domenica 1 aprile 2012

RITORNO AL SINAI


                       E qui sono tornato, a respirare la libertà e la solitudine di cui ho tanto bisogno. Non aspettavo che di partire e di perdermi nel nulla del Sahara. Sahara significa nulla ed avevo bisogno del nulla dopo un anno passato con i problemi di tutti i giornisempre più pressanti .  La vita mi stringe come un cappio ed ora parto con la speranza di liberarmene o almeno di capire come farsi strozzare.


Ho l’intenzione di andare a piedi i primi giorni e poi affittare una mountain bike, con cui spero di avere la possibilità di muovermi più agevolmente.  Parto subito, tanto per saggiare il clima e con me è Filippo che non tornerà più nei giorni successivi.   Forse, memore dell’anno scorso, non vuole correre rischi inutili, anche in virtù della bella ragazza “accallappiata” recentemente. Saliamo un canalone infuocato ed arriviamo al valico. Da lì intravvedo la possibilità di scendere, ma il cammino non è sicuro e sarebbe oltremodo faticoso tornare sui nostri passi. La temperatura si mantiene sui 44.5 gradi all’ombra e quindi decidiamo di scendere. E’ una bella gita “fuori porta”, ma mi è servita per riadattarmi al caldo che ho sofferto molto.  Mentre salivamo ho visto alla mia destra un canalone incassato tra pareti a picco, ma ho preferito continuare sul più facile canalone per non far correre rischi a Filippo. Vi tornerò nei giorni successivi…..

Non è stata una gita faticosa, ma abbiamo fatto un bell’incontro. Mentre salivamo, nella pianura, abbiamo incontrato un pastore con il suo gregge. Scendeva dai monti piegato sotto un enorme fardello. Indossava la galabija di Mosè. Il tempo per lui non era trascorso. Ci ha visti e si è fermato. Io l’ho salutato di lontano, mentre ci avvicinavamo. Anche lui ci ha risposto. Ha lasciato l’immane lenzuolo ed ha aspettato che ci avvicinassimo. Aveva la pelle bruciata e riarsa dal sole, enormi rughe scavavano il suo volto fiero, sembrava un vecchio, ma di questo non ero sicuro. L’incontro è avvenuto con enormi strette di mano alla maniera beduina, abbiamo parlato un po scambiandoci i nostri nomi e il tragitto che avevamo l’intenzione di percorrere. Ci siamo accomiatati con i soliti abbracci. Ha riposto il suo fardello sulle spalle e, curvo sotto il peso, ha ripreso il  cammino nella piana infuocata……

Avevo con me la macchina fotografica, ma ho scattato solo delle foto con il teleobiettivo, da lontano, rubando un po’ della vita del pastore, a sua insaputa. Comunque il giorno successivo ho smarrito il rullino nel deserto, dopo averlo cambiato e riposto nel suo astuccio. Così sono andate perse 36 magnifiche diapositive. Per quello che riguarda le foto bisogna aprire un piccolo sipario.  Io non ho mai portato la macchina fotografica, in passato. Ora che vorrei documentare a me stesso quel poco che mi è rimasto da fare sembra che il destino si accanisca per impedirmelo. Dopo lo smarrimento del rullino, il caldo ha fatto il resto. L’esposimetro della macchina è completamente impazzito nel crogiuolo dei giorni successivo, quando ha raggiunto i 58 gradi all’ombra, ed ha indicato come correttamente esposte quasi tutte le foto, quando invece erano chiaramente sottoesposte. Molte sono quasi nere e quindi inutilizzabili. Il caldo inoltre non mi ha permesso di utilizzare il cavalletto perché le zampe non sorreggevano più alcun minimo peso ed infine il cambio degli obiettivi era sempre un’incognita. Una volta svitati ( attacco a vite) spesso, non si riusciva ad avvitarli perché forse la dilatazione termica differente tra gli obiettivi e la macchina alterava la congruenza degli stessi.

Inoltre non ho mai fotografato i beduini che ho incontrato nel deserto e nei villaggi per due ragione. Uno per una sorta di rispetto verso di essi, l’altra perché ormai i beduini hanno avuto contatto con il popolo “civile” e quindi la loro leggendaria ospitalità è molto scemata, giustamente. Io che provenivo direttamente dal deserto non potevo comportarmi come un turista, altrimenti sarei stato trattato come un turista. Ed ho avuto ragione, come vi racconterò.

Il primo giorno era passato velocemente, ma il deserto ed i monti sono altri e sono lì ad aspettarmi.

Prendo il solito taxi per saltare i 5 km di strada asfaltata e scendo vicino al villaggio beduino. Ecco la prima sorpresa, il villaggio non c’è più. Ora stanno costruendo delle villette.

