degli storici e dei viaggiatori che hanno attraversato gli Chott. Alcuni hanno paragonato questa superficie molto vasta a del metallo fuso, o a del metallo levigato, o addirittura ad uno stagno d’acqua ghiacciata, altri ad un tappeto di cristallo ed una coltre d’argento. Comunque, in ogni caso, la superficie degli Chott ha da sempre provocato in colui che l’attraversa, delle sensazioni insolite, dovute al caldo soffocante, agli strani contrasti tra un suolo innevato ed un sale di fuoco da una parte, e tra una lago solido ed un terreno mobile, dall’altra.


Lo intravvedo da Tozuer. La piana è a perdita d’occhio e già dalla città appaiono i miraggi. La distesa salata è lontana km. Tra me e il lago si interpone l’immenso palmeto di Tozeur. Sono milioni di palme, è famoso in tutto il mondo per i suoi squisiti datteri, i Deglet Nour. Non mi rimane altro che incamminarmi, ma certo ci vorranno ore, a occhio sono 7/10 km.
Ma ci sono i taxi che vagano continuamente nella città a caccia dei rari turisti ed ora ne hanno beccato uno, cioè io. E’ presto e nessuno gira per la città, di preda ci sono solo io. Fermo una macchina con un giovane pilota, “Vado allo Chott, mi puoi accompagnare?”. Crede di non aver capito e si fa rispiegare la destinazione. In francese scolastico dimenticato mi spiego benissimo, come già ho sperimentato in Marocco. Poi c’è l’ampia gestualità. “No, monsieur, no …Chott…no!”.  E’ il primo, non mi preoccupo, forse ha da fare, magari la colazione. Ne fermo un altro ed un altro. Tutti si rifiutano di accompagnarmi, stizziti. E’ destino. Mi incammino rassegnato a percorrere questi 10 km sulla strada del palmeto quando scorgo un carretto trainato da un cavallo che mi sembra in ottima forma. Lo fermo, grandi saluti, benedizioni di Allah e poi…”Mi porti allo Chott?”. 

 Il cocchiere, titubante e abbastanza male in arnese, accondiscende. Ora c’è da mettersi d’accordo sul prezzo.
Prima di partire bisogna sempre stipulare una sorta di contratto verbale a cui, però, fanno sempre onore, rispettandolo con precisione. Il mio prezzo viene subito scartato, il suo è spaventoso, ma siamo nella cultura araba e non mi faccio intimidire. Ho fretta, ma questa non deve trasparire nella contrattazione, altrimenti sarebbe un punto a favore del venditore il quale si accorge se l’acquirente ha fretta, ma stima chi sa nasconderla con garbo e gentilezza. Questa è la compravendita araba. Alla fine, dopo aver discusso di tutto e di più gli faccio vedere tutto quello che ho nella tasca, che è ben misera cosa, comunque una via di mezzo tra la mia proposta e la sua. Salgo sul carretto che viene subito avviato con decisione, anche perché la strada è in falsopiano in discesa. Il cavallo sembra aver messo le ali e percorriamo il palmeto meraviglioso di Tozeur chiacchierando con il cocchiere che mi racconta tutte le storie del palmeto e come si svolge la vita dei piantatori di palme e dei raccoglitori di datteri. Sette palme sostengono una famiglia, le danno di che vivere con dignità, secondo i loro metri, ecco perché sono così preziose. Nulla si spreca in una palma. Le foglie, la corteccia, il tronco i frutti, tutto viene diligentemente utilizzato. E poi le palme danno la vita nelle oasi del deserto perché permettono la condensazione dell’aria nelle foggare. Il lago ancora è nascosto alla vista dalle ultime palme. Carichiamo un amico del cocchiere, ma io gli ricordo che mi dovrà portare più vicino possibile al lago e poi venirmi a riprendere prima di notte. Sembra non interessargli nulla. Alla fine del palmeto conosco tutta la sua famiglia ed anzi, ricevo un invito per questa sera alle nozze di un suo parente stretto. Memore della stupenda cerimonia di qualche giorno prima, (Cfr "La circoncisione" in questo blog) gli dico che se non sarò troppo stanco sarò onorato di partecipare alla cerimonia. Le palme si fanno più rade ed infine lasciano il posto a bassi arbusti che assomigliano a pini mughi.

