sabato 24 marzo 2012

LA VALANGA DEL 6 FEBBRAIO 1983

“Che rabbia !  Oggi sto di servizio in caserma.  Proprio oggi, domenica, 6 febbraio 1983.  Tutti i miei amici del Soccorso Alpino sono in giro per i monti, però lo sono senza di me.” L'esercitazione è stata decisa a monte Jenca, nella zona della Vaccareccia.

Appena svegliato provai un po di invidia non perché io fossi in caserma, ma perché non ero sui monti. C’era in atto una esercitazione del soccorso, sotto una neve bagnata e pesante, che cadeva dalla notte a tratti fitta, a tratti mista a pioggia. Erano le difficili condizioni che mi piacevano, che mi affascinavano in montagna. Peccato che non potessi essere con loro. C’erano tutti i miei amici, da Mimì al caro Riccardo, da Luciano a Stefano, da……tutti, insomma.
Erano tanti anni che facevo parte del Soccorso, ma alcune persone mi erano particolarmente care. Con loro avevo vissuto tante esperienze, più o meno belle, comunque tutte esperienze che legano le persone che si capiscono e dividono quelle che hanno caratteri diversi.  Ero entrato nel Soccorso nel 1971, ancora giovincello imberbe. Ero un autodidatta, avevo imparato sulla mia pelle. Io e Gianni, allora, eravamo i neofiti. Davanti a noi, durante le esercitazioni ed i soccorsi c’erano sempre Mimì e Roberto, due mostri sacri per noi. Ma il tempo passa e nel 1983 ormai eravamo “vecchi”. Il “giovincello” era Stefano, appena 21 anni, già bravissimo in roccia, superbo sugli sci, eppure lui aveva scelto me come modello e mi seguiva come un’ombra sia in montagna che durante i soccorsi. Non riuscivo a liberarmi di lui neppure sotto i portici. In verità non volevo liberarmi di lui. Passeggiavamo la sera discutendo dei monti, delle bufere, delle valanghe, delle creste innevate, dei bivacchi.  Qualcuno potrebbe ipotizzare che Stefano aveva colpito la mia vanità, ma non era così. Solo io so cosa sentivo nel cuore. Forse avevo trovato colui che amava la montagna come me, avevo trovato il compagno sempre cercato, l’alternativa alla solitudine, colui con cui non  avevo bisogno di parlare, sulle pareti o sui pendii innevati per  capirsi. Poi il militare….. dopo qualche uscita in montagna con lui, arrivò la cartolina e partii militare per Salerno, poi per Napoli. Già, ironia del destino! Io forse ero l’unico che sperasse di partire per Godroipo o Cuneo. Invece Salerno e Napoli.  Ma ormai era febbraio ed a marzo sarebbe finita, sarei divenuto di nuovo un “civile”.   Sarei andato di nuovo in montagna, da solo, le pareti erano ancora li, immutabili, mi avevano aspettato pazientemente. Poi c’era Stefano, il bimbetto, anch’egli mi aspettava. Sabato 5 febbraio 1983 alle ore 19.30 lo incontrai sotto i portici di S.Berardino, io ero in divisa per guadagnare tempo, nevicava. Ci fermammo davanti la vetrina delle scarpe di Mazzitti e parlammo a lungo. Parlammo del giorno dopo, dell’esercitazione. Io non sarei  potuto andare. Vidi un’ombra di tristezza nei suoi occhi che subito svanì. Parlammo del percorso. Parlammo della neve e delle valanghe. Non ne aveva mai vista una. Cioè non ne aveva mai vista una cadere da vicino.  Non aveva mai sentito il suo alito malefico soffiare grevemente, non aveva mai sentito il suo diabolico strisciare. 
http://viaggievisioni.blogspot.it/2012/03/la-valanga-di-san-pietro.html
 Non conosceva lo schiocco terrifico di una valanga a lastre quando rompe i suoi ancoraggi.
