lunedì 23 aprile 2012

WADI SAHARA: pazienza e rassegnazione


" Il ritmo della vita rallenta, il silenzio scende, il Sahara comincia"
                                                                          Proverbio tuareg
I giorni passano, salgo sui monti dell’At el Garbi, dell’At el Sharqi, del gebel Dagilat. Salgo i loro canaloni, tra massi arroventati come carboni ardenti, arrampico su intagli aerei, scendo tra brecciai inconsistenti, valico torri mentre l’urlo del deserto fa sentire la sua greve voce. Ora  che ho imparato quanto posso osare, tutto mi sembra più facile. Torno ai monti di qualche anno fa, quelli che mi sembravano irraggiungibili. Salgo con estrema facilità. Tutto mi sembra a portata di mano, tutto mi sembra più piccolo . Il deserto sembra essersi ristretto, il tempo si è allungato a dismisura e di conseguenza le distanze si sono accorciate.
Tornare nei luoghi che hanno visto tante fatiche da parte mia mi mette a disagio. Come ho fatto qui a penare tanto? Mi sembra impossibile. Possibile che questo tragitto mi era sembrato tanto lungo? Come ho potuto qui aver avuto paura? Ripasso per il villaggio abbandonato, dove ebbi il guasto alla bici. E’ vicinissimo alla costa, solo circa 30 km, un battito di ciglia, pochi cm nel tragitto della nostra vita, sicuramente i più facili da percorrere. Supero il crogiolo di Allah. Vorrei che fosse grande il doppio o il triplo. Credo che il Sinai stia iniziando a starmi stretto. Quest’altro anno andrò più a nord, sull’altopiano di el Thi, la desolazione. Li il Sinai è largo 300 km, forse basteranno per non soffocare.
Intanto vago, e un giorno decido di dirigermi verso lo Wadi Sahara. Questa valle si dirige dall’el At verso il gebel Sahara, a ovest.
               (La magnifica pista verso lo Wadi Sahara)
 Nulla di problematico, una settantina di km in lieve e costante salita. Vado tranquillo, posso pensare. Il deserto non è la montagna. Sulle pareti non ci si può distrarre, può bastare un istante per fare un errore che potrebbe essere fatale. Nel deserto bisogna solo andare, spesso su un terreno molle, senza un minimo di asperità, anche inciampando, non ci si può far male. L’unico avversario da combattere sta dentro noi stessi. E’ nelle proprie debolezze e nelle proprie paure, nella nostra fragilità, nella nostra mente che genera mostri irreali.
                        (L'ingresso dello Wadi Sahara)
 Il sole è unicamente un catalizzatore, la sete è solo la scusa per fuggire. Ci vuole ben altro che un po di arsura per mettere fine ad un uomo, per fermare chi vuole andare o per chi deve necessariamente andare. Qui non voglio fuggire, lo faccio tutti i giorni a casa mia. Il gebel Sahara troneggia su di me . 1500 metri di rocce nere ed inconsistenti, un immenso mucchio di sassi instabili. Viaggio verso di esso. L’aria è foscosa, il sole ammicca dietro una patina incellofanata. Il caldo è tremendo.
                           (Caldo tremendo e foschia nello wadi)
La pista fiancheggia rare acacie e serpeggia nello uadi ora a destra, verso rocce più basse, ora a sinistra, li dove lo uadi ha scavato una scarpata nella terra rossa. La ruota anteriore inizia a sgonfiarsi. È l’ora della prima spina. Sotto le acacie, all’ombra rada non è possibile sostare perché è pieno di spine che si conficcano nelle scarpe come un coltello nel burro. Non ho altra scelta che sostare sotto il sole. L’unica cosa positiva è che le spine sono talmente grandi che almeno non c’è difficoltà a rintracciare il buco. Potrei cambiare direttamente la camera d’aria, ma è meglio riparare la ruota e lasciare la camera d’aria nuova per ogni emergenza. Il sole picchia e presto sono matido di sudore.
                   (Le acacie sono poche...ma le spine sono tante)
Durante il tragitto in bici non si sente caldo perché in ogni caso l’aria si muove attorno a te, ma appena fermo il caldo prende la rivincita. Inoltre devo stare accucciato vicino al terreno che arde come un braciere. Il sudore mi cola sugli occhi e bagna le congiuntive già irritate procurandomi dolore urente. Ma presto tutto è riparato e riparto pedalando con lena. Poco gioisco perché neppure dopo cento metri la ruota ancora una volta perde aria con decisione e dopo ancora neppure dieci metri il cerchione metallico urta contro la breccia dello uadi.  Altra sosta, altra riparazione, altra partenza. Il fato ce l’ha proprio con me, non c’è dubbio. Riparto camminando a piedi quasi per non gravare sulla bicicletta. Mi allontano da quel luogo maledetto. Sono passati pochi secondi e la stessa ruota è di nuovo a terra. Chissà se imprecare contro Allah possa servire a qualcosa. Ci provo, in ogni caso peggio di così!…
O forse il Signore dei fedeli mi vuole avvertire e io non comprendo. Mi dice di andare a piedi? Forse qui è terreno sacro? Oppure è terreno maledetto, proprietà dei  Djin?  Non capisco, non sono un nomade che vede in ogni dove la volontà di Allah e, cosa più importante, la comprende.