Il terreno è perfettamente pianeggiante, la terra inizia a mescolarsi con cristalli di sale che diventano sempre più brillanti. La pista è appena larga per far passare il carretto, ma i solchi profondi in quello che appena qualche tempo addietro deve essere stato fango, sono larghi giusto quanto il nostro calesse. Ora è quasi tutto sale ed ancora procediamo verso il lago. Provo a dirgli di fermarsi, ma egli mi fa un cenno di diniego con la mano. A me non interessa, io devo solo camminare, ma non sente ragioni e procediamo imperterriti su un terreno che ora inizia a cedere sotto le ruote del carro. Gli zoccoli del cavallo sprofondano lievemente nel terreno che sta diventando inconsistente. La pista diventa più flebile, fino a quanto improvvisamente finisce. Ci fermiamo, non speravo tanto. Mi ha portato almeno a 5 o sei km DENTRO il lago. In questo punto il lago è largo 50 km e lungo 150, un’immensità. Io sono venuto solo a vedere la situazione per cui non farò la traversata, perché sarebbe troppo lunga, per quello tornerò un’altra volta. Ora voglio solo sapere che sensazioni proverò in un luogo così strano. Devo sentire cosa mi suggerisce l’ istinto. Come sempre lo seguirò. Porto due bottiglie d’acqua ed il mio aquilone che potrebbe servirmi per farmi trascinare più velocemente.

Ci fermiamo ed il cavallo viene subito liberato dalle briglie e parcheggiato all’ombra del calesse. Mi fanno vedere delle pozze di sale. Brutto segno. Nelle pozze, appena sotto la superficie, c’è una spaventosa salamoia che evaporando lascia sul bordo una spessa crosta di cristalli di sale che scintillano sotto il sole.

Gli dico di andare, ma non si muovono. “ Ci sentiamo stasera! ”, e mi fermo per salutarli. Il cavallo rimane saldamente all’ombra del calesse. Non si muoveranno, mi aspetteranno in quel punto. Mi dicono di non preoccuparmi, saranno li durante tutta la mia gita. La cosa che mi preoccupa non è che loro saranno tutto il giorno ad aspettarmi, ma che io, al ritorno, possa non trovare l’approdo e quindi mi potrebbero attendere invano, magari dando un allarme ingiustificato.
                       
 La costa è tutta perfettamente identica e dopo molti km nel lago, al ritorno, chissà dove potrei approdare. Dovrei allora percorrere la “costa” per trovarli, magari al buio. Cerco di prendere un riferimento in una torre della lontana città. Staremo a vedere, loro  sembrano più ottimisti di me, forse sanno qualcosa che io non so. Un ultimo saluto e mi incammino verso il nulla.
Ancora nessun dubbio si affaccia nella mia mente e mi avvio con il viso rivolto al sole ancora radente la perfetta linea dell’orizzonte.
Cammino deciso su un terreno bianco come una superficie di neve sporca. Grandi placche di sale formano un perfetto pavimento come lastre di pietra appena rilevate ai bordi. Metto i piedi al loro centro ed avanzo velocemente. Mi volgo indietro e il carretto è a mala pena visibile, già trema sotto l’aria che si riscalda sempre più  inesorabilmente ed infine scompare.

Ora sono solo con il panorama che è perfettamente uguale a se stesso. Ho già fatto un’esperienza simile nell’Hamada Rbat, in Marocco e ciò mi aiuta tantissimo. Almeno so come reagisce il mio animo. Il panorama piatto ed inesorabile  procura un turbamento che è difficile descrivere. Nulla di ciò  può accadere in montagna dove le linee verticali ed oblique si alternano a quelle orizzontali tranquillizzando il nostro cervello che è abituato  culturalmente a vivere in un ambiente vario e caotico, non nella perfezione delle linee pure ed ossessivamente monotone.

Ora le placche si fanno più scure. In questa zona il vento pulisce con più accuratezza il terreno dai cristalli di sale, trasportandoli fino alle prime asperità, dove si accumulano formando piccole dune. Da lontano avvisto un piccolo cratere. Mi avvicino e scopro che è un buco nella superficie riempito dalla immancabile salamoia. E’ un ajoun, piccola sorgente.

