mercoledì 2 maggio 2012

AIN KID, L'OASI PERDUTA


" Una volta preda dell'incantesimo dello sconfinato, luminoso, muto paese, nessun luogo è per lui abbastanza intenso, nessun altro paesaggio può fornirgli la sensazione estremamente appagante di esistere nel mezzo di qualcosa di assoluto. Ci tornerà, a costo di qualunque spesa e di qualunque disagio, poiché l’assoluto non ha prezzo. "

Molte volte mi sono chiesto se il deserto sia  così bello come sembra a me.   Ogni volta
ho avuto una semplice risposta. Un’amante è così bella?   Certamente, ella è   sempre la
più bella. Non importa se è veramente bella, lo è per noi. Null’altro conta.
Cosa è per me il deserto? Basta dire che esso è bello? No. Non credo questo. La cosa è troppo semplice.  Tutta una serie di coincidenze, nella mia vita, condite e potenziate dal mio carattere, hanno fatto si che il mio animo avesse bisogno di qualcosa che non sapevo di anelare finchè non l’ho visto per la prima volta. E questo qualcosa era il deserto. Nelle mie misere traversate non porto con me il telefono, trasmettitori. o gps.  Fino a qualche anno  fa neppure la bicicletta. Parto solo con un paio di pantaloncini, scarpette e copricapo beduino e i miei fidi bastoncini.  Qualunque attrezzatura che permetta un minimo di aiuto mi fa sembrare essere un baro. Non posso farci nulla, quello che si sente nell’animo non si può nascondere, non si possono nascondere o pilotare i propri sentimenti. Quello che prova il nostro cuore non può essere comandato, esso lo fa e basta.
“ Ma l’amore non è nella vita o nella morte
L’AMORE E’……. E BASTA…..”.
Lo scriveva Filippo prima di scendere per l'ultima volta nella sua grotta. (Cfr: "FILIPPO" in questo blog).
Il vuoto del deserto è lo specchio della mia anima, per questo mi sento a casa mia.
La scelta del mese di luglio ed agosto non è casuale. In quei mesi il deserto è inaccessibile, il caldo è mortale. Esso può facilmente uccidere un fragile uomo, ma non è questo ciò che cerco. Non è la sfida che mi attira, da tempo ho smesso di “sfidare” la montagna o la natura, anzi forse non l’ho mai fatto.  Non è la difficoltà del percorso che imprigiona il mio volere. E’ soltanto che solo in quelle condizioni estreme io mi sento a mio agio. So che probabilmente è una condizione psicopatologica, ma non ho potere sulla mia mente:  “l’amore è… e basta”. E’ inutile spiegarlo.
Cerco la solitudine. E’ facile trovarla nel deserto, ma poi essa mi schiaccia e mi distrugge. Io che non avevo mai cercato compagnia in passato, ora nel deserto anelo una voce che mi consoli, che capisca i miei bisogni. Mi piace sentirla nel vento e nella sabbia che scorre sul terreno. Suoni irreali che la mia mente traduce in parole precise.  Le sento nelle notti illuminate dalla luna, quando me ne sto sdraiato con gli occhi al cielo. Le sento quando i miei reni non hanno più nulla da filtrare, quando i miei occhi vedono il mondo come attraverso un cellophane ondeggiante. E mi piace sentirle, quelle voci. Esse  mi parlano e tutto mi sembra facile e bello, ma  poi il sole tramonta, il vento cala, il caldo lascia il posto ad una frescura vivificante e tutto scompare. Il paese, al ritorno, segna il confine delle mie sbarre. E sono costretto a rientrare nella gabbia da cui so che potrò allontanarmi ancora solo in quegli istanti.  Le mie strutture meccaniche sono inesorabilmente avviate verso una distruzione progressiva per via di una grave artrosi e quindi ho drasticamente ridotto il mio “territorio”. Ognuno di noi ha un “territorio” in cui si muove come se stesse nello stesso posto. Per me una catena di monti era il “territorio”. 50 km di corsa, in salita, erano lo “stesso posto”. Da molto tempo tutto si è progressivamente ridotto alla dimensione di un quartiere, e quel che è più grave, continua a restringersi. La bicicletta è stata una scelta forzata, una sorta di "sedia a rotelle".  Oggi non potrei camminare neppure per 30 km, neppure al fresco. Fingo a me stesso di poter tornare da qualunque luogo in caso di rottura della bicicletta, ma non è vero. Senza di essa la mia autonomia credo  sia ridotta a pochi km, nel deserto. Quando sono in città penso sia così, ma quando poi sono nel deserto, il dott. Jeckill si trasforma in mr. Hide che potrebbe tornare dai luoghi più oscuri del proprio inconscio, non solo dalle più lontane lande infernali. Il sole stenta ad illuminare il cielo.