Non c’è più l’allegro belare degli armenti, le caprette non saltano più ed i cammelli oziosi sotto il sole sono scomparsi. Stanno sorgendo i primi negozi ai bordi di una larga strada asfaltata.
(Ndr. Lo stesso posto nel 2010. Oggi si chiama "El Mantrac")
Il deserto però reclama i diritti sui suoi territori e le villette si arrestano ben presto sul bordo dello uadi. Parlo con alcuni muratori al riposo mentre il sole picchia implacabile. I beduini sono stati sfrattati ed ora vagano nelle desolate distese del Sinai. Con quali diritti la civiltà si arroga  la facoltà di decidere della vita di uomini che sono lì da millenni?  Il Sinai è la loro terra, ogni punto del deserto è casa loro. Mi sento stringere la gola per la tristezza, ma è forse perché da qualche tempo non sono più forte e qualunque emozione è moltiplicata per cento.  Non posso passare dentro quell’ammasso orribile di costruzioni, preferisco proseguire per la strada asfaltata che punta verso nord.  

 Passano alcuni km pensierosi, poi esco di strada e mi dirigo  a ovest, al magreb, nel nulla. Percorro uno uadi piatto per circa un’ora accompagnato da lontano dal rombo orribile delle moto del deserto. Finalmente scompaiono ed il mio orecchio si riempie del rumore del silenzio.
Il fondo dello uadi è breccioso e quindi il cammino non è agevole. Rare acacie si abbarbicano alla vita sotto rocce infuocate.

 È l’unico alimento per i cammelli e non sono ancora riuscito a capire come facciano per mangiare le spine senza pungersi il palato. Sono spine lunghe anche 10 cm, durissime ed acuminate, che non hanno nessuna difficoltà a penetrare completamente nelle suole vibram degli scarponi, fino ad arrivare ai piedi.. Il suolo cedevole nasconde le spine come delle mine in un campo. Basta passarci sopra ed ecco pungersi anche se si portano i più duri scarponi.
Ma i cammelli le mangiano…….e ci vivono.

                                             IL WADI DAGILAT
Sono partito senza acqua e senza Gps, senza bussola e senza cartina.
(Ndr. Da questo momento non porterò più gps, telefonino o cartine topografiche, dovunque poi sia andato)
 Devo andare solo con il mio istinto. Non voglio sapere dove vado ne dove arriverò. Non tornerò per la stessa strada, sarebbe troppo sicuro e per me non sarebbe interessante. Ho perso la mia proverbiale prudenza, ma in questo momento mi sento come a casa mia, sto nel mio ambiente, mi sembra di essere stato lì da sempre. Supero facili valichi tra verticali pareti ed entro tra le profonde valli del Gebel Wair. Le sue pareti incombono su di me, sembrano rocce e pareti di Corno Grande. Sotto le sue guglie rare tende beduine disabitate sventolano i loro pennacchi nel perenne vento del deserto.

Oggi la temperatura è salita. Il termometro segna 48 gradi all’ombra. Mi sembrano molti, ma non sapevo…..Incontro una capanna abitata. Si affacciano 5 bambini. La più piccola, di circa 4 anni, è bellissima e sta in braccio al padre. I suoi occhi magnetici  mi attraggono, le mando baci da lontano.


Il padre mi invita ad entrare. So che vorrebbe offrirmi qualcosa, ma taglio corto e saluto allontanandomi con sveltezza.
La loro povertà è troppo evidente e non potrei sopportare che mi offrissero qualcosa che a loro è prezioso.  Salgo velocemente un ennesimo valico.


Le valli si susseguono alle valli, le pareti alle pareti. Il caldo inizia la sua opera di distruzione. 49 gradi,  50,2 , 51.5 all’ombra.


Il vento mitiga un pò, ma nei canaloni cala un silenzio irreale. Ho bisogno di acqua, ma non la porto. Ha qualche senso questa sfida ? Perché ora ho bisogno di dimostrare a me stesso che posso ancora vincere il dolore, la fatica, la sete? Perchè  a me che non ha mai interessato la vittoria, ora ho bisogno di sfide?  Passo vicino a capanne beduine disabitate, ma con cammelli curiosi che si aggirano in un paesaggio desolato ed affascinante.


Un telo beduino teso tra quattro assi allo sbocco di una valletta
mi permette di riposare un po e di riprendere fiato.


Mi siedo sul tronco di una palma, all’ombra e dopo poco sto meglio, al punto che credo di poter salire sul canalone.
Mi avvio e tra balzi arroventati ( il termometro nella penombra ha superato i 60 gradi ed è andato in overange) arrivo su una sella affacciata su rocce rossastre.

 A terra trovo dei proiettili di fucile da guerra, in ottimo stato.



