mercoledì 18 aprile 2012

IL WADI EL AT


"Mettiti in cammino anche se l'ora non ti piace. Quando arriverai l'ora ti sarà comunque gradita" ( Proverbio Tuareg)

(  Ndr:Le foto sono pessime perchè sono state riprodotte da diapositive. Molte volte sono tornato in quei luoghi con una digicamera ed ho effettuato foto migliori, ma ho preferito inserire le originali che si riferiscono al preciso momento della descrizione)
Eccomi ancora qui.
L’aereo vola sul deserto. Il golfo di Suez è sotto di me, poi volo sul Wadi el At e un tuffo al cuore mi prende come alla visione di un’amante. Il Wadi el At. Vidi per la prima volta nel 1998 il Wadi El At e ne rimasi affascinato.
                            (La parte alta dello wadi El At vista dall'aereo)
Le sue curve sinuose correvano nella mia mente come una bella donna, pericolosa e misteriosa. A piedi percorsi il primo tratto ripromettendomi nel futuro di completare il suo tragitto. Come una maledizione del faraone, nel 1999, il passaggio al “Crogiolo di Allah” si presentò alquanto complicato per via della mancanza d’aria che di quanto in quanto si manifesta al suo centro, come ebbe a dirmi un beduino.
Lo scorso anno partii con la bicicletta, non sapendo cosa avrei dovuto affrontare. Percorsi circa 50 km fino ad un villaggio abbandonato ed oltre, quando, improvvisamente, il cambio si bloccò. Si ruppe il deragliatore e vidi la catena pendere miseramente ed inservibile sulla sabbia. Non sapendo quanto fosse lontano il golfo di Suez e la città di El Tor, non mi rimase che dirigermi a piedi verso nord con la speranza di incontrare la strada asfaltata. Mi avviai mestamente spingendo la bicicletta su terreno rovente ed inconsistente, ma il Signore del deserto aveva deciso diversamente. Infuocò la sabbia con 59 gradi all’ombra disidratandomi completamente e procurandomi crampi devastanti. Arrivai alla strada asfaltata quando avevo quasi perso le speranze del ritorno.  Quest’anno devo percorrerlo, speriamo vada tutto bene. Tutto bene!  Come è facile dirlo. Tutto bene…..senza Filippo. Filippo che lo scorso anno non  portai al Wadi el At quasi per una premonizione…. Ma aspettava al mio arrivo ed io sapevo a chi raccontare le mie disavventure, sapevo che c’era una persona a cui veramente interessavano i miei racconti, ma la cosa più grave è che era l’unica persona  cui io avrei desiderato raccontare le mie gite. Chi altro ora poteva capire? Lui era l’unico che era venuto con me nel deserto. Con lui avevo respirato l’aria rovente nei canaloni dei monti ardenti, con lui avevo camminato sulle sterminate distese bollenti discutendo della vita e della morte.  Su come bastasse poco per essere felici. Discutendo con la bocca impastata di saliva densa e vischiosa su cose che nessuno può sapere. Solo Lui ora sa. Noi dobbiamo aspettare. Grande è la curiosità di sapere. Questo mi consola molto sulla morte e non me la fa temere. Il più grande mistero su cui l’umanità ragiona da sempre ora Filippo lo conosce. Chissà quanto dovrò aspettare io per sapere….
L’aereo vola sul wadi. Sembra un’inezia da quassù, ma può uccidere un debole uomo come fosse una mosca fastidiosa.
          ( Il percorso del wadi El At visto da 25 km di altezza da Google eart)
Guardo indietro dal finestrino per sapere cosa mi aspetta dopo il villaggio abbandonato, ma è troppo veloce e non faccio in tempo a fissare alla mente il tragitto. L’atterraggio arriva subito dopo. Cerco la bicicletta all’uscita dei bagagli. Certo! Quest’anno ho portato la mia bici, tanto per non avere sorprese. Ma è una battaglia per metterla sull’aereo e trasportarla come un normale bagaglio. Ho lasciato fuori dall’imballagio la ruota posteriore per poterla trascinare e poi ho legato delle cinghie che mi permettono di sollevarla con la spalla, come una tracolla. Le hostess mi chiedono dove diavolo debbo andare con la bike e ho un bel dafare per spiegare le mie intenzioni, visto che non sanno neppure l’esistenza dei bastoncini da sci a cui mi appoggio tanto per lenire un po il dolore alle ginocchia dopo tre ore immobilizzato su un sedile d’aereo particolarmente stretto e malagevole.
Nulla di nuovo, conosco ormai il posto come le mie tasche, ma il tramonto dietro i ripidi monti è sempre uno spettacolo affascinante.