                  ( Il Wadi Umm Adawi si trova nel protettorato di S.Caterina)
La Luna non vuole cedere il primato della luce. Pedalo tra la luce del mattino e le ombre della notte, nello  wadi Umm Adawi.
Il suo sbocco mi appare all’improvviso come un’imbuto davanti alla pista. Alla mia destra lo wadi corre verso la costa, lontana circa 25 km, attraversando catene e catene  di monti, posizionate in interminabili file. Alla mia sinistra lo wadi si inoltra nel Sinai puntando verso le alte pareti dapprima del gebel Barakat e poi del gebel Sabah e del gebel  Gazala tra le cui gole si annida l’oasi di Ain Kid a cui si accede però da un'altro wadi che inizia molto più a nord (wadi Kid).  E’ questo l’unico pozzo della zona e questa è la mia meta. Certamente è lontana, più lontana di quanto si possa immaginare, ma devo arrivarci se voglio rifornirmi di acqua. Il percorso non è duro. E’ in lievissima salita, ma la pista dovrebbe essere ben tracciata e quindi veloce. Purtroppo non so se c'è un valico percorribile tra il wadi Umm Adawi ed il wadi Kid e comunque non ho una cartina, quindi l'unica indicazione è quella del  beduino del bar.( Cfr: WADI MANDAR in questo blog).  Quello che è cambiato in me sicuramente è il concetto del tempo. Nel mondo civile si dice  10 o 20 o 30 Km/ora.... Ora.... Si! Qui la parola “ORA” non ha alcun significato. Come potrebbe? Nelle dune del grand Erg ho incontrato dei nomadi che si dirigevano verso dei pascoli ed un pozzo distanti più di 100 km, camminando con alcuni cammelli e qualche decina di minuscole caprette. Per loro il tempo non aveva nessun significato. Solo così la distanza non esiste, tutto è vicinissimo. La distanza è solo quella che il cammello decide di percorrere ed il tempo è solo quello che il cammello sceglie di trascorrere. Ogni giorno è uguale all’altro, quindi cosa significa domani? Ogni posto è simile all’altro. Mi hanno invitato a sedere con loro ed è stato tutto inutile cercare di spiegare che il “tempo correva” e che dovevo continuare. Che differenza fa “oggi” o “domani”? "Chi si dovrebbe preoccupare per te se stai nel deserto?". I nostri concetti del tempo sono sconosciuti ai nomadi, solo noi possiamo convivere con questi concetti nella stessa gabbia e non impazzire. O forse impazziamo anche noi, solo che non ce ne rendiamo conto. La pista si inoltra nello wadi proprio in corrispondenza di un villaggio beduino, che poi non è altro che una lontana periferia del villaggio Mandar. Le prime luci del giorno illuminano lo wadi esattamente nel centro.

Le prime capanne si animano, i primi cammelli gridano all’intruso che passa , e che ha disturbato il loro sonno. Più che un villaggio si tratta di capanne sparse che continuano nello wadi per molti km. Ogni più piccolo angolo di roccia, ogni pertugio ha la sua capanna con relativo stazzo in cui sonnecchiano smagriti cammelli, i più malandati cammelli che mai abbia incontrato fino ad ora. Ho portato solo una macchina fotografica e, purtroppo, ho  un solo rullino, peraltro già iniziato, quindi posso fare solo alcune diapositive. Ben presto finiranno e non avrò documentazione fotografica di tutto il tragitto. In una capanna una donna sta già cucinando della carne. Passando mi avvicino, saluto ed appare un uomo, anch’egli perfettamente adatto alla disperata magrezza dei cammelli. Mi invitano ad avvicinarmi, mi dice qualcosa che ovviamente non comprendo. Davanti la tenda è acceso un fuoco e della carne cuoce sopra di esso. Il fuoco è alimentato non da profumata brace di legno, ma da sterco di cammello e, quel che è più grave, da pezzi di pneumatico che diffondono un’odore nauseabondo e sicuramente venefico.

