martedì 24 aprile 2012

WADI ASHAWIRA

Alla destra della strada che conduce a S.Caterina, si erge il cono del gebel Qaida. Appena superata la sua perfetta piramide, lo sguardo del viaggiatore che transita sulla strada è attratto da una sconfinata piana fiancheggiata da monti .
"Se vuoi nasconderti, vai nelle tue grandi città. Qui ciascuno è una persona visibile"
                                                                                            (Proverbio tuareg)
                                                                                           
 Come sospeso da funi invisibili, all’orizzonte troneggia il Gebel Hamra. Il suo fantasma ondeggia sull’acqua irreale, agitato dal vento rovente del deserto. Si innalza e si inabissa nel lago fiabesco ed effimero. La sua sagoma torrita sembra ancora più eterea, sospesa sul nulla che la nasconde e la mostra ad intervalli regolari tanto da dare le vertigini allo sguardo che tenti di seguirne la sorte.
Come fare per resistere a tanta meraviglia ?
L’alba mi porta un soffio caldo che  preannuncia  una giornata da passare  sotto   una fresca palma, ma il richiamo della fiaba è troppo forte. I primi 10 km  sono terribili. Il vento caldo già alle ore 07.00 mi respinge con forza, quasi a volermi convincere che è meglio tornare indietro. I pedali sembrano incollati ed i muscoli ancora intorpiditi e dolenti per le fatiche del giorno precedente si rifiutano di contrarsi contro la furia del vento che trasporta grani roventi di sabbia.

So che questo è il vento del mattino, tante volte ho dovuto combattere contro di esso, ma ogni volta mi sorprende la sua forza ed ogni volta mi stupisco come ho potuto, le altre volte, sopportare le torture delle minuscole particelle  trasportate dal vento  che le fa diventare sulla pelle come le scintille di una mola smeriglio. Qualche km poi lascerò la pista principale e mi dirigerò nello wadi, verso nord, al riparo dal vento. Non so se sia preferibile una pista molle che impasta le ruote della bicicletta come una carta moschicida o questo vento che maledico ogni volta, ma che affascina la mente e che è, ad ogni mattino, la prima prova dell’amore per il deserto.
Qualche cammello brado viaggia a favore di vento e sembra ammonirmi della mia ostinazione a sfidare l’invincibile aria.  Non oso guardare il tachimetro della bici per non dover ammettere la mia debolezza, ma mi rendo conto che per quanto mi sforzi, il terreno sotto le ruote quasi non si muove.  4 km/h, 5 km/h, è una vergogna!! Il peggio è che sto forzando come se salissi sul Gran Sasso. Quando finirà?  Sono ancora 5 km ma a questa andatura sarà dura. Ecco la deviazione, finalmente. Non credo di aver fatto un buon cambio. Subito le ruote affondano come sulle sabbie mobili ed anche se il vento ora ha ridotta la sua forza, il risultato per le mie gambe è identico. In compenso posso respirare liberamente. Mi soffio il naso per liberarlo dalla polvere che si insinua in tutti i pertugi del corpo e dei  mezzi. Bevo un sorso d’acqua che ingoio già impastata di sabbia impalpabile, mi schiarisco la voce e via!  Si parte lungo lo wadi Ashawira.
Il paesaggio è sempre lo stesso, affascinante, inumano. Di fronte a me si estende una piana perfetta. Delle montagne si innalzano a qualche km e all’orizzonte un monte galleggia come una nave in preda alla tempesta.  Mi avvio accompagnato già da un calore immane, pedalando mestamente lungo la pista che si estende interminabile fino all’orizzonte. Si srotola diritta per un percorso non quantificabile e quindi si immerge nel lago immaginario da cui emerge il gebel .
Sabbia molle e bollente fa affondare le ruote della bicicletta, mentre i monti che credevo vicini si rifiutano di accrescere le proprie dimensioni. Sembrano allontanarsi da me quanto più io tenti di avvicinarmi, mentre il calore aumenta senza tregua. Non ha la più piccola pietà per un essere tanto fragile che, appollaiato sul sellino, pedala alla velocità di un bradipo. Il calore che irradia dal terreno infuoca le mie gambe che anelano di allontanarsi da esso ad ogni pedalata. Ogni volta che il pedale si trova al punto inferiore sento il calore che si propaga come un veleno mortale. Ma subito la gamba segue il pedale e quindi si innalza, lasciando il posto alla sua compagna, mentre in quel secondo essa respira e recupera le energie. Il vento che fino a quel momento aveva una direzione laterale, ora ha deciso di venirmi ad accarezzare la fronte ed il viso. La sabbia sulla pista diventa molle, troppo molle per pedalare .

