lunedì 23 aprile 2012

IL WADI MADSUS


“Che importa se tremi nella notte o se sei assetato di giorno sotto il sole. E’ il senso del deserto l’aver sete di giorno e freddo la notte. Ma se alzi il tuo viso verso il cielo non hai da fare nulla per ricevere in dono il sole e le stelle. E ti sentirai felice…”



Le rocce del Sinai, ardenti, le pianure rosse nel sole del tramonto, i cammelli al pascolo nell’ombra della sera, il cielo stellato del deserto. Cosa si può chiedere di più ?

Ogni anno anelo il momento di partire per il Sinai. Ho traversato molti deserti nel grande Magreb, ma il Sinai ha qualcosa che attira il mio animo. Tra le sue rocce e nelle sue sabbie mi sento al sicuro, il sole non mi è nemico. La sete è un disturbo necessario per godere i suoi favori. Il vento spira per me e le rocce cantano all’alba una nenia soave che ristora il mio animo. Nulla mi tranquillizza e mi consola più del silenzio e della solitudine del SINAI.
Anche quest’anno finalmente è arrivato il momento di scendere dall’aereo. Quindici giorni tra il nulla e me stesso. Quest’anno non anelo “avventure”, voglio solo vagare senza senso. Ormai conosco i luoghi e nulla mi potrebbe sorprendere. Ormai  sento il deserto come una parte di me.

E’ difficile spiegare questa sensazione. Qui sono me stesso. Nelle nostre città sono un attore che recita un copione prestabilito dalla società che attende  l’inizio della rappresentazione solo per sapere se abbiamo imparato bene la parte. Solo qui la mia mente può vagare nel profondo dell’ animo e scoprire l’infinito universo che vi si cela. Ma il tempo di partire è arrivato. Non serve ancora una volta raccontare tutte le valli percorse, tanto sarebbe solo una ripetizione. Qualcosa però ha ancora di nuovo segnato il mio animo ed ha aggiunto un piccolo tassello nell’immenso mosaico della mia mente. Qualche anno fa arrivai ad un luogo fiabesco. Irte cime vicine tra di loro si innalzavano improvvise come immensi colonnati in una cattedrale gotica dove il cielo era solo la volta della grandiosa costruzione. A quel tempo ancora mi aggiravo nel Sinai con paura e circospezione e quindi non mi trattenni che pochi istanti. Scattai solo alcune foto con la digicam e fuggii prima che il buio potesse sorprendermi. Promisi di tornare.
Ora sono tornato, non è stato facile trovare la strada nel labirinto di valli, ma poi mi sono lasciato trasportare dal vento ed ora eccomi di nuovo qui. La notte non mi fa più paura, ora dormo tra le rocce e le sabbie disteso per terra, cullato dalle stelle e protetto dal gigantesco Scorpione che si erge a guardia degli uomini nelle notti del deserto. Il vento mi accoglie sul passo come un’ariete infuocato, ma ci sono abituato e non mi sorprende più, anzi ora lo anelo e spero di trovarlo per farmi accarezzare il corpo. La kefja, portata alla maniera beduina, svolazza sugli occhi che ora si immergono nella visione dell’agognato spettacolo. Alla mia sinistra si erge una parete bucherellata e davanti a me una prima torre, più bassa, fa da avamposto ad una serie di monti verticali che culminano con uno stiletto puntato, come un dito, altissimo, verso il cielo.

