domenica 1 aprile 2012

IL TEST: IL GEBEL "AT EL GHARBI"

“Per vagare nel deserto bisogna sapere quanto resisti alla fatica a temperature di 60 gradi, quanto sai ignorare la sete, quando i crampi si impossessano del tuo corpo e ti bloccano inesorabilmente, quanto sai ricacciare indietro la paura, quando è il momento di fare una dignitosa ritirata. Ma per sapere queste cose bisogna necessariamente affrontarle, per cui un giorno particolarmente rovente partii per il gebel  At el Gharbi....”

                                Il gebel "At el Gharbi"
(L'At El Garib .1095 m.La base è a 150 m di quota. Al centro il canalone, a dx la vetta)

Al mattino mi avvio verso il canalone che avevo intravisto quando ero andato il primo giorno con Filippo. Avanzo spedito perché conosco la strada, ma il caldo è in aumento implacabile.

All’attacco del canalone comune già è sui 51 gradi all’ombra. Il canalone si impenna sulla mia destra ed è limitato ai lati da immani pareti.

Il suo fondo è composto da massi enormi anche di 10 m. di altezza, precipitati dalle pareti sovrastanti e levigati dai millenni di vento e sabbia.

Salire tra tali massi è fantastico, ma si reggono per sfida.  Quando il sole li raggiunge si lamentano come dei bimbi e scaricano molto del loro fardello. Un’acacia ormai morta è l’unica, remota, traccia di vita.

 Dall’alto scende un alito rovente, non posso aiutarmi con le mani, mi gira la testa e le gambe cominciano di nuovo a dare segni di crampi.

I passi sono corti, non posso salire allungando le mie leve perché subito un muscolo mi ricorda che sta soffrendo e reclama i suoi diritti. Non ho orinato da ieri mattina nonostante tutta l’acqua che ho bevuto. Speriamo che i miei reni reggano fino alla fine.


Ho le mani e le caviglie gonfie, ma salgo verso un torrione incombente. Ora bisogna arrampicare e i bastoncini mi danno fastidio, ma non posso abbandonarli.

Cerco di sfruttare le zone in ombra per arrampicare senza ustionarmi le mani. Poi decido di tenermi fuori del canalone, sulla mia destra, arrampicando direttamente sulla parete ormai in ombra. 

La roccia è rotta,  piena di fessure ma nel complesso compatta, sembra la via Sucai del Corno Grande. Come scenderò ? Avrò la possibilità di trovare un percorso alternativo? Non mi riferisco alle difficoltà alpinistiche che sono molto basse (forse non superano il terzo grado) , ma ad una eventuale impossibilità fisica del sottoscritto in caso di crampi. Esco su una zona più facile e torno di nuovo nel canalone.

Il termometro ora segna 53,4 gradi all’ombra e ora capisco come il Signore abbia potuto piegare l’animo dei profeti e di Mosè. Ora capisco cosa può fare Allah. Ora capisco come è fragile l’animo umano. Mi sento in balia del destino. “Allah a’lam”. Dio solo lo sa. Salgo ancora ma il respiro è affannoso, eppure non sto facendo una grande prestazione atletica.

Mi sento svuotare dalle forze come una botte stappata. Il sudore mi offusca la vista e mi brucia gli occhi. Mi appoggio sui miseri bastoncini come un’alpinista sull’Everest.  Come un guerriero che si appresta all’attacco, alzo le braccia verso il cielo ed urlo con tutte le mie forze. L’eco amplifica la mia voce che rimbomba tra le rupi.

E parto velocemente immaginando di essere sul   sentiero del passo del Dottore in una fresca serata estiva, come tante volte.  Perché non sono lì?
Il respiro si fa affannoso, ma non devo cedere, devo uscire in ogni caso da quella trappola ardente, ed il più presto possibile.
Per un momento dimentico le ginocchia, ma i muscoli delle cosce sono pericolosamente vicini a crampi devastanti, mentre il sartorio di ieri ancora non accenna a placare la sua ira. Per inciso, dopo circa un mese, ancora sento dolore ad alcuni movimenti della gamba, durante il cammino.

Una torre rossastra si innalza su di me, al centro del canalone, il sole arde sulla sua cima.
Probabilmente sopra di lei c’è solo il cielo, ma da qui non posso esserne sicuro. Un piccolo terrazzo all’ombra mi permette di riposare. Con la fotocamera digitale scatto una foto a me stesso e la rivedo immediatamente.

 Il mio viso è terrificante, alterato dal caldo e dalla fatica, una smorfia disumana è stampata sul mio volto. Qualche tempo fa avrei deciso di scendere, ma ora le cose sono diverse. Qualcosa è scattato dentro di me e mi ha cambiato.  In questo ambiente sconosciuto mi sento libero di esprimere tutta la mia volontà. Perché dovrei tornare indietro? Perché potrebbe essere pericoloso. Pericoloso per che cosa?   “Allah a’lam”. Per la prima volta mi sento libero di salire o scendere, di riposare o camminare, di vivere o di morire.

