domenica 25 marzo 2012

FINALMENTE.....IL DESERTO

Considerando che avevo poca autonomia deambulatoria, la mia famiglia mi convinse a fare una vacanza in crociera. Data la mia assoluta avversione per le crociere, comunque accettai perché la crociera era non in un mare aperto,ma nella culla della civiltà: era la crociera sul Nilo.

(Io e Roberto -30 anni dopo- alla partenza a Fiumicino)
Inoltre sarebbe venuto con noi anche il mio amico Roberto ( quello dello sperone centrale) e Giansaverio  (Il padre di Filippo) con cui ero e sono molto legato da fraterna amicizia. Avevo sempre avuto una passione per i segreti della millenaria storia egiziana e quindi fui molto felice di partire. Ancora una volta non sapevo che quel viaggio sarebbe stato la svolta della mia vita.
All’inizio la permanenza sulla nave mi faceva sembrare un criceto in gabbia. Mi erano strette le montagne, figuriamoci un “barcone”. Poi mi accorsi di viaggiare nel tempo. Viaggiavamo su un terrazzo e sotto di noi scorreva la vita degli egiziani. Era la stessa vita di duemila anni fa. Quando scendevamo dalla nave si apriva ai nostri occhi la meravigliosa storia egizia con templi immensi, inimmaginabili anche se confrontati con le nostre più grandi cattedrali.
Ma io non potevo non “salire sui monti” ed allora sapete cosa feci? L’unico monte della valle del Nilo è un monte perfetto, che sfida i secoli: LA GRANDE PIRAMIDE.
Purtroppo arrivati a circa 20 m di quota, un nugolo di cartelli in tutte le lingue avvertono i facinorosi che al di la è proibito salire. Cosa fare? Girai attorno alla piramide a livello dei cartelli e solo per caso mi accorsi che dal lato opposto a quello dove arrivano i turisti, i cartelli erano solo in arabo.

(Salutata la moglie mi accingo a partire per la Grande Parete...)
Non mi feci sfuggire l’occasione e salii fin quasi sotto la cima. Improvvisamente si formò un gruppo numeroso di guardie che in perfetto arabo mi redarguivano e mi urlavano qualcosa che non capivo ( immaginate cosa potevano urlarmi…!). Dovetti interrompere l’arrampicata e scendere guardingo ( non è poi così facile) tra gli enormi massi accatastati. Mi accolsero con i fucili spianati e dovetti contrattare lungamente la mia liberazione, mentre tutto il pulman mi attendeva per ripartire. Giustificai il mio errore dal fatto che non conoscevo l’arabo e che credevo che i cartelli intimassero di non rubar reperti e di non sporcare ( inverosimile….). La cosa funzionò e fui rilasciato quando i miei amici ormai avevano perso la speranza di ritrovarmi.
Ma questo è solo l’inizio.