Appena arrivato monto la bici per tenerla pronta per il mattino successivo. Il primo intoppo. Durante il trasporto si è perso un tacchetto di un freno. Bella fregatura! Quest’anno ho portato tutto ciò che possa servire per riparare qualunque cosa si possa rompere ad una bici e tutto ciò che possa essere un pezzo di ricambio, ma non ho pensato che potessi perdermi un freno. Comunque il Wadi El At è in pianura. (Ndr: in realtà poi mi sono accorto che sale dal livello del mare fino a 1100 m di quota)). Se ne riparlerà i giorni successivi quando, se tutto va bene, andrò un po in giro per i monti.
L’alba è luminosa come sempre, ma mi accorgo di cercare in me mille scuse per non andare. Devo andare a cercare un freno….forse è meglio andare prima al mare, tanto per vedere come stanno i pesci…..forse si sta alzando il vento visto che c’è un strana luminosità….meglio fare prima una piccola gita per vedere se qualcosa è cambiato…meglio….meglio! Ma so che sono tutte scuse. Forse non voglio andare. Temporeggio…il tempo passa, la temperatura sale inesorabilmente…Ormai è tardi, se ne riparlerà l’indomani. Un bel bagno in mezzo a pesci che sembrano vestiti con costumi carnevaleschi mi schiarisce un po le idee. Mangio all’apertura della mensa e parto subito.
Mi avvio in salita sulla strada asfaltata che percorsi al ritorno lo scorso anno.5,10,20 km in salita su un nastro diritto di strada bollente, alle 2 del pomeriggio. Con l’aria che trema come un mare in tempesta. I tralicci dell’alta tensione mi si rizzano davanti a ricordo dello scorso anno. Comunque la gita è servita per rendermi conto di dove la strada asfaltata si diriga e quindi di programmare altre gite per i giorni successivi. Esco dal terribile asfalto e mi inoltro per circa 10 km nel deserto e mi dirigo li dove lo scorso anno persi il rullino delle fotografie fatte con Filippo, con la speranza di ritrovarlo, ma inutilmente. Al ritorno filo in discesa, spinto dal vento caldo che alza una sabbia fastidiosa come una carta vetrata.

 Speriamo che nessuno mi si pari davanti perché non ho il freno anteriore. Posso frenare, ma con una certa difficoltà. Il contakm misura 60 km/h. Arrivo come un fulmine al ceck point dell’esercito egiziano e i militi mi guardano con circospezione e si capisce benissimo che non sanno se fermarmi o meno. Poi passo davanti a loro sfrecciando e dribblando le sbarre e i rialzi sul terreno con un sorriso smagliante e saluti cordiali. Rispondono con saluti amichevoli alzando al cielo i loro fucili.

Ma il mattino arriva presto e finalmente parto. Farò il giro al contrario rispetto allo scorso anno. Quindi entrerò nel deserto dalla strada asfaltata.
Dopo 5 km prendo la prima pista a sinistra che si perde all’orizzonte. Fa uno strano effetto stare di nuovo in questo luogo. I tralicci si allontanano presto. La bici fila veloce ed io sono ancora riposato. Viaggio a 15/ 16 km/h.. Non è poco visto il terreno malagevole, con sabbia e brecciolino, ed anche il lieve salita. E poi porto 6 litri d’acqua dentro una borsa termica ed un bel panino con datteri, miele e formaggio. Questo nutrimento, scoperto quest’anno, mi accompagnerà d‘ora in poi nelle mie escursioni nei deserti.
Percorro terreno conosciuto e lascio la pista per dirigermi verso ovest, verso i monti che fiancheggiano e formano il wadi. Riconosco persino gli avvallamenti percorsi lo scorso anno. Lì ho avvistato per la prima volta i tralicci, laggiù sono caduto a terra in preda ai crampi, qui ho avuto delle allucinazioni …..All’orizzonte sagome familiari mi tranquillizzano: il genel Wa’Ir, l’At el Garib, il Ruvesat El Nima minuscolo nella distanza. Intanto si avvicinano i monti. Sono a poche centinaia di metri dalle pendici che si innalzano repentine.