Lateralmente altre torri degradano lentamente verso il deserto pianeggiante, che anche se da lontano, fa sentire prepotente la sua presenza. Il caldo è implacabile, nulla anima questa terra, a quest’ora. Lascio la bici e mi incammino verso la prima torre. Non è difficile arrivare alla sua cima, basta salire con mani e piedi. Mi siedo sull’aguzza vetta. Come una bandiera il vento agita il mio copricapo e i pochi stracci avvolti sulle spalle. Tutto è immobile e nello stesso tempo mutevole, come il nostro animo. Noi crediamo di essere sempre gli stessi, di pensare sempre alla stessa maniera, ma invece cambiamo in continuazione. Il mondo ci cambia. Il tempo ci cambia. Forse  qui possiamo sempre essere gli stessi, perché il tempo si ferma, oppure scorre, ma non ha più importanza e quindi è come se non scorresse. Passano i secondi, anzi, le ore. Seduto sulle roventi rocce della torre sono ora diventato una di esse. Il colore della mia pelle mi mimetizza perfettamente tra di esse, il mio animo si confonde con le pietre. Cosa può succedere ad una roccia? Quali pericoli essa corre? Forse incomincio a capire i bedu ed i tuareg. Ci sono voluti anni per credere di iniziare a capire, e chissà pure se è vero. Solo che ora so di essere un piccolo grano di sabbia tra altri milioni di miliardi e che non ho più diritti di uno spigoloso ciottolo caduto dalle pareti incombenti. Qui l’uomo non può pretendere nulla di più di quanto pretenda un’acacia.

 Forse neppure a Roma o a Milano potrebbe pretenderlo, ma invece lo fa. Nella nostra civiltà ci hanno insegnato ad essere il centro dell’universo e del creato. Siamo stati fatti ad immagine e somiglianza di Dio. Ma che Dio è se noi gli rassomigliamo? Un ben misero dio che non ha saputo fare di meglio. Se fossi Dio forse desidererei che si dicesse che la mia immagine è nei cieli stellati, nelle ali degli uccelli, nel vento del deserto, negli occhi dei delfini, nel canto delle balene, nelle sottili foglie degli handal, non nella fragile mente degli uomini. Vorrei che si dicesse che rassomiglio alle immani pareti dell’Himalaya, ai possenti vulcani, all’agilità del ghepardo ed alla forza del grizzly, non ai fragili corpi degli uomini. Perché Dio dovrebbe essere orgoglioso di averci creati? Ma forse non voleva farlo. Ha solo dato all’energia la possibilità di procreare e tutto si è creato da solo, spontaneamente. Solo così posso accettare la mia vita. E’ questa l’unica possibilità che ho per spiegare come mi sento. Nulla qui disturba i miei pensieri che vagano finalmente senza legami.

                             (Un accampamento di fortuna....)
 Ora so che esiste l’immortalità, non posso vederla quando sto nella mia città. Li si può solo accettarla per dogma, così come impone la religione. La Trinità, la verginità della madre di Gesù….come sono insignificanti. Sono solo piccolezze umane, non divine. L’antica tradizione dei nomadi dice che la verità è sepolta nelle sabbie del deserto perché chi mai dovesse scoprirla sarebbe considerato un pazzo con la mente bruciata dalla solitudine e dal caldo. Più scorre il tempo (o non scorre?), più il tutto penetra nella la mia mente ed intanto solo il sole rispetta il tempo e tramonta con un lampo, lasciando respirare la terra. La notte non è buia, nulla è buio nel deserto. Le stelle illuminano i monti e le valli con una luce spettrale, cancellando i colori e le profondità. Il paesaggio appare come un quadro piatto. Solo il cielo mantiene la tridimensionalità. La diversa lucentezza delle stelle gli mantengono questa caratteristica. Scendo dalla vetta e mi sdraio a terra ad ammirare lo Scorpione che sorge. Alle nostre latitudini lo Scorpione  si innalza appena dalle brume dell’orizzonte, ma qui regna imponente ai vertici del cielo. Si ben comprende come i popoli del deserto ne abbiano fatto un dio. Scelgo il luogo migliore per montare la tenda.