(Le due Sfingi....)
Visitammo tutti i templi e le città, vagammo per i fantastici mercati contrattando qualunque cosa così come gli arabi si aspettano da un acquirente che sia rispettabile.
Poi un giorno……
Tutta una serie di coincidenze, nella mia vita, condite e potenziate dal mio carattere, hanno fatto si che il mio animo avesse bisogno di qualcosa che non sapevo di anelare finchè non l’ho visto per la prima volta. E questo qualcosa era il deserto.
La prima volta che lo vidi fu in occasione di quel viaggio quando, insieme ai miei amici, mi dirigevo all’aeroporto di Aswan per recarmi ai templi di Abu Simbel.  Qualcosa mi disse di non andare e non andai. Io seguo sempre il mio istinto, mi ha salvato innumerevoli volte in montagna.  L’aereoporto dista circa 15/20 km dalla città e si trova immerso nel deserto nubiano. Non avendo preso l’aereo, dovevo tornare in città e come potevo tornarci se non a piedi? La strada, dalla diga, fa un’enorme curva ad angolo retto, inspiegabile in considerazione che è tracciata nel deserto. Quella mattina era ancora notte quando scesi dal pulman che mi aveva portato all’aereoporto. Dovevo andare a est per tornare a casa. Io mi diressi a sud-ovest, ancora in piena notte, inoltrandomi nel deserto, la prima volta…..
Faceva freddo, un freddo glaciale e iniziai a correre più per scaldarmi che per fare un gesto atletico. Una duna si ergeva davanti a me. La sua cresta vergine si svolgeva come la schiena di un serpente. Iniziai a salirla nel momento stesso in cui il primo raggio di sole illuminava il cammino. La mia ombra si allungò all’infinito, nel deserto. Dietro di me le mie stesse orme proiettavano ombre nette. Il deserto era sabbioso e rari sassi neri sporgevano tra la sabbia, mentre rosse cupole rocciose sembravano giochi di bimbi fatti con il secchiello con la sabbia bagnata, sulla spiaggia.
Qualcosa in me stava cambiando, ma io ancora non lo sapevo. Me ne sarei accorto  più tardi, quando dovetti ammettere che solo nel deserto potevo avere consolazione alle mie problematiche ed ai miei dolori. Solo più tardi capii che questo territorio senza cuore, dove nulla sopravvive, era fatto apposta per far sopravvivere la mia mente. Negli anni successivi la cosa  poi sarebbe peggiorata, man mano che le vicende della vita sconvolgevano la mia esistenza. Tanto più dovevo affrontare dolori e delusioni, tanto più mi attaccavo al deserto. Tanto più mi rendevo conto di essere un essere fragile, tanto più dovevo dimostrare a me stesso che neppure il deserto poteva intimidirmi. Tanto più la vita mi dimostrava di essere un pavido, tanto più il mio inconscio esigeva una prova di coraggio.
Tutto questo era misto alla certezza che neppure nel deserto potesse succedermi qualcosa. Correvo nella sabbia, sulle dune, mentre il sole si innalzava incurante di un essere tanto fragile, quando di lontano intravvidi un palazzo scuro. La sua sagoma ondeggiava all’orizzonte, immersa nella foschia. Mi diressi verso di esso, ora andavo verso ovest, allontanandomi dalla mia meta. Corsi per ancora mezz'ora prima che il palazzo fosse nelle mie vicinanze. Ma non era un palazzo, era un alto parallelepipedo nero. Basalto compatto che emergeva improvviso dalla sabbia. Le sue pareti verticali e perfettamente livellate si innalzavano con quattro spigoli scolpiti come con un calibro. Era un monolito perfetto…
E completamente inspiegabile.  Mi sedetti sulla sabbia ancora tiepida. Il sole mi concedeva ancora l’ombra. Poi mi alzai e girai attorno alla torre, cercando un’improbabile porta. Mi allontanai alcuni metri e mi sedetti di nuovo, di fronte al monolito Udii un lieve, sordo rumore, come uno strisciare di serpente tra le foglie.  Aumentò, man mano che il sole si innalzava, poi scomparve, improvvisamente, come rispondendo all’ordine di un comandante. Un silenzio irreale calò sul deserto, il monolito incombeva su di me. Di fronte a questo altare innalzato al cielo capii che ero tornato a casa. Non so descrivere le sensazioni, ma capii che ero sempre stato li, in mezzo a quelle sterminate distese. Il monolito concentrava tutta la mia attenzione, attirava il mio sguardo. Sembrava di essere a “2001 odissea nello spazio” .  