L’acqua è estremamente salata, e inoltre ha un gusto ripugnate di acido che brucia la lingua e rimane a lungo nella gola. Il bordo di questa piccola sorgente è rilevato, quasi un piccolo cratere con i bordi di sale, argilla rossa e sabbia che intacca localmente la piattezza assoluta della superficie dello Chott. Ma un’ombra si sposta ai bordi del mio campo visivo. Alzo gli occhi e scorgo un treno che corre in lontananza all’orizzonte da sinistra a destra.

 Si scorgono nettamente i vagoni e quasi si possono intravvedere le ruote. Comunque essi sono sicuramente rialzati dal terreno. Conto dieci carrozze trainate da un locomotore più grande. Il treno rallenta, poi accelera di nuovo e si perde all’orizzonte, per ricomparire di nuovo. So che non è un treno, ma uno di quei miraggi di cui è giustamente famoso lo Chott el Jerid. Mi abbasso un po e scompare , mi alzo e ricompare di nuovo. Potrei giurare di essere alla presenza di un treno, forse vedo anche i passeggeri. Ben si comprende come queste visioni fossero conturbanti per gli antichi viaggiatori che avevano dato a questi miraggi la qualifica di fatati. Non mi faccio distrarre e proseguo con lena, ma intanto le letture delle guide acquistate all’oasi di Tozeur iniziano ad affacciarsi nel mio inconscio.

 Sarà per la solitudine e per l’ambiente in cui l’uomo è assolutamente estraneo, sarà per una mia insicurezza inconscia, ma un pò di paura fa capolino tra i meandri dei miei pensieri. Quella piccola sorgente ha messo allo scoperto un terreno che credevo assolutamente solido, ma che si rivela essere una crosta di sale e sabbia che nasconde un’inferno assoluto di salamoia. Quasi un fragile pack del polo nord in primavera, quando il disgelo fa della solida superficie ghiacciata una trappola mortale. 

Reggerà la crosta salata? Le guide non raccomandano altro che di non uscire dalla unica strada che traversa lo Chott el Jerid. I racconti di interi eserciti spariti nel nulla senza lasciare traccia pian piano, ma prepotentemente, salgono nel mio animo. I piedi però camminano su una superficie estremamente compatta. Saranno solo favole, tanto per costringere i viaggiatori a servirsi di guide nomadi. Questo pensiero mi rincuora e scaccia dal mio cervello i fantasmi della paura. Ora cammino su placche un pò più contorte, con i bordi rilevati come delle foglie rinsecchite.

Cammino con le ginocchia che sono un pò meno dolenti. Guardo tra i piedi, mi volto indietro… anzi davanti…anzi di lato. Non so più dove mi volto. Solo il sole mi dice la verità. I sensi non servono più a nulla. L’aria ed il vento sono carichi di sale. Si inspira il sale, si respira un caldo micidiale, una fatata atmosfera,  come mai mi è accaduto, ne in montagna, ne nei deserti. Avevo avuto ragione a venire a vedere, quello che mi aspettavo non è neppure l’ombra della realtà. Sembro l’attore protagonista in  un film di favole.

Ora comparirà sicuramente la fata, o lo stregone. Il vento  muove leggermente un’aria che altrimenti stagnerebbe, costringendo ancor più il caldo a comprimere la superficie salata. Tutto sembra attendere da millenni qualcosa che dovrà avvenire, o è già avvenuto. Una lieve brezza spinge l’aria contro il mio viso, ma non è sufficiente per alzare il mio aquilone al ritorno, per cui devo calcolare il tempo. Questo mi da fastidio, non sono più abituato a pensarla in questo modo, in termini di tempo.