 Mi accerto che non sia un kambalthou, cioè un luogo maledetto, infestato dagli spiriti maligni, gridando per sapere se già i folletti si siano accampati per la notte. Monto la tenda solo per darmi un’apparenza di esploratore o di alpinista. Il terreno irradia il calore del giorno che viene assorbito dalla tenda e mantenuto nel suo interno come una serra. Non sto a mio agio sotto un grigio cielo artificiale quando fuori troneggia una volta affrescata ed affascinante. 
 Esco  all’esterno e stendo la kefja per terra stando ben attento a non coprire inavvertitamente qualche scorpione di passaggio. Con un fazzolettino di carta tappo il manubrio della bicicletta per impedire a qualche insetto di considerarlo un tana bella e pronta. Uno scorpione giallo, uno tra i più pericolosi, viene verso di me. Sarebbe facile alzarmi e schiacciarlo sotto il piede ben fornito di scarpone. Ma sono un nomade, ormai, non ho più le scarpe. Da tempo cammino sulle sabbie scalzo e metto le scarpe solo quando devo pedalare. Mi accorgo di non aver alcun timore anche se l’animale ora è vicinissimo alla mia gamba nuda. Sento che non può farmi male, e poi perché dovrebbe? Per lui non sono certo una preda, ma al di la di questo, mi sento a mio agio nonostante la sua presenza.

Anch’esso lo sente. Alza le chele al vento come se annusasse il mio odore, con la coda in alto, pronta a scattare. Per  qualche tempo ci scrutiamo, immobili, poi io faccio il primo passo e avvicino la mano. Rimane titubante, poi si muove lentamente, si avvicina. Si ferma nuovamente, la coda appena più bassa. Non ha più intenzioni di attacco o di difesa. Ruota come un carro armato e si allontana lentamente nell’aria scura e poi scompare nel buio. Chissà se gli scorpioni hanno un cervello pensante, ma certamente hanno un’anima. Se non la loro, hanno l’anima del deserto, ed io credo di iniziare a capire. Sicuramente si aggirerà tutta la notte nelle vicinanze, forse tornerà a controllare quando io sarò addormentato. Sarò nelle sue mani, una sola puntura e tutte le fatiche e le speranze di un uomo sarebbero finite, le sue gioie ed i suoi dolori scomparirebbero in un istante, ingoiate nel segreto del deserto. Una tranquillità inspiegabile si impadronisce di me. Quanto sono lontani i giorni in cui, per traversare uno uadi in piena, l’unica preoccupazione erano gli scorpioni ed i cobra……Mi sdraio con la faccia rivolta al cielo e cerco di riconoscere le stelle che appaiono di un numero incredibile e che mi confondono. Lo Scorpione del cielo mi invita ad addormentarmi rassicurandomi che fintanto che egli veglierà, nessuno scorpione della terra oserà mai toccarmi. So che è vero. Mi accingo a trovare il Cigno, per iniziare di li la ricerca, ma il sonno mi vince.
Nella notte  la brezza che scende dai monti si insinua nei pertugi delle tormentate pareti e canta una nenia soave che culla il mio sonno. Quante volte questi suoni irreali mi sono sembrati nemici, forieri di pericoli e di paure. Ora mi rassicurano. Gli spiriti del deserto cantano una ninnananna che ammalia e concilia il sonno. Ogni tanto una pietra rotola dalle pareti. Il freddo della notte costringe le pietre a contrarsi dopo che l’enorme dilatazione del giorno dovuta al calore ha distrutto gli ancoraggi. Allora mi sveglio ed ascolto. Ascolto il silenzio che risuona come la sirena di un piroscafo. Ascolto l’urlo del deserto che si innalza tra le rupi e si perde nelle piane infinite. Ascolto il vocio della solitudine che riempie più di una festante riunione tra amici. Qualche passo nella notte vaga attorno alla tenda. Non mi preoccupo più, ormai. Potrebbero essere i fennec che sono estremamente curiosi e non conoscono l’uomo. Anzi, forse lo conoscono come egli dovrebbe essere e quindi non ne hanno paura. Forse è qualche affamato sciacallo che si aggira speranzoso di qualche boccone. Ma potrebbero anche essere i folletti del deserto, gli spiriti delle sabbie, i Djiin maligni che popolano queste lande desolate e che non bisogna mai contrariare, come ben sanno i nomadi i quali conoscono tutta una serie di comportamenti atti a non inimicarseli. I Djiin vagano nel deserto, percorrendolo con i cavalli. Di notte si ode il rumore dei loro zoccoli. Si accampano nei luoghi più impensati. Quando giunge la notte, prima di alzare le tende, bisogna urlare per sapere se quel luogo è già abitato. Nel caso che i folletti abbiano già preso possesso del luogo, si udrà il rumore dei loro movimenti e bisognerà allontanarsi precipitosamente, per non disturbarli. Essi assumono qualunque aspetto, a secondo della persona a cui si mostrano. Possono esser una bella donna, un serpente, uno scorpione,  la propria madre, il proprio figlio, o qualunque oggetto del desiderio che alberghi in quel momento nella mente del malcapitato. Ormai so di non dover avere alcun timore, in ogni caso. Ora gli spiriti sanno che io non posso più contrariarli, anche non volendolo. Ormai il deserto è dentro di me, sarebbe come contrariare il mio pensiero.  Sento il duro corpo dello scorpione che urta sulle rocce  vicino a me, emettendo un suono stridulo, appena percettibile. E’ paradossale, ma mi sento in compagnia.