 Sotto la parete c’è uno stazzo di capre ed alcuni cammelli sonnecchiano pigramente come è loro abitudine. E’ un nomade. Dove diavolo si trovava lo scorso anno? Forse sarebbe bastata solo la sua presenza per tranquillizzarmi. Mi avrebbe detto quanti km era lontana la costa. Sarebbe stata tutta un’altra cosa sapere cosa mi aspettava invece che brancolare nel buio. Non mi avvicino, come è mia abitudine. Non mi piace molto confrontarmi con persone che tutti i giorni combattono contro la sete, contro la fame, contro una natura meschina e disumana. Non mi piace parlare con loro che vivono tutti i giorni la vita che io cerco due o tre volte l’anno. Loro poi però rimangono li, con poche capre e due cammelli, contro le tempeste di sabbia e non possono abbandonare la sfida quanto si sono stancati. Questi però sono problemi miei, perché in realtà essi sono estremamente cordiali e come tutti i nomadi sono avidi di contatti umani.  Ma ora sono nel Wadi che serpeggia a destra tra due pareti di monti. Mi trovo un po prima del villaggio abbandonato. Riprendo finalmente la pista che nonostante sia estremamente faticosa, in realtà dona una notevole sensazione di sicurezza.


Ricordo ogni metro della pista. Del resto in questo punto stavo camminando a piedi, lo scorso anno, spingendo mestamente la bike in panne con  in corpo le ultime gocce  di umidità. Compaiono le due acacie all’ingresso del villaggio abbandonato. Ecco laggiù la torre circolare in muratura bianca. Sventola una bandiera sulla sommità! Ma come! Sventola una bandiera?

Chi diavolo e per quale ragione ce l’avrà messa? Pedalo con gran lena con un rapporto molto corto e con molta curiosità. Sento delle voci alla mia sinistra. Tre o quattro bimbi mi vengono incontro correndo. Mi raggiungono presto ed il più piccolo mi invita a portarlo sulla bici  come se conoscesse già la possibilità di essere trasportato sulla canna. Pensa un po!!!! Sono gli stessi bimbi che lo scorso anno avevo dovuto portare a fare un giro quando ero passato dentro il loro villaggio circa  15 km da qui. Le grida di gioia richiamano altri bimbi. Sono intrappolato e l’unica via d’uscita è quella di portare le piccole pesti sulla misera bicicletta che arranca nella sabbia come un verme ferito. Meno male che è passato un anno ed alcune bambine sono cresciute e quindi forse si vergognano un po di chiedere anche loro di fare un giro, così come fanno i più piccoli. Prego ed imploro di lasciarmi andare, poi adotto la stessa tecnica dello scorso anno. Li distraggo con una scusa e poi fuggo con tutta la forza che ho nelle gambe. Mi seguono un po di corsa, con i piedi nudi sulla breccia rovente, poi finalmente abbandonano l’inseguimento, ma le sorprese non sono finite.
Dopo qualche centinaio di metri, appena dietro una curva, vedo una  fanciulla che si schernisce dietro il velo, la riconosco come una bella  bimba che lo scorso anno correva a gambe nude nella sabbia. Il velo significa semplicemente che sono mestruate, quindi che ormai sono donne. Non possono comportarsi più da bambine e devono rispettare i dettami coranici, mentre i suoi amichetti sono scalmanati come si addice a qualunque bambino. La chiamo per farla salire in bici, ma non ottengo risposta. Quando sto partendo gli faccio un’ultimo invito, ma ottengo solo il risultato di farla coprire maggiormente. La vedo allora guardarsi attorno con circospezione, come per controllare se fosse osservata , attende qualche secondo, poi corre verso di me e si siede sulla canna, senza proferire parola…………
Le voci dei bimbi si allontanano, ma altre le sostituiscono, anzi si sente addirittura della musica occidentale. Che roba! Sapete cosa è successo?
Il villaggio è popolato perché hanno creato un maneggio dove numerosi turisti cavalcano dei bellissimi cavalli. Sul momento sono piccato, poi penso un momento alla vita di questi nomadi e la rabbia sbollisce. Possono forse mitigare un po le condizioni di estrema miseria, comunque la moneta estera per loro è estremamente preziosa. Per noi pagare un prezzo che è la quinta parte di quello che costerebbe in Italia è ben misera cosa, per loro è un vero tesoro che può bastare per tirare avanti una vita quasi da signori, secondo il loro metro.
   (Dei bontemponi italiani hanno messo questo prezioso cartello esplicativo appena dopo il villaggio)
Poi cosa mi tolgono? Nulla.  I turisti non si allontanano dal villaggio, trotterellano come in una giostra attorno alle case timorosi forse del deserto. Non ne ho più incontrati dentro lo Wadi. Il caldo comincia ad essere opprimente ed io debbo pedalare ancora, anzi ancora non inizio a pedalare.
Ho percorso 28 km dalla costa. Leggo il contakm dopo il villaggio, lì dove lo scorso anno si ruppe la bicicletta. Se avessi saputo che avrei dovuto percorrere 28 km a piedi con 59 gradi all’ombra, senza acqua, forse non ce l’avrei fatta. Oggi è tutta un’altra cosa. Il caldo è accettabile (46 gradi), porto tanta acqua, e il villaggio è abitato stabilmente. C’è anche un piccolo bar sotto una veranda in muratura. Mi sembra quasi di stare sprecando il  mio tempo, ma mi sbagliavo, come al solito.
Ben presto le case del villaggio scompaiono, le voci ed i suoni vengono ingoiati dalle pareti che fiancheggiano lo wadi. Da qui il terreno mi è sconosciuto.