 La mia mente rifiuta le costrizioni del “devo”. Ma purtroppo mi attendono due uomini e “devo” avere rispetto per la loro attesa. Non posso costringerli ad aspettare più del dovuto. In ogni caso è ancora presto. Non so quanti km ho percorso. Non porto il gps. Non mi interessa più nulla da molto tempo. Cerco di non distrarmi dai miei pensieri. In futuro tornerò per traversare tutto lo Chott e devo sapere come reagirò, devo sentire cosa queste lande inospitali e mortali ispirano al mio animo. Solo così posso esser sicuro di riuscire. Solo così saprò che non potrà succedermi nulla. Non devo costringere il mio corpo  e la mia mente a viaggiare in un elemento estraneo. Devo essere assolutamente in armonia con questo panorama minerale. Qui neppure i batteri sopravvivono. Tutto è assolutamente morto, sia di giorno che di notte. Qualche raro insetto giace esanime sulla superficie salata.

 Io sono l’unico essere vivente che inquina la perfetta sterilità della superficie e delle profondità. Speriamo che i folletti dello Chott (che sono molti) mi concedano il loro favore. Mi sento estraneo, non va bene. Non riesco ad entrare nello spirito dello Chott. Mi sento come un’alpinista che “sfida” la montagna e non è nel mio carattere. Forse è lo Chott che mi parla e che mi ammonisce a non continuare. Lui non gradisce le sfide. Provo a dirgli che camminare sulla sua superficie non è una sfida, è solo una carezza sulla sua ruvida schiena, ma nulla cambia dentro di me. Ancora “so” di essere un misero umano che sfida l’invincibile drago addormentato e non posso modificare la mia condizione. Forse è semplicemente l’ora di tornare indietro, forse la prossima volta lo Chott si sarà abituato alla presenta di un fragile insetto e mi permetterà di arrivare al di la dei sogni. Ma ora mi sento a disagio ed il disagio aumenta man mano che passa il tempo.
Mi volto indietro per vedere la strada che dovrò ripercorrere. Non si vede nulla, neppure l’orizzonte è visibile, confuso com’è tra il cielo e il sale. Tutto è di un abbacinante bianco sporco. Provo a togliere gli occhiali, ma le radiazioni sono terribili. Subito gli occhi soffrono per la luce e per l’atmosfera carica di sale che brucia le congiuntive come il succo di limone.
Le monotone placche di sale si stendono fino alla fine del mondo, davanti e dietro di me, lungo il percorso del ritorno. Tutto è uguale a se stesso, ma guardando bene  noto una piccola scia perfettamente diritta. Gioisco nel vedere un riferimento che potrò seguire al ritorno, ma poi subito mi rendo conto che non sono altro che le mie tracce.

Non sembra un grande male . Ma non è così. Se ho lasciato delle tracce significa che il terreno si fa più morbido e questo mi allarma. All’inizio il terreno era duro come marmo e non c’era la benché minima possibilità di lasciare tracce su di esso. Da quanto tempo ci sono le tracce? Non lo so. Faccio un centinaio di metri indietro e noto che le tracce diventano sempre meno profonde sulla via del ritorno. Devo essere assolutamente circospetto. Non sarebbe bello sprofondare nel sale. Si dice che il sale si richiude subito sopra i malcapitati, ma io tento sempre più inutilmente di non crederci. Cammino ancora per circa un km su terreno abbastanza solido, poi faccio qualche passo ancora e tutto cambia.

La crosta è diventata improvvisamente un fango colloso in cui, se non  avanzo con velocità e decisione,  sprofondo lentamente, ma inesorabilmente. Una esile superficie bianca nasconde una inquietante melma nerastra che sembra la porta delle profondità dell’Ade. Torno subito indietro prima che sia troppo tardi. Mi fermo con il cuore in tumulto quando il terreno diventa di nuovo solido e mi sposto alla mia sinistra per circa un km a poi avanzo nuovamente. Tutto torna normale per circa mezz’ora. Ora il terreno è addirittura più solido dell’inizio. Meno male. Un rumore sordo, come un vetro rotto mi fa trasalire. Non riesco a capire cosa sia stato, forse un aereo di passaggio sopra la mia testa. Ma il rumore non veniva da sopra di me, veniva da dentro di me. Un altro rumore, appena un cricchiolio. I miei piedi sono instabili.