Tento di salire alla destra del valico, ma dopo pochi passi avverto una sensazione di imminente crampo alla coscia destra, seguito immediatamente dalla medesima sensazione al polpaccio sinistro. 
Provo a salire ma il bicipite femorale reclama e si contrae in un crampo doloroso che mi piega la coscia. Il caldo sta vincendo ed io mi trovo lontano dalla tenda abitata.

Scendo con circospezione ma anche il sartorio prova la  rappresentazione che reciterà più tardi, dopo essere tornato. Ogni tanto anche i flessori dell’avambraccio contraggono le mani che si stringono a morte sui bastoncini. Possibile che ho già esaurito il potassio? Stasera mangerò solo banane. Ora però non posso proseguire. Se i crampi dovessero aumentare sarò bloccato tra queste valli e la permanenza non farebbe altro che acuire il problema. Devo fuggire il più presto possibile prima che sia troppo tardi.   Non so se mi conviene tornare sui miei passi, per poter esser vicino alla tenda abitata, ma poi decido di proseguire seguendo una valle che sembra dirigersi dove credo di dover andare.

La valle presto si chiude, ma un basso valico permette di proseguire su un vasto wadi dove peraltro incontro tracce di fuoristrada.
In lontananza riconosco i due picchi gemelli del gebel Ruwesat el Nima.

Sono lontani circa 10 km, ma ora so dove andare e non c’è nulla che possa sbarrarmi il cammino. Mentre procedo cautamente per non stimolare ulteriormente i crampi, una piccola nube di polvere compare all’orizzonte.
Si avvicina ed io riconosco una jeep che segue una flebile pista. Poi cambia strada, esce dalla pista e si dirige decisamente verso di me. Si ferma e scendono due giovani beduini. Ci fermiamo a parlare del più e del meno, come è d’uso tra le genti del deserto, senza fretta. Poi ci scambiamo i nostri nomi e quindi comunichiamo la nostra intenzione. Io dico che oggi il deserto è particolarmente caldo, che provengo da molto lontano, ma non  avevo certo bisogno di sottolinearlo. Le labbra hanno una patina bianca che le incolla e che io tento di togliere ogni pochi minuti, senza risultato.

I miei occhi lacrimano per il riverbero nonostante gli occhiali. “el ma?” acqua? Mi invitano a bere. Mi schernisco dicendo che ormai sono arrivato, ma non è vero, mancano ancora almeno 10 km su una piana terrificante. La mia dignità mi impedisce di gettarmi sull’acqua ed inoltre non so che acqua vogliono offrirmi, magari è l’acqua salmastra di un pozzo, con potabilità al limite di cammello.
Insistono, ma io non cedo. Allora vanno posteriormente e sollevano il telo del cassonetto. Sotto è nascosto un frigorifero. Non è un miraggio. E’ proprio un frigorifero. Lo aprono ed appaiono decine di bottiglie di acqua minerale, di coca cola e di aranciata. “ Acqua no?” mi sfidano. Non posso rifiutare, sarebbe un’offesa per loro ed un supplizio per me. I crampi sono sempre più pressanti. Prendono una bottiglia di acqua “Baraka” ben ghiacciata. In arabo “baraka” significa fortuna, benedizione. Maometto aveva la “baraka”. Mai nessun nome è stato più appropriato.
Mi freno dal trangugiarla d’un fiato. Non posso dimostrare che sto morendo di sete ne tantomeno posso berla così ghiacciata. La lascio riscaldare sul cofano e quindi tiro fuori due miseri pounds, 1200 lire. I due uomini si arrabbiano alla mia insistenza. “La! La! Lahna Bedu ! No! No! Noi Bedu! Acqua regalo!” Il mio studio superficiale dell’arabo mi aiuta un po. Conosco tutti i discorsi di convenevoli tanto importanti tra i popoli del deserto e la conoscenza di dette frasi apre praticamente ogni porta. Mi accomiato da loro “Chucran, chucran! Allah ihenni-k! Bel’afya”. “Grazie, grazie, che Dio vi conservi in pace. Arrivederci!”  Mi allontano verso il sole morente nella sconfinata piana infuocata  sorseggiando la baraka, la benedizione.
Al ritorno mentre mi apprestavo a recarmi al bar per scolare i miei primi 6-8 litri serali ( che diventeranno poi 15-20 al mattino) improvvisamente il sartorio di destra si contrae e quasi mi fa cadere. Il crampo dura forse 5-7 minuti senza interruzione. Alla fine non posso quasi muovermi. Il dolore è fortissimo e non posso avanzare la coscia per camminare, speriamo nell’indomani. Ho deciso di cominciare a vedere quali sono i miei limiti in questo ambiente sconosciuto.

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