Il vento mi aiuta a pedalare nella faticosa pista spingendomi da dietro. In realtà la cosa non è poi così positiva perché, soffiando alle spalle, dona come risultante una calma assoluta relativamente a me che procedo in direzione del vento. Il caldo improvvisamente aumenta la sua intensità, come se si fossero aperte le porte di un forno. Credevo che oggi avrei scampata la battaglia contro la forza del sole. L’unica soluzione è fermarmi di tanto in tanto e permettere al vento di rinfrescarmi un po.  Ancora non ho finito la mia prima bottiglia d’acqua e quindi sono sicuro di me stesso. Ce l’ho fatta l’anno scorso senza acqua  e a piedi, figuriamoci quest’anno!!

Il dilemma però, e che non so quanto è lungo lo wadi e quindi l’unico problema è quello di decidere quanto tornare indietro. Non è un problema di poco, nel deserto, in estate. Ho capito negli scorsi anni che un piccolo errore di valutazione può risolversi in una tragedia. Ora però mi fido della mia bicicletta. Il ritorno è tutto in leggera, ma costante discesa ed il vento mi raffredderà, quindi posso andare molto avanti. Devo però ricordare che al ritorno non potrò andare direttamente alla costa, ma devo seguire tutto la wadi, per percorrerlo interamente. Alla fine saranno 120, 130 km. Non sembrano molti, detto così, ma sul terreno, in pratica è tutta un’altra cosa.
Alla mia sinistra si alza una roccia di 15-20 m., spaccata da una fessura larga circa 1 m. che la divide esattamente nel centro. Sembra fatta ad arte da scalpellini abili. La valle gira a sn e devo salire su un gradino di circa 5 m. Al di la l’orizzonte si allarga. I monti alla mia sinistra incombono alzandosi direttamente da 350 m (l’altimetro segna questo valore) fino a circa 1600 m del gebel  At el Sharqui.

Lo wadi sembra infinito…. Un groviglio di catene montuose, di fossi , di valli da valicare, che con la bicicletta non è affatto semplice. Spero che la pista non sia molto difficile, che abbia un fondo duro, pedalabile. La temperatura è ancora accettabile, si avvicina ai 50 gradi, ma è gradevole.
Ora il sole sembra un po meno crudele e mi riposo un momento sotto una roccia che forma un piccolo tetto, dove si annida una striscia esile ed effimera di ombra.
Ora lo wadi si allarga ancora di più e non si intravvede ne si intuisce la  fine. Del resto lo sapevo che questo wadi era lunghissimo, era immenso. Ora dovrebbe girare a sn e salire verso un passo che scende poi verso il golfo di Suez.  Ad ogni curva sorgono altre montagne. Sembra una matrioska. Sembra finito, poi si allarga nuovamente, mentre le montagne lo proteggono dal vento fresco ed il sole può fare da padrone. Non c’è fine.
Purtoppo ora la pista è diventata una sorta di tole ondulè. Sono queste le piste caratteristiche che si formano nel deserto, caratterizzate da continue ondulazioni, le cui creste sono distanti circa 30 cm e profonde circa 10 cm. Queste onde riescono a mettere in vibrazione qualunque tipo di mezzo meccanico che le percorra, smontando ogni più piccola parte meccanica che possa essere smontata, figuriamoci come smonta la schiena e le gambe di chi pedala.