 Dopo qualche tentativo di proseguire in quella colla micidiale, devo decidere di rinunciare . Anche se la cosa mi imbarazza e mi preoccupa,  spingo la bicicletta sulla pista che ha assunto un colore oro chiaro. Il sole si alza nel cielo che, dapprima blu intenso,  è diventato chiaro ed abbagliante. La bruma del giorno scende sullo wadi e fa diventare tutto senza colore. Nelle zone depresse una specie di nebbia trasparente fa fluttuare il terreno. Altre montagne all’orizzonte compaiono come d’incanto, sorgendo dal mare immaginario.  Cammino spingendo davanti a me la bici che si rifiuta di scorrere nella collosa sabbia. 1 Km, poi 2, 3.  Finalmente la pista si fa meno incoerente e mi permette di nuovo di pedalare, ma la cosa dura poco. Scendo di nuovo e mi assale il dubbio di non poter proseguire. Al lato il terreno è bellissimo.
Una estensione infinita di sabbia. Un handal rotola nel vento e rimbalza sul terreno. Rimbalza? Si! Rimbalza. Ma se rimbalza…allora….Esco dalla pista e rincorro l’handal. Il terreno è magnifico, sembra una dura moquette rossa da cui spuntano piccoli, tondi, sassolini. Le ruote della bicicletta non affondano un millimetro.

La gioia mi pervade, pedalo a perdifiato in tutte le direzioni. Un senso infinito di libertà si è impadronito di me, mi sento di nuovo invincibile, ma so che è una chimera. Basta un nonnulla per cambiare il destino di un uomo. Già ho percorso circa 40 km ed un semplice guasto alla bicicletta o un misero malore potrebbero far precipitare un piccolo uomo nella disperazione e potrebbero ucciderlo  senza pietà come si uccide una mosca fastidiosa. Mi sembra di essere in compagnia, non credo di essere solo, lontano da tutti. Oggi non sento la solitudine. Penso che se parlo, qualcuno mi sente, ne sono sicuro. Sono già tre giorni che vago nel deserto e forse non è vero che non sento la solitudine, forse è proprio questa la solitudine, cioè quando si crede di non essere più soli. La mente rifiuta la solitudine e crea la compagnia. O forse c’è veramente qualcuno con me. Il vento tra le rocce mi parla. Scorre sulla sabbia e si lamenta con un gemito. Poi si innalza e fischia con un richiamo netto e preciso. Mi volto a guardare, ma non c’è nessuno, eppure so di non essere solo. La vita minerale del deserto mi si mostra e mi fa compagnia, mentre il termometro sembra non avere limiti. Agguanto l’handal. Egli è veramente immortale.