 La pazienza di un occidentale è molto corta, impreco ancora contro diverse divinità, mi irrito, ma poi mi accingo di nuovo a riparare la ruota. La cosa mi riesce con sempre maggiore difficoltà perché intanto il sole sta transitando allo zenit distruggendo la sia pur debole speranza di trovare un po di ombra sotto qualche roccia. Colgo l’occasione per mangiare un boccone di formaggio di capra e riparto. L’aria è immobile, ma nel contempo vibra per il caldo, tutto opprime. I polmoni hanno difficoltà a immagazzinare l’aria. E’ una sensazione che conosco bene. La mente anela qualcosa che non può esserci, qualcosa che possa dare conforto mentre la montagna si avvicina e diventa sempre più incombente. Il calore irradia dalle sue rocce, gli occhi tremano, il respiro si fa affannoso e l’ennesima spina si conficca nella ruota posteriore. La ruota posteriore è sempre più difficile da smontare e riparare per via del cambio e questa volta è toccata a lei. Ma non c’è scelta. Ora il Fato esagera. Mi rendo conto che il nervosismo sta conquistando la mia mente. Mi siedo un istante, faccio un profondo respiro, cerco di calmare i miei nervi. Le forze non sono infinite ed ora riparare la bici mi costa veramente fatica. Inoltre, per giunta, il mastice sta per finire ed allora saranno veri guai. Ho ancora due camere d’aria nuove, ma se continua così non so come farò. Mi rimangono i piedi, ma sono 40 km per il ritorno. Mi alzo con le vertigini che mi fanno sbandare, innervosendomi ancora di più. Comunque anche questa volta è fatta, sono di nuovo in sella, speriamo sia l’ultima. Il vento mi raffredda, riprendo il buonumore. Ora è il momento che il Fato attendeva. Pochi metri dopo un’ennesima curva ed ecco di nuovo la ruota a terra. Ancora una volta è la ruota posteriore. Spremo il tubetto di mastice e riparo la ruota. Rimonto il tutto, gonfio per bene e…neppure un metro e la stessa ruota è di nuovo a terra. La smonto ma non trovo la spina. Riparo, riparto e subito di nuovo si sgonfia la ruota. Era la spina precedente che aveva procurato ben tre buchi nella camera d’aria. Ora è troppo. Non ne posso più. Non ce la faccio a stare accucciato per lavorare sulla ruota. Porto la bici su una roccia e la uso come su uno scomodo tavolino.
Va meglio, ma ora il dubbio mi assale su come farò a tornare. Il silenzio è pauroso, solo gli orecchi pulsano a causa del sangue che inizia a scorrere denso. Sono sempre più sicuro che devo camminare. Non so perché il Fato abbia deciso così, ma tant’è. Me la prendo con tutti gli spiriti del deserto. Probabilmente ne ho offeso qualcuno, li sfido a farsi vedere come se veramente fossero qualcosa di reale. Ma nessuno mi risponde, nessuno mi ha mai risposto.
Mentre riparo la bici un debole zefiro agita l’aria attorno a me. Alzo lo sguardo verso il monte. Una nuvola di polvere scende dal pendio . Sarà una frana? Più si avvicina alla base, più si ingrandisce. Arriva dopo pochi secondi alle pendici e continua nello uadi, dirigendosi verso di me. Sembra un fiume in piena, ma invece é vento.  Mi investe in pieno. Mi accuccio per terra. Porto la kefya sulla bocca, chiudo gli occhi. La polvere mi ricopre mentre il vento passa su di me come un rullo compressore. Nella sua morsa si muovono polvere, grani di sabbia, cespugli di acacia con le spine micidiali. Tutto dura neppure un minuto, poi tutto torna immobile, anzi il silenzio è ora ancora più irreale ed opprimente. Nulla è cambiato….. anzi no.  Credo di essere cambiato io. Forse qualche malefico Djiin è riuscito a penetrare dentro di me. Ora vedo le cose diversamente. Il deserto ancora una volta cerca di confondere la mia mente, ed ancora una volta ci riesce. Ecco a cosa serviva la prova delle forature. Serviva per fiaccare la mia resistenza ad accettare la voce del deserto. Mi scrollo la polvere di dosso, rimonto il tutto, ma ora tutto è cambiato. Non mi interessa più nulla della bici, del ritorno, della velocità, della notte. Posso vivere giorni qui dentro. L’acqua è quasi finita, ma posso resistere per altri due giorni, poi incontrerò qualcuno, come sempre succede nel deserto. Questa è la convinzione che muove i nomadi. Noi siamo diversi. Dobbiamo sempre avere certezze. Anche i grandi alpinisti o esploratori programmano ogni minimo passo. Tutto deve quadrare, tutto deve essere previsto, tutto deve essere sicuro.
Il nomade non programma nulla, egli si fida del deserto e di Allah. Tutto è scritto. Qui veramente è così. Il deserto non è un luogo, è un essere vivente che respira, si muove. Senza le sovrastrutture della civiltà che offuscano la mente, tutto appare chiaro. Quando sei solo con il deserto ciò è l’unica verità.
                   (Al tramonto.La faticosa pista del ritorno..............)
Ecco perché parto felice verso la strada del ritorno, camminando e spingendo la bici. Non penso neppure più. Ho la strana sensazione di star pensando intensamente, mentre la coscienza mi avverte che nel mio cervello non alberga una minima idea. Ora so che posso finalmente percorrere il deserto, che posso andare tra le valli e le piane, tra le sabbie e le visioni dei miraggi. Tutto mi è familiare, nulla può più arrestarmi, solo il mio fragile corpo può tradirmi, non la mia mente.  Dopo qualche km salgo di nuovo, ma ancora una volta foro, e poi ancora, ancora ed ancora una volta. Monto le camere d’aria nuove, ma anche queste saranno ben presto trafitte dalle impietose  spine.