                                       (La maledetta "tole ondule')
 Quando posso esco fuori pista, anche se la fatica è maggiore, ma spesso la sabbia molle me lo impedisce completamente.
Ora la pista si fa migliore e lo wadi spiana.  Passo sotto la parete del Barakat, orribilmente contorta e aggettante sullo wadi che sembra quasi volersi allontanare da lei, impedito però dalle montagne alla sua destra. Non c’è alcun rumore, non c’è neppure qualcosa che possa far rumore, ad eccezione del vento e quando anch’esso cala, il silenzio è assoluto ed opprimente. 

 Il wadi El At è veramente degno della sua fama. Io credo di stare esaurendo le energie. Ho la faccia completamente bruciata dal sole e dalla disidratazione. Fino ad ora il sole non permetteva di apprezzare la profondità del paesaggio. C’è una cappa di foschia dovuta al calore. Qui è una galleria d’arte che ha per confini la vasta cupola blu del cielo e la solitudine dell’orizzonte e che appare così lontano da sembrare irraggiungibile.

Questa galleria accoglie delle sculture create dall’erosione, sculture che a volte la riempiono e dominano e altre volte soggiacciono allo spazio, schiacciate dal blu del cielo e dal giallo della sabbia e le torri di roccia sono una semplice punteggiatura posta sopra le loro stesse ombre.
Le leggi della natura hanno creato nella roccia e nella sabbia delle forme d’arte, che sono allo stesso tempo naturali  ed astratte; una combinazione di reale e surreale, misteriose, vagamente conturbanti, di una serenità di sogno e tuttavia cariche di una non ben definita minaccia.
A mezzogiorno il deserto è pura luce solare come mai si riscontra nelle zone temperate. Luce bianca di una tale potenza da ridurre a niente le forme, privandole della propria ombra. La luce brucia anche i colori del paesaggio, lasciandolo irrimediabilmente sterile.  Più tardi, quando il sole si avvicina all’orizzonte, le forme prendono corpo e si stagliano nere e nitide contro un cielo rossastro; una nuova luce, che per un’ora prima del tramonto reca ristoro alla crudezza del giorno. (cfr "Sahara "Mondadori)
Alle mie spalle c’è un brulicare informe di massi che sembra la materializzazione della sete e della fatica. Quest’anno però porto l’acqua. Lo wadi El At ha vinto. Lo scorso anno mi ha distrutto e mi ha costretto a lasciar perdere il mio proverbiale fair play che evidentemente lo è solo quando mi fa comodo. Sembrava finito ancora una volta, ma ancora una volta prosegue aprendosi in una vasta valle a guardia della quale si innalza una cupola nerastra sormontata da una torre.

 Da lontano sembrava una costruzione artificiale, tanto è la purezza della sua forma, ma la natura, quando vuole, sa costruire con una precisione che neppure gli ingegneri possono fare. Ancora qualche curva ed è finito. Davanti a me la parete circolare del Barakat chiude come una diga l’immane wadi.
Alla mia sinistra la montagna sembra concedere un po di respiro e molto probabilmente è li che si inerpica una traccia di sentiero che permette di accedere al versante di El Tor, Sarebbe bello raggiungerla, ed affacciarsi e dominare tutta la piana sabbiosa di Suez, ma mi sembra che il dislivello da qui sia di 3-400 m.e d il pendio è esposto ai micidiali raggi del sole.
Meglio non sfidare per la seconda volta la sorte. Allah potrebbe non essere ancora così misericordioso. 
               (.......è finita....)
 Nei momenti di tempesta, quando piove a dirotto per qualche ora, l’acqua si raccoglie nello wadi e corre giù fino a Naama Bay. Il bacino imbrifero è enorme e tutta l’acqua sfocia alla costa nei pressi del villaggio Moevenpick che verrebbe inghiottito se immediatamente a monte non fossero state erette tre dighe. 
      (Al centro una delle tre dighe erette allo sbocco dello wadi El At)
Io  però credo potrebbero essere insufficienti nel caso di un alluvione veramente catastrofica come quella del 1965 o come quella a cui ho assistito nel sahara marocchino solo due mesi dopo.
Dopo il villaggio ho trovato un solo essere vivente, un’acacia isolata, unico alimento dei cammelli che evidentemente la disdegnano data la sua posizione non troppo comoda da raggiungere.
Estraggo il sellino della bici e mi accomodo sul terreno rovente. Ho la strana sensazione di stare ancora pedalando. Mangio finalmente il panino con i datteri ed il formaggio e bevo abbondantemente l’acqua che ho portato copiosa non senza un velo di colpevolezza per non essere riuscito ad arrivare  con le mie sole forze.  Gratitudine alla natura per avermi permesso di arrivare fin qui e vergogna per non aver resistito a portare con me un pezzo di civiltà (la bicicletta) si accalcano nella mia mente. Mi rendo conto di fare dei ragionamenti senza senso, ma forse sono i primi sintomi del sole implacabile e della solitudine opprimente.