                                                               (L'alba)
 Lo Scorpione del cielo già ha nascosto le sue chele all’orizzonte e già ad est le stelle riducono il loro splendore. L’alba si annuncia. Il Sole incede inarrestabile. Le cime delle torri si infiammano come una torcia quando ancora le loro basi sono nere e fredde. Pochi secondi ed una fiammata nella piana lontana accende il giorno. Da un unico punto il faro irradia le sue micidiali frecciate. Il cielo sembra contrarsi ad ovest, li dove ancora qualche misera stella tenta di resistere al potente Re. Poi tutto scompare, il cielo avvampa, il rosso ti invade. Tutto è immerso nell’ocra. In piedi,  verso l’est, sembro una statua, con lo sguardo rivolto alla luce che sorge, che mi sommerge.
Il nuovo giorno è nato, inesorabile. Il Sole ti ricorda quando sei piccolo e fragile, semmai nella notte possa qualcuno averlo dimenticato………..
Mi preparo a partire, a malincuore. Smonto la tenda rimasta inutilizzata con gesti sicuri, come un nomade. Controllo che non avvolga con il telo anche il mio amico scorpione. Questi insetti possono resistere mesi, quasi in ibernazione, mantenendo però nel contempo tutta la potenzialità del loro veleno. Si dice che sia mortale pungersi con la loro micidiale coda anche dopo anni dalla morte.  Parto verso la piana che si intravvede tra le torri, l’aria già trema come un essere vivente impaurito.  Trema di fronte al grande Re che incede verso l’alto accompagnato dai suoi valletti, le cicogne che roteano alte, a sfidare l’aria torrida.
Sono gli unici esseri viventi che traggono beneficio dal caldo insopportabile. Le correnti ascendenti, incandescenti, le mantengono in aria senza sforzo, trasportandole in quota. Pedalo velocemente in discesa, ma oggi il fato ha deciso diversamente. Per quattro volte devo fermarmi e riparare le ruote a causa delle spine di acacia che trafiggono continuamente gli indifesi pneumatici.
Smontare le ruote, trovare il buco, senza acqua, ripararlo, rimontare il tutto è una fatica improba sotto il sole che non prova alcuna pietà per la fragilità umana. Dopo la quarta foratura inizio a spazientirmi anche perché intanto ho finita la provvista di acqua. Ma ecco che si affaccia nella mia mente il deserto…. ora comincio a capire. Una calma irreale mi invade, come una nebbia che viaggia nella pianura. Tutto si confonde, il tempo si ferma, le distanze scompaiono, ogni posto è uguale a se stesso. Non ha più importanza alcuna quante volte ho forato, non odio più le spine di acacia, tanto so che prima o poi arriverò, me lo ha promesso il deserto ed io gli credo. Monto sulla bici e pedalo lentamente, mentre il vento improvvisamente cambia la sua direzione ed ora mi spinge con una mano invisibile verso la costa. “ Te lo avevamo promesso!” sembrano  sussurrare le rocce ardenti e la sabbia inconsistente.