Saluto con tutti i salemelecchi del mio repertorio arabo e mi allontano, inseguito da tutti i bimbi che intanto si sono svegliati. Man mano che procedo le tende diventano più rade, finchè l’ultima tenda scompare dietro di me.  Rade acacie corrono ai fianchi della pista la quale, dapprima ben pedalabile,  è diventata molle e cedevole, con minuscolo brecciolino che fa affondare le ruote.  Proseguo per molti km intanto che il sole ha iniziato la sua giornaliera opera di distruzione degli esseri viventi. Alcune mosche mi ronzano attorno, ma quando la temperatura supera i 45 gradi esse scompaiono, rifugiandosi in qualche fresco pertugio.  Alcune nuvole alterano la perfezione monotona del cielo, mentre pedalo verso un’oasi immaginata ma non identificata con certezza.. So solo che sta in una certa zona, ma non ho la minima idea di come ci si arrivi e se ci si arrivi dallo Wadi Umm Adawi.  Mi fermo sotto un’acacia particolarmente folta e mangio i miei panini di datteri e formaggio.  Mi lascio trasportare dall’idea di fermarmi qui a riflettere. Vicino all’acacia scopro una zona  tra le rocce che nasconde quasi una costruzione umana.

Uno stazzo naturale di massi, quasi un Cromlech, è addossato ad una parete che come spesso succede, sorge improvvisamente dal terreno. Un’incavo gigantesco è scavato per qualche metro nella parete e davanti ad esso il recinto monolitico abbellisce un’acacia ombrosa. E’ un luogo di sogno, potrebbe essere una villa gentilizia, il posto in cui fermarsi, anche per la notte. Che senso ha continuare? Perché devo ancora andare avanti? Per pensare? Per finire l’acqua e soffrire ancora una volta di vertigini e di allucinazioni? Ma sono sicuro che qui, al fresco dell’ombra rocciosa, coloro che stazionano nella mia mente possano parlarmi ed io sia in grado di udirli? Oppure il mio inconscio si chiuderà in un mutismo invincibile? So già le risposte. Non mi resta che partire, il tragitto è lungo e sconosciuto. Ancora la pista è composta di brecciolino simile a grani di miglio che sfuggono di sotto le ruote, poi una curva a sinistra mi immette in una zona caotica. Massi strani sono sparpagliati nella zona pedemontana. Mi avvicino e scopro che si tratta di una cava abbandonata. Chissà se si tratta delle famose cave del Sinai utilizzate dai Faraoni. Ora lo wadi si allarga ed un’enorme torre si innalza al suo centro, mentre la valle lo aggira a destra ed a sinistra.  Lo supero alla sua sinistra, sotto un parete verdastra e precipite su di me. Monti altissimi mi sovrastano, essi superano i 2200 m. ed io mi trovo appena a 350 m. di quota. 2000 m. di parete giganteggiano sulla mia sinistra ed io posso passare dalla pianura alla parete in pochi metri. La pista si perde nello wadi e di fronte a me non c’è sbocco. Forse una piccola uscita potrebbe essere possibile alla mia destra. Per terreno vergine ed inconsistente mi avvio in quella direzione mentre il sole ha raggiunto il suo vertice ed infuoca l’aria che non si muove. Anche oggi tutto è immobile, l’aria ha un sapore dolciastro, con componente ferrosa, ma forse è solo la mia saliva che inizia a concentrarsi e ad assumere un sapore innaturale. Provo ad ingoiare, ma come mi aspettavo ho grave difficoltà a deglutire. Mi fermo e bevo abbondantemente. Porto tanta acqua, ma deve bastarmi per arrivare ai pozzi o per tornare indietro. Le orecchie mi pulsano e odo sibili e fischi. Solo fermandomi essi diminuiscono d’intensità. Conosco già questi disturbi e non me ne preoccupo. E’ “l’inspissatio sanguinis” cioè il sangue che aumenta la sua densità in virtù della mancanza di soluzione diluente e quindi fa fatica a circolare. Il termometro sale inesorabilmente, come sempre, e come spesso succede, tra le gole l’aria è immobile. Anche oggi si superano presto i 50 gradi e, per la prima volta, gocce di sudore colano sulla mia fronte. Non è un buon segno, significa che l’umidità è aumentata e quindi presto la sensazione di caldo sarà più evidente. Anche sulle braccia perle di sudore compaiono riflettendo i raggi del sole come piccoli specchi.
Il sudore rimane sul corpo e non evaporando non disperde calore in maniera efficiente. La temperatura del corpo sale ed un colpo di calore è sempre in agguato. Nel deserto il colpo di calore equivale all’edema polmonare degli ottomila metri. Questa è l’unica cosa che temo, nel deserto. Qualunque cosa possa succederti si preannuncia, il colpo di calore no. Ed è una condizione estremamente grave. Mi sento bene e le gambe pedalano con lena nello wadi che corre in pianura su una traccia di pista a tratti molle ed a tratti dura come l’asfalto. Mi scortano immense pareti, ributtanti calore e vertigini. Non vedo la possibilità di passare, la valle piega verso destra in una curva continua. Seguo lo wadi che sembra un’anaconda serpeggiante tra le montagne, mentre a sinistra si apre uno spiraglio di passaggio. I monti lasciano il posto alle colline, rosse e terrose, profondamente erose dai millenni. Ora lo wadi gira ancora a destra e pare dirigersi verso est, verso la costa, allargandosi e stemperandosi nella pianura. Non è questa la mia direzione, devo tornare indietro e cercare un altro passo. Riprendo le mie tracce e seguo una zona pedemontana che sale in un passo terroso tra una collina e le montagne che diventano sempre più simili alle nostre dolomiti. Credo che le mie forze stiano iniziando a scemare.