Il deserto mi ha aperto le sue porte? Aspettiamo a dirlo, devo ancora percorrere 60 e più km per tornare a casa e devo anche superare il crogiolo di Allah che avevo diligentemente evitato all’andata. Forse, visto che ormai non so più cos’è il fair play, eviterò il crogiolo anche al ritorno aggirandolo alla sua sinistra e rientrando nell’El At attraverso il Wadi Wa’Ir.
Vedremo più tardi se le forze mi assisteranno ancora, ma credo che la paura che possa succedere qualcosa alla bici al centro della depressione sia più forte della voglia di attraversarla.  Credo che il mio sesto senso stia gridando di non forzare troppo la corda, la fortuna non è infinita ed ognuno di noi ne ha una quantità limitata.  Ho molte volte provato la sensazione di stare in armonia con il luogo in cui mi trovavo, anche nelle situazioni più scabrose, in mezzo alle bufere, alla nebbia, al buio. Sapevo che non  poteva succedermi nulla. Altre volte, all’opposto, ho provato l’angoscia di essere estraneo anche in situazioni relativamente tranquille ed apparentemente sicure.
         (La parte sn dell'infernale piana del "crogiolo")
Ecco! Il Crogiolo mi dice di non appartenergli. La sola vicinanza di quel luogo mi turba, e sono quattro anni che mi ci avvicino e lo percorro, ma è sempre la stessa cosa. Una voce interna mi avverte di stargli lontano. Sono sicuro che è solo la mia immaginazione, ma troppe volte ho dovuto ammettere che queste sensazione sono poi risultate vere. Forse è la voce del deserto che materializza le mie paure, forse è solo qui dove il silenzio è assoluto, che  possiamo sentire  il nostro inconscio ed il Crogiolo, nella sua drammatica purezza, nella sua forma perfetta di antenna parabolica puntata verso il sole, forse ci fa ricevere le trasmissioni della nostra anima. Ora mi spiego perché ne ho paura. Forse ho paura di parlare con il mio incoscio. In lontananza intravvedo una torre, alta sulle montagne circostanti. E’ una parete liscia e senza apparenti imperfezioni. Si trova all’incirca allo sbocco del Wadi Mandar che ho intenzione di attraversare nei giorni successivi.
Mi preparo a partire  con il sole finalmente alle mie spalle e con il vento che mi accarezza il viso ustionato e le labbra screpolate e secche nonostante l’acqua bevuta ed il burro di cacao, che è l’unico vezzo che mi permetto, insieme al perenne copricapo, evitando accuratamente le creme solari.
         ( Impercorribili per le mountain bike gli orridi wadi laterali che si gettano nell'El At)
Filo come un fulmine sulla pista del ritorno e la prospettiva contraria mi fa scoprire nuovi paesaggi, resi irriconoscibili dall’incedere del sole che dipinge ora con toni rossi ocra tutto  ciò che tocca. Il vento raffredda il mio corpo come un radiatore e mi dona nuove energie che evidentemente tenevo gelosamente nascoste a me stesso ed al deserto.
   (Le ombre si allungano...)
 Pedalo in leggera discesa macinando km su km e ben presto sono di nuovo al villaggio beduino. Due cammelli oziano sotto l’ombra di un’acacia. Chi sa se sono gli stessi che lo scorso anno tentai di montare per farmi portare poi non si sa dove, ne come. Nel sole tiepido del pomeriggio sono arrivati alcuni turisti che trotterellano attorno alle rocce del villaggio con i cavalli scalpitanti, accompagnati dall’altoparlante che emana note musicali moderne e fastidiose. Poi penso che i beduini abbiano scelto quel modo poco ortodosso per non far perdere gli sprovveduti turisti che vengono così guidati verso il villaggio da quelle improbabili note.
   ( Le torri che fiancheggiano l'El At al tramonto disegnano la loro ombra nel deserto)
Mi allontano dal villaggio con un sospiro di sollievo, ma ora non posso fare la strada già percorsa, direttamente alla strada asfaltata. Devo girare alla mia destra seguendo tutto lo Wadi, fino al promontorio del Tower, a sud di Naama Bay.
Supero una valle che taglia lo wadi con un’angolo che non  mi spiego e riconosco il punto dove lo scorso anno abbandonai lo wadi per inoltrarmi su terreno sconosciuto con la speranza di riuscire ad arrivare alla costa. Davanti a me il Crogiolo che bolle ed ondeggia come il flauto dell’incantatore che ammalia gli occhi del cobra e alla mia sinistra, la parete verticale del Gebel Wa’Ir che attira la parte più pavida di me.
                                                               (Il gebel Wa'ir al tramonto)  Il deserto ora assume colori da fiaba, mentre la via da prendere per proseguire è presto decisa. Aggiro il Crogiolo…..
Passo lateralmente al Gebel Wa’Ir che si erge fiero sulla piana infuocata e riprendo una pista caotica, piena di tracce di fuoristrada. Presto capisco il perché. Di fronte a me appare un misero villaggio dove scopro ben presto che i beduini hanno edificato una costruzione in muratura ed innalzato una grande tenda dove ricevono i turisti dei villaggi per la famosa “cena beduina”.