I suoi semi, nascosti nella fragile sfera, sanno aspettare anni, decenni ed anche millenni per risorgere. Un cespuglio di handal al gebel Madsus fermarono due spauriti camminatori del deserto. Non sapevamo cos’erano quelle strane palle ripiene di sassolini. Filippo azzardò ipotesi di commestibilità. Ne prendemmo tante. Ne riempimmo le nostre magliette e le trasportammo camminando per 30 km nello wadi Madsus, mentre il caldo distruggeva le energie di Filippo. Mi chiese di portargli i suoi handal perché doveva donarli a qualche amico caro, alla sua donna, a sua madre.  Rimasero nella mia valigia. Io l’ho dato alla sua donna. Io l’ho dato a sua madre ed un handal l’ho portato nella sua grotta. Laggiù ho sotterrato i semi. Essi sanno aspettare, anni, decenni, millenni, ma poi germinano sempre, prima o poi. Noi non sappiamo aspettare. Il nostro germoglio è troppo breve. Subito muore....  Ora rincorro l’handal, il vento lo trasporta veloce, lo agguanto prima che un sasso lo distrugga. Vicino a me un handal è scoppiato su di una roccia ed i semi si sono sparsi sul terreno……ricordi terribili. Salgo in sella e mi allontano da quel luogo che inizia ad avere un’anima, mi volto spesso e non so se sperare che si allontani subito o che le pedalate siano lente. Ma tutto scorre......... Presto quel luogo scompare alla vista, non nel cuore. Pedalo curvo sulla bicicletta, il terreno facilita il cammino. I km scorrono veloci. Alla mia sinistra i monti frastagliati si innalzano repentini. Da un’intaglio si affaccia una torre altissima e compatta. Andrò a vederla nei giorni seguenti…Una valle circolare di circa 4 km ora mi sbarra il cammino. Nel suo centro l’aria bolle e si vede chiaramente che si innalza dal terreno, quasi a voler sfuggire, pure essa, alla fornace ardente. Non so se attraversarla. Il criogiolo di Hallah è dietro l’angolo, temporalmente. Solo ieri (non ieri)stavo per soccombere al suo abbraccio. Non voglio passare nella depressione come uno stupido. I monti alla mia sinistra sono un rifugio ed anzi mi permettono di non perdere quota, anche se il terreno è diventato accidentato, pur rimanendo duro e compatto. I monti a destra sono un muro impenetrabile, ma quando si abbasssano, mi permettono di vedere il mare e la costa araba.
                 (All'orizzonte, oltre il mare si intravvede la costa araba)
Solo che tra me e la costa c’è un groviglio di valli incassate e impercorribili, creste fragili di fango indurito e compatte di granito rosso e di basalto nero. Inoltre la costa in questa zona è completamente deserta. La strada asfaltata infatti taglia all’interno abbandonando il difficile percorso della costa.

Devo superare un piccolo valico, ma ora sembra lo Stelvio di un ciclista, la disidratazione fa da padrona affievolendo le già misere energie. Arrivo alla sella con il cuore in gola. I monti si chiudono su di me, lo uadi finisce direttamente sotto la parete.
Non posso progredire oltre, dovrei arrampicare e svalicare il monte, ma la cosa è da scartare a priori, sicuramente non sarei poi in grado di tornare. Scendo finalmente dalla bici e passeggio con lo sguardo rivolto verso la vetta e la tetra parete che ora  è immersa nell’ombra.

L’ombra avanza minacciosa. Dopo che l’animo si è abituato alla luce, anche l’ombra appare minacciosa. Ora l’ombra delle creste avanza quasi come una mano scura munita di artigli aguzzi, pronta a ghermirti. La fantasia qui non ha i limiti imposti dalla decenza della civiltà e vaga libera creando folletti e spiriti, fate e stregoni. La paura emerge dal profondo dell’inconscio. Almeno quella ti fa sempre compagnia, non ti abbandona mai. E’ sempre fedele, la paura, non c’è verso di cacciarla via, trova sempre la strada per rientrare nella tua mente. Mi fermo, mangio il mio succulento formaggio di capra e bevo abbondantemente l'acqua ingurgitando anche chicchi di sale grosso.  Qui nel deserto tutto è legato all’acqua. Solo a lei si deve la possibilità di percorrere un determinato tragitto. Ognuno può percorre tanta strada quanta acqua riesce a portare. Ma l’acqua pesa e più se ne porta, più si fatica. E più si fatica, più si consuma acqua. E più si consuma acqua, più si sente la morte aleggiarti attorno. E’ una sensazione reale, non immaginaria, non paurosa, ma affascinante. E’ bello camminare a braccetto con le proprie paure. Ma oggi ho tutte le mie energie. E’ ormai pomeriggio ed il sole perde progressivamente la sua forza e progressivamente aumenta la mia.