http://viaggievisioni.blogspot.it/2012/03/il-vallone-dei-ginepri.html
Mi ascoltava estasiato ed io ero felice che finalmente qualcuno capisse cosa era la montagna, che la intendesse come me. Le ultime raccomandazioni, attento a…. portati questo….  e quello….. stai vicino a……se non te la senti non andare…..segui il tuo istinto…..Segui il tuo istinto!   Non era un gran consiglio, ma a me aveva salvato la pelle in più di una occasione e Stefano era come me, forse anche a lui sarebbe servito. Il mio istinto mi aveva salvato da una valanga a lastre nel vallone dei Ginepri,  da un seracco sotto il Dome al m.Bianco, dal fulmine sul Piccolo, dalla bufera sulla cresta Nord dell’Orientale e da…. e da…. “Ci vediamo domani”. Un abbraccio. Per scherzo lo cinsi alla vita e lo sollevai, girandolo il tondo. Ciao.
     Dalla cima di m.Jenca, il pendio che si getta alla valle di Chiarinio (da:  naturagrezza)
La neve cadeva al risveglio. Una giornata uggiosa, triste, da passare in caserma, senza alcuna cosa da fare, aspettando le 17 per uscire. Le 17 finalmente arrivarono.  Paolo  ha un rustico vicino la Madonna della Cona e mi invitò a passare la serata.  Non c’era il telefono. Nevicava fitto a larghe falde. Dimenticai per un momento i miei amici in montagna. Alle ore 20 salutai l’allegra compagnia e tornai a casa. Mi aprì mia madre. Aveva un’aria strana. Conoscevo quella espressione. L’aveva quando era molto preoccupata di qualcosa che voleva nascondermi per non farmi soffrire.
All’inizio non riuscii a cavargli un ragno dal buco poi improvvisamente sbottò. Nel pomeriggio aveva telefonato a casa la madre di Stefano preoccupata per l’inspiegabile ritardo di suo figlio. Cercai di ricordargli di quelle volte che, al ritorno da una esercitazione, avevamo trovato le forze dell’ordine ad aspettarci per rispedirci in montagna a cercare lo scellerato di turno persosi dentro Campo Felice  o sui monti di Collebrincioni.   Non mi ascoltò, mentre una lagrima le solcava il viso. La madre di Stefano le aveva detto che sentiva che suo figlio era morto.  Mia madre aveva cercato di spiegarle che era sempre così quando partivamo per un soccorso.  Quando tornai mi raccontò che lei sempre aveva paura quando partivo, ma mai aveva avuto la sensazione che potessi essere morto. La madre di Stefano era certa: Stefano era morto, lei lo aveva sentito.  Avevano discusso a lungo, tanto che aveva convinto mia madre. Forse loro hanno qualcosa che a noi maschi manca. Al mio ritorno aveva retto pochi minuti, poi anche lei divenne pallida ed agitata, conosceva Stefano.  Cominciò a piangere perché Stefano era morto, ora anche lei ne era certa. Si era fatta condizionare.  Ritelefonò poco dopo ed io sentii mia madre piangere apertamente. Non mi passò la cornetta.   Qualcosa dentro di me iniziava a minare la mia certezza. Cominciai un giro di telefonate, ma nessuno sapeva nulla, la comitiva sembrava essere sparita nel vuoto.