 Salire il passo, un po pedalando ed un po spingendo, mi toglie ulteriori energie. Ho il viso congestionato ed il cuore in tumulto, le gambe sembrano d’argilla. I pedali sono diventati come massi inamovibili. Finalmente la sella ed al di la un wadi enorme,  corre da destra a sinistra. L’oasi deve essere li dove si inoltra e scompare tra i monti che diventano sempre più alti. Infatti mi sto avvicinando alla zona del Sinai più impervia ed alta, che culmina con il gebel Katharina (2642 m.) ed il gebel Abu Rumeil (2612). Intravvedo un monte, di lontano che svetta su tutti, deve essere il gebel El Kalla (2543). Se la mia supposizione è esatta dovrei trovarmi sulla rotta giusta, altrimenti non ho la più pallida idea di dove mi trovi in questo momento.
Scendo con cautela su terreno inconsistente e caldissimo. La polvere si innalza impalpabile e penetra rovente nelle narici. Piccoli sassi sono immersi nel terreno e rallentano la discesa della bicicletta. Le ruote, frenate, ora scivolano aumentando il turbine di polvere, ora si bloccano improvvise su un sasso e vengo proiettato in avanti e solo con miracoli di equilibrio rimango in piedi. Del resto scendere a piedi sarebbe ancora più faticoso, quindi cerco di mantenere il precario equilibrio e in breve tempo raggiungo la piana.