Alla mia sinistra montagne colorate come in un set finto di un film di alpinismo. Pareti verticali nere si innalzano sorrette da canaloni tenebrosi che sembrano colonne erette a sostegno del cielo. Alla sua base, come indegni servitori, misere colline rosse fanno da tappeto, solcate da pieghe incassate, disegnate da millenni di piogge improvvise. Alle mie spalle il muro di cinta del fantastico giardino forma torri merlate dove il sole disegna pennellate sfolgoranti, mentre in lontananza le montagne arabe si ergono dalle sabbie del Nefud. Dovunque una serie interminabile di monti rocciosi alternati a colline effimere di fango fanno da sfondo al palcoscenico naturale della nostra fantasia.



Percorro la zona pedemontana alla mia destra, in ombra. Anche se il sole sembra astenico, non mi fido e so perfettamente di cosa sia capace di fare nelle depressioni isolate ed incassate tra i monti. Pian piano il terreno inclinato si stempera in una piana fantastica, ora rosso cupo, con colline o monti che sorgono dal terreno come scommesse alla forza di gravità.

 Pedalo verso di loro facendo enormi curve, sempre aiutato dal terreno duro e compatto e per di più in discesa e, come avevo previsto, con il vento che mi spinge come un motorino. Il contakm dichiara 20/25 km orari. In due ore dovrei arrivare, posso anche fermarmi. Mi siedo su un masso che sembra una panchina al limite dell’ombra proiettata da un obelisco lontano, mentre il sole accende e spegne i suoi raggi tra le creste come il faro di un palcoscenico gigantesco.
La luna piena già attende sul gebel Quaida che il sole tramonti per prendere possesso del deserto. Mi alzo quando l’ombra ormai mi ha raggiunto. Inforco la bicicletta e la seguo nella piana desertica, mentre essa trotta verso il gebel Wair che ora è comparso in lontananza. Fatico a tenerle testa. Il sole viaggia verso la notte più velocemente di quanto io riesca a pedalare, mentre la luna prende vigore e già brilla come un sole un po offuscato. L’ultimo raggio mi illumina davanti al gebel Quaida.


 Faccio una foto alla mia ombra che si allunga verso il monte e verso l’isola di Tiran, e finalmente la luna non teme più avversari, almeno fino a domani mattina.
Ritrovo la pista, ritrovo l’handal distrutto, mi fermo per un ultimo istante. Una sensazione di pace mi pervade.
Il sole ormai è tramontato, ma la luce non vuole abbandonare il deserto. So però che è questione di istanti, subito le tenebre lo invaderanno. Ma oggi esse non vinceranno, c’è la luna ad illuminare il mio cammino.

 Non mi serve neppure la lampada. Tutto è illuminato, sorgono le ombre, nette come al mattino. Anch’io faccio ombra, sulla mia bicicletta e riesco a vederla accorciarsi verso di me così come  l’avevo vista allontanarsi solo pochi minuti prima. La temperatura è ideale, finalmente. Verso sinistra si intravvedono le luci dei villaggi turistici, sono ancora lontani.  Pedalo verso di essi, lentamente. Non voglio perdere un solo istante di queste sensazioni. Sono ancora 15 km nel deserto e il buio non  mi fa paura, mentre dietro di me qualche sciacallo ulula per richiamare la sua compagna. Egli non è solo, nel deserto.
Io pedalo verso la costa….


....alloggio in una comoda stanza del villaggio sprintour, in un morbido letto, tra lenzuola candide e con l’aria condizionata che rinfresca l’aria della stanza. Fuori il vento del deserto spira inesorabile anche di notte. Mi sento soffocare, le pareti mi sembrano una morsa che si stringe inesorabile su di me. Apro la finestra del balcone che si affaccia sulla magnifica piscina e respiro a pieni polmoni l’aria ancora rovente del deserto. Chiudo la finestra dietro di me e mi siedo sulla poltrona di vimini su cui troneggia un comodo cuscino. Sento il vento che mi invita ad andare. Come farò a ritornare nel mio mondo? Dentro di me cerco mille scuse da addurre al vento per giustificare la mia presenza tra la civiltà, questa notte. Non voglio perdere i privilegi che il deserto mi concede. Proprio non riesco a rientrare nella camera, non posso lasciare il vento che mi porta notizie dalle valli ed i monti, dalle piane e dagli scorpioni. Mi allungo sulla poltrona, le gambe sul davanzale e le guance accarezzate dal vento…e mi addormento sognando il giorno che verrà…………




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