Poi Gianni finalmente mi rispose. “Come?! Non sapevo nulla? Possibile?” Girava in tondo ma non parlava, non voleva parlare. Io insistevo. “Come facevo a non sapere?” . Una valanga aveva investito il gruppo. Di questo era certo, ma minori certezze aveva su cosa effettivamente potesse essere successo. Sapeva che, dalle frammentarie notizie giunte a l’Aquila forse qualcuno era rimasto sepolto, non sapeva chi potesse essere. Si diceva che… forse Riccardo…forse no.. forse Piermichele, Luciano  …certamente Stefano.  Mia madre era li vicino, ma non aveva potuto sentire ciò che mi avevano riferito, eppure cadde seduta a terra. “ Vedi? Stefano…” Lo aveva intuito dal mio sguardo.  Piangeva a dirotto. Come avrebbe fatto a dirlo alla madre?. Aveva promesso che alla prima notizia appresa, l’una avrebbe subito informata l’altra.  Ed era toccato a lei. Presi gli scarponi, mi vestii d’un fiato ed uscii. Passai in caserma ad avvertire che non potevo rientrare e l’Ufficiale di Picchetto mi assicurò che avrebbe sistemato ogni cosa con il Colonnello. Solo allora mi accorsi che non sapevo dove andare. Nella fretta non avevo neppure chiesto dove si trovavano in quel momento i miei amici. Mi diressi verso la Caserma della Guardia di Finanza per sapere almeno cosa fare. Aveva smesso di nevicare. Giunsi appena in tempo per salire su una campagnola  che avrebbe portato alla Vaccareccia di Chiarino i componenti del Soccorso di Sulmona.  Ci sistemammo alla bell’e meglio., stipati, e partimmo.
             La valle del Chiarino e la vaccareccia, teatro della tragedia
Solo allora cominciai a valutare la situazione. Non era possibile! Stefano morto. Riccardo. Riccardo…… . Ricordai una delle  avventure con Riccardo. Qualche anno prima io e Riccardo, istruttori sezionali di roccia, facevamo un corso di alpinismo ad un gruppo eterogeneo di persone. Alla palestra dovemmo convenire che i peggiori ad arrampicare sembravamo in tutta obiettività proprio noi. Il direttore quindi ci indirizzò verso la IV fino alla forchetta del Calderone, poi per le creste, fino al Corno Grande. In effetti era una passeggiata, con passaggi di III grado, ma i componenti delle cordate erano numerosi e, come ho detto, i più eterogenei.  Noi eravamo solo in due, io e Riccardo. Tutto andò bene fino alla Forchetta. Li la cresta si fa affilata ed inizia a salire affacciandosi sui precipizi del ghiacciaio. E li iniziarono i sepolcri. Qualcuno cominciò ad impaurirsi mentre il tempo passava velocemente. Alle 15 eravamo ancora alla Madonnina e ormai ci trascinavamo dietro non più degli aspiranti alpinisti, ma un gregge di pecore impaurito. 
(Durante il corso di roccia con Riccardo sotto la Madonnina)

 La cosa andava facendosi interessante. Qualcuno ormai era in preda alla disperazione. Andare avanti era quasi impossibile, così come era impensabile tornare indietro, ma qualcosa andava fatto. Mica potevamo restare li! Peraltro la cosa sarebbe stata vergognosa. Due istruttori non avevano saputo ricondurre a casa gli allievi !!!  Ci consultammo. Ognuno di noi aveva un’idea che appena espressa ci sembrava buona, poi si rivelava essere pessima. Alla fine non avemmo scelta, tanto nessuno era in grado di muovere un passo. All’imbrunire legammo cinque corde da 40 m
, assicurammo uno alla volta gli allievi e li calammo nel vuoto direttamente alla comba detritica. Detto così sembra una cosa facile, ma qualcuno era in preda al terrore ed io dovetti scendere legato con loro e quindi risalire almeno 4 o 5 volte sulla parete. C’era la corda che aiutava, ma sono sempre circa 200 m. A notte fonda finalmente tutti erano alla base della parete grazie anche all’aiuto di un allievo, Nicola, che si sarebbe poi, in futuro, dimostrato molto bravo in montagna. Forse non ci crederete, ma alle 23 eravamo ancora davanti all’osservatorio con qualcuno che camminava accucciato a terra per la paura e già sul piazzale c’era un gruppo di soccorritori pronti a partire. Tutto finì a “tarallucci e vino” (più vino che tarallucci) visto che i “moribondi” appena messo piede in albergo, si erano magnificamente rianimati e, insieme a madri, fidanzate, mogli, figli, sorelle ed amici accorsi a Campo Imperatore, gozzovigliammo fino alle prime luci dell’alba. Zirè (Riccardo) fu ripetutamente lanciato in aria dalla folla ormai inebriata dall’alcool. Io mi salvai in virtù del mio peso ( 82 kg). Riccardo… Riccardo…. Quando in una salita alle fiamme di Pietra ci colse una nebbia fittissima e  con noi c’erano vari componenti del CAI di Bassano, ragazzi e ragazze.