 Una placca di sale affonda in toto facendo risalire la salamoia. Sono su una minuscola isola galleggiante. Mi fermo…..lo Chott mi aveva avvertito ed io non avevo ascoltato i suoi consigli. Offuscato della mia mentalità occidentale che non vede al di la del proprio egoismo, non avevo saputo interpretare gli ammonimenti che nell’ultima ora lo Chott cercava inutilmente di farmi comprendere.
Farò ancora in tempo? Al momento di avanzare, la placca diventa ancora  più instabile. Non posso cadere. Se si dovesse rompere forse affonderei nella salamoia. Quanto sarà profonda? Certo che non è facile affogare data la salinità assoluta, ma le placche potrebbero richiudersi, come si narra nell’oasi. Ora tutte le leggende diventano realtà e mi faccio piccolo e leggero per fuggire alla trappola tesami dallo Chott.
Dieci passi, venti, percorsi su una superficie che si apre man mano che avanzo, poi con una strana sensazione, poggio il piede su una placca ferma e poi su un'altra ed un'altra ancora. Sono al sicuro.

Sono sudato e con le gambe stanche per la tensione. Piccoli crampi stanno per aggredire il polpaccio di destra. Mi siedo, massaggio e la sensazione scompare. Ora non posso più far finta di non aver capito. Devo tornare indietro. Seguo fin quando posso le mie tracce, poi esse scompaiono e regolo la mia posizione rispetto al sole. Chissà se tornerò ancora, forse non si può traversare lo Chott. Forse basta cambiare il percorso. L’errore è stato quello di voler traversare al centro, li dove il lago è più largo. Probabilmente si dovrà aggirare il centro del lago, dove ancora i millenni non hanno prosciugato l’acqua e fare un largo giro che allungherà ancora di più il già duro percorso. Ma forse invece basterà semplicemente tornare quando gli spiriti del deserto saranno più favorevoli.

Come al solito mi lascio guidare dal mio istinto e dopo alcune ore compare la costa all’orizzonte e pian piano il carretto appare, con i due uomini che mi vengono incontro festanti. Mi salutano con calorosi abbracci e solo allora capisco cosa vogliono dire quei saluti. Loro conoscono lo Chott da quando sono nati. Il più anziano avrà circa 65 anni. Gli racconto tutto chiedendo consigli per la prossima volta. Egli candidamente mi confessa che non mi aveva detto nulla per veder cosa sapesse fare uno straniero nello Chott. Mi da grandi manate sulle spalle poi mi chiede se ancora ho dell’acqua dato che loro non ne avevano portano. Ancora ho circa un litro nella bottiglia e lo offro con gioia. Beve prima il più anziano, poi il più giovane con avidità, poi la ridanno a me e solo dopo aver chiesto se ne volessero ancora, scolo fina all’ultima goccia. Allora miracolosamente entro nelle loro grazie. L’anziano mi racconta che solo qualcuno, nell’oasi, in tempi passati si è avventurato al centro del lago. Qualcuno non è più tornato, lui lo aveva addirittura conosciuto. Molti animali sono scomparsi nel sale. Tanti anni fa, quando era più giovane, seguendo dei cammelli fuggiti, si era inoltrato nel lago più o meno fino al punto dove ero arrivato io, poi era tornato indietro. Per andare al di la bisogna  fare un largo giro evitando il più possibile il centro. Quando tornerò dovrò cercare di lui (tanto è conosciutissimo a Tozuer) ed egli stesso mi accompagnerà fino a dove potrà e mi darà, solo allora, preziosi consigli. 

 Gli descrivo le mie sensazioni e mi accorgo che mi guarda con rispetto e di questo sono orgoglioso. Gli racconto la mia traversata dell’erg Ghilane ( Cfr: "Le dune e l'aquilone" in questo blog),  che lui conosce perfettamente perché spesso, in passato, ha rifornito l’oasi di Ksar Ghilane con la carovana. Rallenta l’andatura del cavallo e si capisce perfettamente che vuole continuare il discorso.


Siamo nel palmeto di Tozeur, il sole si appresta al tramonto. L’aria è calma e l’ombra delle palme dona una freschezza meravigliosa. Procediamo lenti e parliamo, in francese, del deserto, delle tempeste, delle sabbie, delle dune. Si infervora quando racconta delle traversate con le carovane che ora sono scomparse, inghiottite dalla civiltà e non dal sale degli Chott.   Sa che io comprendo, che condivido con lui il brivido del deserto e questo gli fa estremamente piacere.

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