Ora devo solo seguire il terreno che mi porta verso una valle stretta ed angusta che si profila all’orizzonte. Gli orizzonti si succedono agli orizzonti. Le loro linee, ora nette e pure, ora tormentate e frastagliate sembrano quasi scenari di un teatro che vengono tirati in alto ed in basso secondo esigenze di scena. Ed io sono la marionetta che si agita ai comandi del burattinaio, sale e scende tra i monti e le valli, suda e fatica credendo di avere una propria volontà e non sa che forse è invece tutto scritto, come dicono gli islamici. Traversare queste lande sconfinate e riarse dal sole ci fa pensare come i profeti dell’antichità. Forse veramente tutto è scritto, noi ci affanniamo e preoccupiamo, mentre già tutto è deciso. Noi crediamo di gioire e soffrire, noi ci sforziamo di amare o odiare, ma siamo solo marionette.
Nel deserto questo mi appare come una realtà ineluttabile. E’ inutile contrastare ciò che già è scritto, bisogna solo accettarlo e sopravviverci.
Pedalo quasi senza più acqua, l’oasi non dovrebbe essere lontana, quando, improvvisamente odo un rumore lontano ed una nuvola di polvere si avvicina. Man mano che procedo indovino un convoglio di 4x4, poi un altro ed un altro ancora.  Un tuffo al cuore mi fa fermare…..Quanta gente!
                   L'oasi di Ain Kid......mai raggiunta (sheikhsin.com)
E per di più quante scatole di latta semoventi!! Sono una miriade di turisti che non hanno i benchè minimo rispetto per il silenzio. Mi fermo, scendo dalla bicicletta per sgranchirmi un po le gambe e poi, senza una vera e propria decisione, quasi per un volere a cui non posso oppormi, risalgo, volgo la faccia al sole e torno indietro. Non torno indietro...FUGGO !
Non posso risalire il passo, sarebbe un suicidio, non ne avrei più la forza. Scelgo di aggirare le colline alla destra e rientrare nel wadi Umm Adawi da un posto più accessibile, se esiste . Sono molti km in più, ma il terreno è pedalabile e tanto non c’è scelta. Mal che vada potrei seguire la pista e rientrare nella strada asfaltata, anche se non ho la più pallida idea di quanto sia distante.
Tornare indietro….è stato un bel gesto…un gesto melodrammatico. Ma il problema diventa serio quando mi rendo conto di avere solo mezza bottiglia di acqua e di aver accumulato un notevole debito idrico di cui non mi ero reso conto.
E’ inutile descrivere per l’ennesima volta il ritorno in condizioni di riserva idrica. Un solo pensiero alligna nella mia testa: acqua, acqua, acqua e ancora acqua. Che farei se con me ci fosse qualcuno?! Non riesco a ricordare il viso delle persone che vorrei stessero qui con me. Per quanto mi sforzi non ci riesco e questo fatto mi turba e mi preoccupa. Ma lo wadi è in discesa, non me ero reso conto all’andata. La bicicletta corre veloce. La labbra impastate e la faccia congestionata non fanno di me un bello spettacolo, ma devo fare una certa impressione ai nomadi quando mi incontrano vestito solo di un pantaloncino, loro che si vestono completamente per sfuggire ai raggi del sole. Devono credere che sia un pazzo ad offrire come un agnello sacrificale tutta la mia pelle ai raggi micidiali, ma io non soffro minimamente di ciò. La mia pelle scura mi protegge efficacemente seza bisogno di protezione.
Ecco la cava, una misera salitina mi da il metro della mia disidratazione, inchiodandomi al terreno.  Pensavo di rifornirmi di acqua all’oasi, ma sono tornato senza raggiungerla. Ecco le prime capanne. Ora possono anche presentarsi i crampi, tanto sono arrivato al villaggio. Ancora 30 km per la costa, su asfalto e altri dieci per arrivare a Sharm, ma in caso di necessità qualcuno può accompagnarmi con la macchina. I beduini sono estremamente ospitali, specialmente quando si da loro una lauta baikshish e cioè una  mancia. Passo le prime capanne e mi inoltro nel villaggio.
                                 il ...bar (?).....
Poco lontano c’è il bar, chiamiamolo così. La strada che mi porta dal mio amico è aperta. Mi scorge da lontano ed alza le braccia e grida per richiamare la mia attenzione. Mentre mi avvicino noto che sta già preparando il tappeto e sta chiamando una folta schiera di bimbi. Quando arrivo già ci sono le bottiglie di acqua che mi aspettano. Scendo con difficoltà dalla bicicletta e percorro i pochi metri con le gambe legnose. I bimbi si sono già accomodati sul tappeto ed aspettano che mi sieda. Il barista mi invita a sedere e quindi si accomoda vicino a me mentre due più piccoli vorrebbero sedersi tra le mie gambe. Tutti mi parlano una lingua incomprensibile, ma io rispondo come se sapessi cosa mi stanno dicendo. In silenzio ascoltano il mio racconto, condito con ampia,  scenografica gestualità. Devo mimare la pedalata, le cadute, il sudore che mi oscura la vista, lo stupore per i paesaggi......
Qualcuno ride, altri danno chiari segni di divertirsi un mondo, tanto che qualcuno vuole che ripeta qualche passo.  Forse è per questo che sono venuto nel deserto…..










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