(Sulla via dei "Triestini"  Fiamme di Pietra durante un corso di roccia con Riccardo)
Scendemmo perché la visibilità era nulla. Io scendevo per primo, poi tutti gli altri, poi per ultimo Riccardo. Arrivammo tutti felicemente alla base della parete, che sotto la Via dei Triestini finisce direttamente sulle ghiaie. Dissi a tutti di nascondersi ed aspettammo che Riccardo scendesse.  A due metri dalla base Riccardo non sapeva più dove si trovava perché nessuno rispondeva ai suoi richiami.   Guarda caso proprio a due metri da terra si trova un tettuccio e Riccardo era finito proprio li sopra e chiamava per ricevere aiuto perché la sua situazione si stava facendo scabrosa.  Quando sembrava tutto perso una provvida mano (la mia) si piazzò sul suo “culo” sorreggendolo dalla caduta …..a due metri da terra.   Ci fu un coro di risa che si potenziarono sempre di più. Il riso tira il riso.  Le risate echeggiavano nelle valli e Riccardo dovette pagare da bere a tutti…. Riccardo. Ed era morto. L’autista della Finanza che ci era venuto a prendere aveva notizie sicure. Stefano, Riccardo e Piermichele sicuramente morti, Luciano sepolto ma vivo anche se gravemente ferito. Grazie, Dio, almeno hai salvato Luciano, il mio caro amico Luciano…magnifico, grande sciatore, grande amico. Quante volte sono sceso con lui da Corno Grande, quanti canaloni hanno solcato i nostri sci.  Riccardo, Stefano, Luciano, almeno Luciano era vivo. Piermichele lo conoscevo appena, era entrato nel Soccorso Alpino quando io ero militare a Salerno. Lo avevo conosciuto in occasione di un suo infortunio in montagna in agosto, quando andai con  Stefano a trovarlo in ospedale. Era sposato ed aveva un figlio lattante. Una famiglia distrutta. La moglie, il figlio, rimasti soli. Perché è morto? Possibile che Iddio sia così insensibile alle miserie umane?  La risposta a questa domanda è venuta 17 anni dopo, quando la scure della morte ha nuovamente colpito. Questa volta è toccata al figlio, per una encefalite. Allora ho capito. Meglio per lui essere morto, meglio non aver assistito alla fine del figlio, sarebbe stato troppo.  Iddio gli aveva risparmiato questa prova estrema. I ricordi si accalcarono nella mia mente durante il lungo tragitto nella strada innevata.  Erano con me i componenti del Soccorso di Sulmona, ma nessuno era veramente amico dei sepolti dalla valanga. Mi sentivo estraneo, volevo che tutti parlassero della tragedia e mi sembrava irriguardoso sentire gli altri parlare del più o del meno oppure addirittura ridacchiare alle battute che si lanciavano tra di loro. 

   Ora mi rendo conto che era un modo di scaricare la tensione, ma allora non lo compresi. Non vedevo l’ora di scendere e di agire. I miei muscoli erano pronti a scattare, la tensione li aveva scaldati ed ora dovevano muoversi.  Forse si poteva fare ancora qualcosa, bastava agire, andare. Finalmente il lago di Provvidenza. Poco dopo la campagnola si fermò a causa della neve che lì era di notevole spessore.   Scendemmo con un lentezza che a me parve esasperante, ci si preparava ad andare. Ma perché i preparativi erano così lenti?  Spesso in estate ero andato in quei luoghi a correre, fino al Corvo, li conoscevo bene.  Continuava a nevicare, era buio, ma a me cosa serviva aspettare gli altri?  Forse loro non conoscevano quei luoghi e quindi consultavano la carta, ma a me cosa serviva?  Feci finta di andare  dietro la jeep e partii come un levriero, accelerando il passo. 