Non riesco quasi più a sollevare la gamba destra per salire a causa del dolore del sartorio, ma ora posso di nuovo usare i bastoncini e posso scaricare su di loro molto del mio peso.

Probabilmente ho una “ispissatio sanguinis” perché le orecchie pulsano e odo rumori ad ogni passo, le vertigini mi tormentano e penso che senza i bastoncini non potrei proseguire. Finalmente il canalone si allarga sotto la torre ed un alito di vento torrido mi invade la faccia. Sono arrivato, solo la torre è sopra di me.


 Tento di salire, ma sarebbe un evidente suicidio. Lasciamo ad Allah il nostro destino, non interferiamo sul suo volere.
Lui sa quando arriverà la nostra ora . “Inch Allah”. Dopo alcuni metri su una fessura in ombra desisto e mi avvio verso sinistra con la speranza di trovare una via di discesa meno problematica.

Dopo alcuni gendarmi che supero arrampicando, scorgo il passo che avevo raggiunto con Filippo il primo giorno. La via è sicura. “Hamdullah! ” Dio sia lodato. Scendo quasi subito perché mi rendo conto che le mie condizioni fisiche stanno rapidamente peggiorando. Ho bisogno di liquidi, ma non ne porto. Devo vedere quali sono i miei limiti. Ma avrò dei limiti? Ogni volta che credo di essere arrivato, improvvisamente il limite si sposta in avanti e posso (devo) proseguire, ma ora credo di essere al capolinea. I crampi iniziano la loro danza e mi bloccano le gambe. Credevo di essere finito, ma non sapevo di stare solo facendo le prove di scena della rappresentazione della prima uscita in bici.

(L'At el Gharib dalla base. La cima è alla sinistra in fondo.Già l'accesso è complicato)
Arrivo alla base esausto. O credevo di essere esausto. La pianura è a perdita d’occhio, il sole si appresta al tramonto, i colori del deserto sono fiabesche pennellate rosse sulla tavolozza di Allah.
E’ questo il momento che mi piace di più. Dimentico le fatiche della giornata. Il vento asciuga il sudore del canalone come un gigantesco fhonn. Alla base della montagna trovo i meloni del deserto, quelli che lo scorso anno non sapevo cosa fossero.

Sono i Cytrillus Colocintis, gli “handal” degli arabi. Sono piccoli cocomeri grandi come mele poggiati su una minuscola piantina simile all’edera che si stende sulle sabbie roventi. Il sole presto la dissecca ed l’handal diventa una specie di fragile bolla di vetro contenente i semi. Si stacca dalla sua pianta ed il vento la fa rotolare per pochi o per centinaia di km finchè si rompe e lascia cadere a terra i semi. Pazientemente attendono la prima pioggia che può arrivare anche dopo molti anni ed allora prontamente germogliano risorgendo alla vita.
Sono immerso nei mei pensieri durante l’attraversamento della piana e non mi  accorgo della presenza di un cammello e del suo cavaliere. Mi saluta da lontano e si dirige verso di me. Il suo animale è coperto dal telo beduino con pendenti ai lati che conferiscono al cammello un’andatura ulteriormente ondeggiante. Risparmio il racconto dei convenevoli. Spero che mi offra dell’acqua, qualunque essa sia, anche velenosa. Ma forse non sapete che per un beduino è quasi un’onta portare dell’acqua per viaggi di uno o due giorni, chiaramente a dorso di cammello, perché nessun bedu va a piedi. “ Da dove vieni? ”  “Magreb, gebel”. Ovest, dalle montagne. Ed indico il mio tragitto. Deve essere un po’ strano il mio abbigliamento, per loro. Sono coperto solo dal copricapo a velo beduino. Per il resto sono una sorta d’indiano d’America, porto solo i pantaloncini di raso.  Mi accerto che il cavaliere non possieda acqua guardando accuratamente e poi porto il discorso sul prezioso liquido prendendolo alla larga e facendo capire che la cosa non è importante. Della risposta capisco solo “Atech” ed “ el ma”. Sete ed acqua. Mi sta chiedendo se ho sete. Io rispondo in un’arabo maccheronico ma che probabilmente comprende.
“Anta Bedu la el ma, a na italiano, la el ma”. Tu bedu no acqua. Io italiano, no acqua. Se tu bedu puoi stare senz’acqua , anch’io italiano posso farlo. Mi guarda con serietà, in silenzio, poi un sorriso appare sul suo volto. Incita il cammello ad andare e grida mentre si allontana: “ Anta la Italiano, anta bedu" Ridendo: " anta Bedu! “. Tu no italiano, tu bedu, tu bedu” e scompare al trotto nel crepuscolo. Nelle sue parole ci ho colto un senso poco velato di disprezzo...........





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