Da lontano un batuffolo bianco sventola nel vento. Un pastore macilento mi appare come un miraggio tra le ultime  rocce che si stemperano nella piana.
Profonde rughe solcano il suo volto. Mi fermo, ci salutiamo affettuosamente  alla maniera dei nomadi. Benedizioni di Allah, grandi abbracci, benedizioni di Allah, grandi manate, benedizioni di Allah. Auguri per il tragitto, benedizioni di Allah, fortuna su di te e sulla tua famiglia, ancora benedizioni, e poi acqua. Mi chiede dell’acqua, ma non ne ho più, mi dispiace. Poi inaspettatamente me la offre lui, in una pelle di capra puzzolente e trattata con grasso rancido. E’ inaspettatamente fresca. Faccio un microscopico sorso, non perché non ne vorrei, ma non posso privare il bedu del prezioso liquido che chissà per quanto tempo dovrà bastargli. Prima me la chiede, poi me la offre. Valli a capire i nomadi!! Sono ancora lontano dal loro pensiero, anche se credo di star mettendocela tutta per adeguarmi. Nei giorni successivi il deserto mi metterà alla prova. Le mie peregrinazioni mi porteranno a vagare senza senso. Come uno spirito maligno, come se ci fosse una maledizione, ogni giorno forerò decine e decine di volte. Ogni volta dovrò fermarmi e riparare le ruote sotto temperature terrificanti, seduto su un terreno ardente, anche ogni dieci minuti. Ma alla fine accetterò tutto ciò come una parte inscindibile della mia vita in quel momento. Ogni foratura mi sembrerà naturale, come respirare o muovermi, come avere sete e desiderare di bere, come l’alternarsi del giorno a della notte. Non vedrò più queste cose come un ritardo sulla mia tabella di marcia, ne come un contrattempo. Ormai non mi serve più calcolare quanta acqua devo portare, quanti km devo percorrere in un determinato tempo, dove devo dirigermi, quando devo tornare, quando  dormire o svegliarmi. Tutto me lo dice il deserto……… e Lui non sbaglia.
                                              IL WADI MADSUS
 Tre anni fa, un giorno partii con Filippo e percorremmo 40 km tra i monti del Sinai. Risalimmo una valle ( a cui Filippo diede nome di valle delle microonde), arrivammo ad un valico e scorgemmo un enorme uadi che portava verso Ras Mohammad. Filippo iniziò ad accusare i primi sintomi del colpo di calore che più tardi si dimostrarono in tutta la loro gravità.


(In verde la scorciatoia percorsa con Filippo)
Trovai una scappatoia laterale che fortunatamente era percorribile e che ci permise, anche se con molta difficoltà, di accorciare enormemente il tragitto e di tornare alla costa appena in tempo, prima che Filippo presentasse una crisi più grave. Mi promisi di tornare allo Wadi Madsus, ma poi Filippo era morto e più tardi non ebbi il coraggio di tornare in quel luogo, mi sembrava quasi una profanazione.

Oggi parto senza meta e la bici mi porta verso Ras Mohammad, alle prime luci dell’alba. Carico di acqua, come al solito, fatico non poco per salire e scendere lungo le ondulazioni erte della strada asfaltata.  Mi inoltro verso l’interno percorrendo una piccola valle a destra che subito sale verso monti ripidissimi. Improvvisamente si allarga in uno uadi magnifico ed allora lo riconosco. E’ il Madsus.

 Il fato ha ancora svolto bene il suo compito. Sabbie piatte ed inconsistenti, onde solide di pietra rossa , campi di radi cespugli di tamerici si succedono, mentre risalgo faticosamente lo uadi. Sono km e km di salita percorsa pedalando ed a piedi, mentre le spine di acacie fanno il loro dovere ficcandosi ogni tanto nei morbidi pneumatici.

Non c’è un’acacia a perdita d’occhio. Qualcuno  ha messe le spine li proprio per me. Passo sotto una parete. Lascio la bici e mi incammino nel rovente brecciaio, verso un’intaglio della cresta. Arrivo alla sella che si mostra essere una sottile lama di roccia sotto cui la parete precipita per almeno 100 m, perfettamente verticale. Scorgo tutto lo uadi che dovrò percorrere.