Nel film il monolito rappresentava la conoscenza dell’uomo, qui esso era la focalizzazione della conoscenza di me stesso . Era il punto iniziale, dopo avrebbe dato incarico al deserto di proseguire la sua opera. Il giorno dopo ho ripercorso le mie orme per tornare a fotografarlo. Sono sicuro di aver seguito le mie tracce, nella sabbia. Ho camminato per più di quattro ore ( ne avevo impiegate tre a tornare), ma non ho ritrovato il monolito. Può darsi che il vento abbia cancellato le mie orme e che abbia seguito delle tracce di qualcun altro, ma io sono sicuro di aver seguito il mio cammino. Posso aver sbagliato, questo lo ammetto, ma con la stessa probabilità devo ammettere che potrei solo aver immaginato la presenza del monolito. Forse era necessario per iniziare questo viaggio dentro le mie paure, le mie esigenze, i miei tabù ed allora io l’ho creato inconsciamente nella mia fantasia. Ma esso era reale, tangibile, la sua ombra era fresca e perfettamente consona alla sua sagoma e non sfumata come nei sogni.  Io che mi vantavo di essere adattato ai ghiacci ed alle quote, io che credevo di trovarmi a mio agio  nei bianchi ed immacolati pendii nevosi, ora sapevo di essere tutt’uno con la sabbia, le dune, le piane infuocate. Era solo un germe di sensazione. Questo germe sarebbe diventato certezza negli anni successivi, quando con me venne anche Filippo che mi considerava come immortale e quando decise poi di scendere nella sua ultima grotta. Sarebbe diventata certezza  quando capii che vivevo in una gabbia di canne, ma da cui non sapevo liberarmi. Quando ammisi di essere prigioniero di corde di paglia, ma che per me erano più resistenti del titanio.
La fragile gabbia strozzava la mia esistenza, imprigionava la mia anima  e solo nel deserto potevo vedere il mondo come era, e non attraverso le sbarre create forse solo dalla mia fantasia e dalle mie paure. Consideravo la mia normale esistenza come un sogno passeggero da cui mi svegliavo solo quando mi trovavo nelle sterminate distese del Sinai o tra le interminabili hammade del Sahara. O nel  Tenerè, il deserto del nulla o tra le impalpabili dune del Grande Erg occidentale, o tra il sale degli chott.  Mi incamminavo veros il Nilo, assorto in questi pensieri, quando improvvisamente fui sveglito da dei soldati che stazionavano in una casermetta nel deserto. Mi chiesero dove andavo e mi indicarono la direzione da seguire. Io sapevo benissimo dove andavo e seguivo un'altra direzione solo perchè volevo traghettare più avalle invece di traversare la diga di asswan. Non ci fu verso di spiegargli la cosa. Ogni volta che mi allontanavo, miraggiungevano con la jeep e mi costringevano a cambiare direzione. Dovetti seguire la loro indicazione e quindi mi ritrovai alla diga. La diga è lunga quasi 4 km ed è territorio militare strettamente controllato. Non so come feci, ma riuscii, senza problemi ad arrivare quasi al centro della diga, quando improvvisamente mi piombarono addosso tre militari con armi in pugno e mi riportarono all'ingresso a brutto muso. Seppi che non poteva essere superata perchè c'era un posto di blocco rigidissimo in cui si controllavano i documenti. Purtroppo io non li avevo quindi ero bloccato. Potevo sempre scendere a valle e tornare all'altra riva con la barca di un pescatore, quando si fermò un camioncino sgangherato pieno di sacchi. L'autista mi vide ed immaginò la cosa. Evidentemente era conosciuto perchè sfuggì ai controlli. Mi nascose tra i sacchi e mi portò al di la. Questi traccheggi avevano fatto passare il tempo, per cui avevo fatto molto tardi. Mi incamminai verso la nave, quando fui fermato da varie persone che mi chiesero se io fossi  Paolo. Risposi di si ed essi mi fecero tutte un sorriso di soddisfazione. Mah! Come facevano a sapere il mio nome?  Al rientro alla nave tutto fu chiarito. IL capitano aveva semplicemente espresso la sua preoccupazione per il mio mancato rientro, visto che i mie amici erano tornati da Abu Simbel e gli avevano detto di avermi lasciato nel deserto. La cosa era trapelata e tutto il porto era stato sguinzagliato a cercarmi nonstante mia moglie lo avesse rassicurato sulla mia incolumità.
Il viaggio fu indimenticabile, ma tutto iniziò da allora.................

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