                                       Sulla vetta del m. Jenca
 Nel buio pesto era difficile perdersi perché nella neve  c’era una traccia  che portava evidentemente al luogo della tragedia.  Solo allora cominciai ad intuire che forse non era un sogno, che quelle tracce, profonde, erano la spia di numerosi passaggi e quindi significava che molti erano dovuti andare lassù.  E se erano servite molte persone, allora doveva essere successo qualcosa di tremendo. Ma forse non lo sapevo già?  Nel buio la neve sembrava innocua, eppure aveva ucciso. Aveva ucciso l’indifeso Stefano, appena affacciato alla vita, aveva ucciso Riccardo, eternamente sorridente e Piermichele .  Aveva attentato alla vita di Luciano, ma lui aveva resistito, con un po di fortuna.
Camminavo sempre più velocemente ed il sudore mi colava sugli occhi. Ero solo e sentivo i miei amici vivi. Abbracciavo Stefano alla vita e lo sollevavo,  scambiavo battute sarcastiche con Zirè.  Ora la neve era alta fino al ginocchio e continuava a nevicare.  Da lontano si udivano delle voci, ma la neve non permetteva di distinguere alcuna luce.  Accelerai il passo fino al mio limite fisico e udii le voci avvicinarsi.
E li successe qualcosa…… Non ho più pensato a quel momento. Ho rimosso quei minuti, ma ora è arrivato il momento di ricordare.  Pensai che stessero portando giù i cadaveri dei miei amici. Vedevo Stefano con gli occhi sbarrati nella morte, con nello sguardo il terrore dell’incognito, le membra disarticolate  come avevo visto nei sepolti dalle valanghe.  Vedevo Riccardo inerme come una marionetta improvvisamente abbandonata dal suo conduttore.  E mi assalì una pena immensa.  Rallentai il passo, mi fermai in preda alla diperazione, volevo improvvisamente non essere li. Perché ero salito? Nessuno me lo aveva chiesto e nessuno lo pretendeva.  Tornai indietro pochi passi poi pensai che presto avrei incontrato gli alpinisti di Sulmona ed allora mi diressi a destra.   Fuggivo verso m. Ienca. Nella concitazione del momento nessuno avrebbe notato la mia assenza. Io avevo bisogno di allontanarmi da li, di stare  solo con me stesso. Ma in effetti avevo solo paura di vedere la morte, quella morte che spesso aveva aleggiato su di me, ma che mai mi aveva neppure sfiorato. Perché ora avevo paura della morte? Non era la prima volta e non sarebbe stata l’ultima. La morte fa parte della vita.   Senza la morte non ci sarebbe la vita. E’ la morte che da gusto alla vita. Perché uno dovrebbe gioire della vita se non ci fosse la morte?   Eppure già avevo visto la morte negli occhi dei miei amici, Andrea, e specialmente di Piergiorgio, con cui spesso avevo arrampicato.  Per Piergiorgio avevo sofferto e pianto, ma  avevo 20 anni e presto la vita aveva preso il sopravvento e tutto era stato dimenticato.  Forse apparentemente tutto era stato dimenticato, ma forse covava come il fuoco sotto la brace, pronto a divampare sotto un flebile alito di vento. Non lo ho mai ammesso, ma avevo fatto un ragionamento perfettamente razionale per giustificare la mia fuga.  Poi forse la coscienza di star percorrendo un  pendio sempre più innevato e quindi obiettivamente pericoloso mi fecero fermare e tornare indietro.  Oppure fu che avevo ritrovato il coraggio di affrontare la situazione?