La tenda è incastonata tra le precipiti pareti del monte che non le lascia nemmeno lo spazio per sbattere gli orli tormentati dal vento perenne del deserto. Un po più avanti un ben nutrito gruppo di giovani siedono a terra sotto l’ombra di una roccia e da come mi trattano freddamente e con sufficienza chiedendomi del danaro, capisco che purtroppo sono entrati a stretto e ripetuto contatto con i turisti del mondo occidentale. Non mi è mai successo che qualche nomade mi abbia mai chiesto dei soldi. Capisco che questi luoghi sono le Split Rock, da dove entrano nel deserto le moto a quattro ruote per fare le gite a partenza da Naama Bay. La civiltà ha già rovinato questa piccola parte del deserto. Non vedo l’ora di allontanarmi da questo luogo, ma poi penso che i beduini abbiano il diritto , come noi, di non avere fame o sete e di non essere legati alla volontà del deserto. Che diritto ho io di giudicare chi ha una vita media di 50 anni ? O chi a 45 anni ne dimostra 80? O chi assiste nella sua vita alla morte almeno di due o tre figli? Comunque con questi pensieri il terreno corre sotto la bici ed arrivo presto al passo. Mi fermo alla sommità per ammirare il panorama ed il Crogiolo appare in tutta la sua terribile bellezza. Il terreno scuro nel suo interno infuoca l’aria che trema  e fa credere di trovarsi di fronte ad una prateria in cui il vento fa ondeggiare la lunga erba. Che ci siano dei bisonti? Tutta fantasia, forse neppure gli scorpioni possono resistere al suo abbraccio. Quando lo attraversai neppure una mosca volò nella sua aria sottile. Mi attardo ad ammirare quello spettacolo per me affascinante e pauroso allo stesso tempo ed il tempo corre veloce, ma devo percorrere solo circa 15 km e su terreno conosciuto mentre il sole si accinge a sfiorare le cime delle montagne più alte.

Mi fermo un instante alla base di una parete che  la sabbia della piana ha cercato inutilmente di conquistare, ricacciata indietro dalle correnti ventose discendenti dalle cime. Si vede chiaramente la pala inconsistente ma terribilmente efficace del vento che ha scavato una larga trincea proprio alla base della parete.
Scendo nella valle su terreno molle ed inconsistente e mi volto indietro. La lunga traccia della bici solca come una firma la sabbia immacolata.