(La pista a 6 km dal villaggio in una immagine diurna. I due picchi sono il Ruwesat el Nima ed il villaggio si stende alle sue pendici)
 Mi fermo paziente. Il mio animo è tranquillo, tutto mi riesce facile. Come è semplice!! Possibile che non lo capivo? Mi sembra impossibile che solo sei forature fa ero sull’orlo di una crisi di nervi. Non ho neppure sete, eppure oggi il sole ha veramente lavorato molto. L’ultima foratura, che non posso riparare, blocca definitivamente la bici a 10 km dal villaggio, quando la notte è già scesa da qualche ora sul deserto. Mi sento felice. Cammino tranquillo verso le luci abbaglianti del nuovo villaggio beduino.

3 commenti:

  1. È proprio vero che noi occidentali abbiamo bisogno di calcolare tutto, siamo troppo sfiduciati e diffidenti nei confronti del nostro ambiente, ma in fondo il nostro ambiente lo abbiamo creato noi e di conseguenza non ci fidiamo di noi stessi, fidarsi del deserto invece, da quello che scrivi, mi fa pensare che significhi davvero fidarsi di noi stessi, ed è molto bello. Sai che diceva Francisco Goya? Il sonno della ragione genera mostri…

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  2. "La tradizione dice che bisogna credere ai messaggi del deserto. Tutto ciò che noi sappiamo
    ce l’ha insegnato il deserto." (Tuareg)
    La tua considerazione potrebbe aprire un vasto dibattito che porterebbe molto lontano in chi ha la visione del mondo solo un minimo ampia, ma farebbe ridere i più. Quello che tu dici è una grande verità. NOI abbiamo creato il mostro che ci affanniamo a combattere, senza pensare che lo lasceremo in eredità ai notri figli.I Masai la sanno lunga....
    "Questo Pianeta non ci è stato regalato dai nostri progenitori: esso ci è stato prestato per i nostri figli" ( Tribu masai). E' sicuro che gli faremo un buon regalo?

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