                                                                LA VALLE DEL CHIARINO
Il problema è questo. Amleto insegna. Perché sono tornato indietro? E’ stato per coraggio o per paura? Per tanto tempo ho tentato di comprenderlo ed ancora oggi non so rispondermi.  Spero sia stato per un ritrovato coraggio, ma il dubbio mi sconvolge ancora oggi.  Non so per certo, perché non lo ricordo, se in quel momento avevo paura per una eventuale mia morte. Quei luoghi e quelle condizioni avevano ucciso solo poche ore prima, ora la situazione era peggiorata, forse il mio intuito mi impediva di andare avanti, oppure era solo paura ?
Mi sono chiesto spesso negli ultimi tempi se un essere umano ha il diritto di avere paura di fronte alla morte e la risposta a questa domanda sembrerebbe mettere fine ad ogni conflitto, vista la scontata risposta, ma non è così. Quello che conta infatti non è ciò che la gente pensa che noi siamo, ma ciò che noi pensiamo di essere.  Per la prima volta nella mia vita dovevo affrontare un nemico a me sconosciuto, cioè me stesso e ciò sarebbe successo più volte in futuro.  Comunque scesi appena in tempo per ritrovarmi davanti agli altri che salivano e che pensarono  semplicemente di avermi raggiunto.  Proseguii insieme a loro, mettendomi in coda, facendo andare gli altri avanti.
                       foto da "gulliver.it"
Le voci ora erano diventate nitide e le lampade frontali ormai si intravvedevano nella neve. Era un gruppo che portava giù qualcuno.  Non avevo nemmeno il coraggio di pensare a chi potesse essere lì disteso. Mi misi dietro a tutti quasi sperando che qualcosa o qualcuno potesse risparmiarmi quello spettacolo, ma il momento si avvicinava ed io sentivo che forse non avrei resistito. Poi sentii una voce lamentarsi ad ogni scossone. Era Luciano che miracolosamente era ancora vivo nonostante le fratture costali ed i traumi addominali.  Mi avvicinai di corsa  e gli presi una mano sentendogli il polso. Le condizioni erano relativamente buone, per fortuna, ma intuivo e paventavo qualcosa di grave a livello toracico.  Raccomandai ai trasportatori di comportarsi nel modo più idoneo perché non potevamo sapere se ci fosse qualche frattura vertebrale.

 Gli detti qualche istruzione, poi sentii qualcuno che mi invitava a scendere con Luciano, tanto il medico non sarebbe servito agli altri.  Ebbi un sussulto al cuore e mi aggrappai a quell’invito come alla  vita.  A tanti anni di distanza non so ancora se avrei avuto il coraggio di andare avanti e magari di caricarmi Stefano o Riccardo sulle spalle e di portarli giù.  In quel momento mi sembrava impossibile , ma a mi piace pensare che forse avrei trovata la forza di andare avanti, di scacciare le mie paure. Ma non lo saprò mai.  Scesi con Luciano che si lamentava continuamente e che  fu caricato sull’ambulanza che era in attesa al lago di Provvidenza. Arrivammo all’ospedale in un battibaleno e Luciano fu ricoverato per fratture costali. Una costola aveva bucato un polmone, ma nulla di grave, tutto era rimediabile.   Si era salvato perché un albero aveva impedito che la valanga lo trascinasse a valle, ma l’enorme pressione della neve aveva procurato le fratture. Era in stato di shock, ma Luciano era una fibra forte e si sarebbe presto ripreso.Grande Luciano..... Non avrebbe riportato neppure strascichi psicologici.  Ma Riccardo, Piermichele e Stefano erano morti. Morti inutilmente, ma quale morte è utile?  A tanti anni di distanza ancora, la sera, quando guardo il Gran Sasso innevato , la mia mente corre a quell’episodio.
Qualche tempo fa, in inverno, una domenica per me particolarmente triste, ho percorso il versante sud di m.Ienca e sono sceso a nord, li dove era avvenuta la tragedia.    C’era molta neve, come allora, i bassi alberi ed il luogo non ispiravano nulla di pauroso, il pendio non incuteva timore di valanghe. Per sfida sono sceso nel canalone. Dal 6 febbraio 1983 non ero tornato più in questi luoghi.