Sono orgoglioso di ciò anche se so che sarà un effimero orgoglio, come tutti gli orgogli. Il vento già questa notte cancellerà il mio passaggio. Ma è come quando si scende con gli sci da un pendio di neve fresca. Qualche volta ci si va solo per ammirare le tracce che si sono fatte. Ci si siede alla base e ci si inebria di quella piccola scia che spesso scompare nel vento già nel momento in cui si sta ammirandola. E’ come la vita, effimera, ma sappiamo che l’abbiamo fatta noi, che l’abbiamo vissuta, anche se per un solo, piccolo istante. Il peggior male per un uomo è non aver mai tracciato una piccola scia li dove si sa che presto non rimarrà nulla. Qualche insetto mi infastidisce e mi ricorda di pedalare con più lena. Gli insetti, infatti,  si presentano al tramonto dopo essersi rifugiati in luoghi sconosciuti per sopravvivere al calore . Devo salire il bordo destro del Wadi El At che appoggia con una grande curva a sinistra e si dirige ormai verso la costa. Il wadi però è interrotto dalle dighe e non più percorribile per cui dovrò proseguire verso il villaggio beduino. Mentre salgo intravvedo i due picchi gemelli del Ruwesat El Nima, sotto cui si abbarbicava l’originale villaggio beduino. Il gebel Ruwesat è come un faro per i tutti coloro che percorrono la sterminata piana, sono un ottimo punto di riferimento. Arrivo trafelato sul bordo dello Wadi e mi fermo un istante per riprendere fiato. Mancano 5 o 6 km al villaggio, ormai sono arrivato.
Mi siedo sulle ormai tiepide rocce di fronte al sole che tramonta dietro le creste tormentate del gebel At el Garib ed intravvedo una valle che si inoltra nelle sue bolge infernali.
      (La valle delle "microonde", dopo il primo ordine di montagne, piega a sn)
 Quella valle nel 1999 l’ho percorsa insieme a Filippo. La chiamò la valle delle Microonde a via del caldo insopportabile che più tardi, nel wadi Madsus minò la sua resistenza. Chissà ora dov’è Filippo. Anzi lo so sicuramente. Egli è qui, tra la sabbia ardente, tra le creste frastagliate delle terribili pareti. La sua voce si confonde con il vento che stride tra le rocce e accarezza la sabbia, alcune volte con un lamento lugubre, altre volte con grida gioiose. Egli ora vola con la polvere che arrossa l’aria del tramonto e vaga nel vento tra gli wadi. Se mi volto lo vedo che mi segue un po attardato, con il suo accattivante sorriso ed accelera il passo per raggiungermi, come tante volte. Sento la sua voce che mi chiama per farmi notare qualche scorcio di inconsueta bellezza e che mi era sfuggito. Ma è lui o è il vento che parla tra le rocce e sulle dune? Che differenza fa ?  So che ora sta nel deserto con me, o sulle distese candide e gelate dei pendii immacolati del Gran Sasso. Non può che essere così. Ognuno rimane nei luoghi che ha amato, non può che essere così. Deve essere così!  Lui è li, in quei luoghi che abbiamo percorso tante volte insieme, e mi chiede della vita e della morte. Tante volte ne abbiamo discusso e sempre abbiamo concluso che noi ritorniamo dove nella vita ci siamo sentiti felici. E per noi non può essere che qui, nelle sterminate distese del Sinai, o sulle più alte e vertiginose montagne, o nel blu degli abissi liquidi e rocciosi. Quando scoccherà anche la mia ora cercateci quaggiù, ascoltate il vento che vibra tra le rocce dei deserti o dei ghiacciai e sentirete le nostre voci. E’ difficile lasciare questo posto, il sole muore finalmente dietro le cime. Qui il crepuscolo è brevissimo, subito il buio vince il giorno e si accendono le stelle. Sono 5 km ma le gambe sono diventate come di piombo. La pista è dura e magnifica nei pressi del villaggio. Sembra che i cammelli che avevo incontrato gli scorsi anni non abbiano cambiato di posto, anzi siano seduti nella medesima posizione in cui li ho lasciati precedentemente.
Il villaggio è diventato di muratura. Belle case a schiera in stile arabo sono state costruite a profusione, sono sorti negozi e bar. Dove sono andate a finire le scure tende ondeggianti nel vento? E il belare degli armenti? Ed i bimbi vocianti che rincorrevano le caprette? La strada asfaltata già all’interno delle case mi si para d’innanzi repentina e il suo fondo levigato riposa  finalmente la mia schiena dopo 140 km di sobbalzi e quasi 12 ore di pedalata ininterrotta, ma infastidisce la mia anima.
Sono altri 5 km per arrivare a casa, percorsi tra i neri fumi dei camion e i rumori dei motori ansanti. IL Wadi el At. Sono tornato……

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