 Il termometro è a 47 gradi, neanche poi molto, ma non ho fretta. Sono più tranquillo del solito. Lascio la lama rovente su cui sono a cavalcioni e torno alla bici. Pedalo  lentissimo per un tempo indefinibile, poi a destra appare un piccola valle. E’ qui che con Filippo fuggimmo verso la costa. Mi fermo e mi siedo su un masso piatto. Le orme di Filippo sono ancora li. Da lontano mi sembra di udire le nostre voci festanti alla vista del salvifico uadi. Qui ci fermammo per decidere se tentare la valle a sinistra oppure percorrere tutto lo uadi. Filippo lasciò a me la decisione, che non fu facile. E se la valle, come spesso accade,  si fosse interrotta sotto una parete?  Filippo non può essere morto, me lo dice il deserto.
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                                           (Il wadi Madus visto dal valico )
Salgo rassicurato sulla bici e riprendo il cammino. Ritrovo al valico il masso dove ci sedemmo a riposare. Da qui la valle scende in un canon largo appena per passare con la bici, dal fondo piatto e breccioso che finisce poi nella valle delle microonde.
Sto seduto sul masso con la faccia rivolta verso lo uadi Madsus ed il sole che tramonta. Filippo si muove davanti alla luce  vermiglia che tutto abbaglia, gli occhi e la mente.

 Non credo sia una sensazione. Se veramente lo ho conosciuto e di questo sono certo, visto che è cresciuto con me, egli ora è qui, non può che essere qui.
Il sole sfiora il terreno ed un’ombra si muove davanti ad esso, confusa ai miei occhi. Ondeggia lontana, dinoccolata. Non riesco a distinguere, il sole basso abbaglia nonostante gli occhiali.

 Poi si avvicina. E’ un nomade con due cammelli adulti e due piccoli. Si ferma sul valico, scende dal cammello e si siede con me. Seduti vicini assistiamo al tramonto del sole. Non abbiamo bisogno di parole. Qui non esiste disagio alla vicinanza di uno sconosciuto. Solo noi ci sentiamo a disagio quando dobbiamo salire in ascensore, anche solo per pochi secondi, con uno sconosciuto. Qui questo disagio sarebbe un lusso. Un sorso d’acqua offerto con il cuore è sufficiente. Tiro fuori un bel pezzo di formaggio di capra, lui ha un po di pane senza lievito, di quello cotto sulle pietre roventi. Cerca di convincermi a salire sul cammello. Per la bici non c’è pericolo, anch’essa troverebbe posto sul cammello.
               (Il bedu si allontana nella valle delle "microonde")
Facciamo lo stesso tragitto per molti km, riesco a tener testa ai cammelli con facilità, poi il terreno inconsistente avvantaggia le loro larghe zampe,  fino a quando l’ennesima spina di acacia decide di darmi il colpo di grazia. Lo saluto con larghe bracciate mentre si allontana nella notte incombente. Prima che faccia buio devo riparare la bici perché non porto la lampada e quindi mi sarebbe impossibile. Ma anche questo non mi preoccupa. Ho ancora i piedi. Ora il buio ha invaso la valle. Mi fermo per decidere se sdraiarmi a dormire e ripartire poi l’indomani. Mi piace essere il solo a decidere completamente la mia vita. Poi decido di procedere nella notte. Salgo sulla bici e pedalo nella breccia, ma presto mi accorgo di avere di nuovo una gomma a terra.

                           
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(Ormai il nomade si perde nel buio incipiente)
Nell’angusta valle la visibilità è pessima. Sono poche le stelle che sono sulla mia testa, le pareti incombono. Cosa cambia? Scendo e cammino, avanzo comunque, senza fretta. Più in basso sbucherò nella piana e li il cielo si allarga tra gli orizzonti e la visibilità sarà migliore. Da lontano la luce della civiltà illuminerà ancora di più il deserto e mi permetterà di riparare più facilmente la ruota, ma sarei tornato volentieri a piedi…..  Mi ritrovo nel buio al bivio di due uadi. A destra arriverei forse in due ore alla costa. Di fronte a me una valle sale tra i monti. Per poter proseguire devo scendere dalla bici che ho appena riparata nel buio, le brecce fanno affondare le ruote. Allora le mie gambe assumono un proprio cervello.