Mi è venuto da pensare perché ora la valanga non si muoveva. Tra di me le lanciavo la sfida. Chissà, se ci fossi stato io, forse Stefano non sarebbe morto. Lui mi avrebbe certamente seguito come sempre e, chissà, forse io non sarei passato nel canale. Forse ancora una volta il mio intuito mi avrebbe salvato, salvando Stefano con me. Oppure forse questa volta il destino mi avrebbe fatto pagare il conto degli anni precedenti seppellendomi con i miei amici. In fondo forse non sarebbe stato così brutto, nessuno può saperlo.
Negli anni sucessivi, a causa di incomprensioni tra i componenti del Soccorso, ci furono molti litigi. Io non potevo comprendere le ragioni di tanto attaccamento al “potere”, del perché a tutti i costi si volesse la gestione della Stazione. 
Una sera, in una riunione, partirono insulti irripetibili. Io ero li, non dissi una parola, ma pian piano mi allontanai fino alle  dimissioni ufficiali dal CNSA e passai al Soccorso Alpino della Protezione Civile. Questi litigi mi avrebbero costretto a schierarmi e quindi ad inimicarmi giocoforza  persone che consideravo molto amici, come Robertino ed altri.
Quello che era stata una fetta fondamentale della mia vita era finita, ma era finita perché non condividevo più la mentalità dei componenti del Soccorso o perché in quella notte del 6 febbraio qualcosa si era definitivamente spezzata in me?   Per tanti anni me lo sono chiesto e la risposta varia con il mio stato d’animo.

STEFANO 
 
Quella domenica sono tornato lassù per capire, per sfidare la montagna, ma essa è rimasta sorda, mi ha ignorato come si ignora un essere insignificante lasciandomi ancora nel dubbio. Negli anni nessuno è più venuto con me sui monti, non l’ho permesso più a nessuno (non che la cosa potesse essere importante) fino a qualche tempo fa, quando ho intuito nell’animo di un essere giovane ciò che io ero stato. Siamo saliti sui monti, siamo scesi dai pendii immacolati, abbiamo camminato nei deserti, ci siamo immersi nelle profondità dei mari e delle grotte, ma sempre ho avuto paura che potesse accadere qualcosa, di un’imprevisto che io sarei stato in grado di superare, ma l’altro chissà. A Stefano era successo, non aveva saputo affrontare l’imprevisto, eppure era in compagnia di esperti alpinisti i quali non avevano potuto fare nulla. Credevo di aver dovuto affrontare una prova dura, ma il destino mi avrebbe riservato ben altre sorprese…..


1 commento:

  1. ERAVAMO COMPAGNI SCUOLA Piermichele Vizioli ed io, amici e compagni di banco...e poi c'erano quei poveri ragazzi Stefano e Riccardo, ragazzi giovani spensierati e amanti della vita...in un certo punto del racconto si legge uno sprazzo di quotidianita' che mi vede coinvolta...con un brivido ho copiato il piccolo passaggio:
    "Ci fermammo davanti la vetrina delle scarpe di Mazzitti e parlammo a lungo. Parlammo del giorno dopo, dell’esercitazione. Io non sarei potuto andare. Vidi un’ombra di tristezza nei suoi occhi che subito svanì. Parlammo del percorso. Parlammo della neve e delle valanghe. Non ne aveva mai vista una. Cioè non ne aveva mai vista una cadere da vicino. Non aveva mai sentito il suo alito malefico soffiare grevemente, non aveva mai sentito il suo diabolico strisciare"!

    Ho avuto un battito di cuore e un grande brivido per un ricordo vissuto con tutta me stessa ...gli volevo molto bene a Piermichele e ne volevo anche a sua moglie Anna Maria conosciuta in classe...un amore bellissimo sorto fra i due miei compagni, un amore ignaro di quel maledetto destino.

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