                         (Tramonto nella valle delle "microonde")
Era facile dirigere un mezzo meccanico, bastava ruotare il manubrio. Ora le gambe vanno verso una meta a me sconosciuta, tra i monti divenuti, nel buio, improvvisamente tetri ed oppressivi. Vago nel buio denso come un’inchiostro. Solo il cielo è illuminato da Antares che fiammeggia sopra la mia testa.  Non ho più acqua dal tramonto, ed era anche scarsa. Domani mattina il sole non farà eccezioni per me ed i suoi implacabili raggi mi indeboliranno in poche ore. Non mi preoccupo minimamente. Sarà ora di fermarmi? Chissà cosa avranno deciso le mie gambe.  Questa volta non porto la tenda, ne una torcia e ne una minima attrezzatura per il bivacco. 
                                   (La valle percorsa ed il valico. E' ora di fermarmi...)

Ma a cosa servirebbe? Il terreno accoglie con amore un corpo affaticato, non c’è bisogno di interporre alcun mezzo sintetico, sarebbe solo una sicurezza psicologica di cui ora io non sento il minimo bisogno. Del resto la terra non ci accoglierà in eterno? Credo di essere in una piccola valle lungo un erto pendio. E’ un buon posto per fermarsi. Un’incavo del terreno sembra un letto costruito ad arte da un abile architetto. Accumulo alla mia destra un po di pietre per fermare la brezza che scende fredda dalla cima. Il deserto culla il mio sonno. Rumori familiari mi danno sicurezza. Nel silenzio della notte ogni rumore ha un’anima. Conosco tutte le lingue del deserto. Piccoli passi, leggeri, veloci, mi circondano. Sono fennec o sciacalli. Ora ticchettii sordi annunciano l’arrivo di un topo delle sabbie. Sopra di me distinguo chiaramente i sassi che rotolano, dal rumore dei duri zoccoli di qualche capra che le pareti e il vento trasporta tra le gole. Il vento fa eco producendo voci irreali, qualche volta sembrano uomini che gridano, altre volte un lamento lugubre fa raggelare il sangue, qualche volta risa di bimbi. Si può vedere e sentire qualunque cosa, nel deserto. Forse i Djiin non c’entrano nulla. Le paure materializzano i fantasmi della nostra mente, ma ormai ho passato quel periodo. Ora sento solo quello che c’è, sento solo quello che il deserto mi dice. La sua voce mi appare limpida. La mia mente non interferisce più con gli insegnamenti del Nulla (Sahara significa Nulla).  Perché quaggiù sono così sicuro? Perché questa sicurezza scompare appena ritorno a casa? Perché non mi sento più a mio agio nella mia vita dove tutto è sicuro? Credo di aver ribaltato le cose. Chiunque sarebbe al sicuro a casa sua e a disagio in un ambiente ostico e duro come il deserto. Mi addormento tranquillo come quando, da piccolo, i miei genitori mi permettevano, qualche volta, di addormentarmi tra di loro. Ricordo la sicurezza che provavo, il caldo dei loro corpi e l’amore che mi trasmettevano. Qui, nel buio della notte, tra le rocce e la sabbia, in mezzo a scorpioni e serpenti, tra la morbida terra ed il magnifico cielo provo la stessa sensazione. Mi sveglia un brontolio lontano.


Nella  valle lontana, raccolti sotto un traliccio,dei cammelli bradi si preparano a cercare pascoli più grassi. E’ già giorno. Poltrisco ancora per qualche tempo godendo del tepore che la parete, alta su di me e già illuminata, mi irradia come una amorevole madre. Qualche secondo e sono già pronto, ma per fare cosa? Non lo so più neppure io. Forse solo per continuare a vivere.

2 commenti:

  1. Vivo nel Sinai, e so cosa vuol dire amare il Deserto...

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  2. Grazie Nuanda,
    la tua testimonanza mi conforta del fatto che forse quello che provo traversando quelle lande roventi non è solo frutto della mia mente, ma è qualcosa che il deserto emana, specialmente nel Sinai, e che si insinua nell'animo delle persone predisposte a riceverlo. Ciao

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