lunedì 19 marzo 2012

PERSO NELLA BUFERA

Fin dai primi tempi che frequentavo la montagna la mia capacità di orientamento in difficili condizioni ambientali era sempre stato un mio vanto. In effetti non era solo un mio vezzo, ma avevo spesso provato a me stesso ed agli altri come era praticamente impossibile che “perdessi la strada”.  Anche in luoghi a me sconosciuti,  avevo avuto la prova che un sesto senso mi guidava sempre. Bastava seguire il mio istinto per uscire sempre da ogni impaccio. Non c’era nebbia o notte che potesse impensierirmi, anzi spesso uscivo proprio con quelle condizioni metereologiche godendo del mio dono infallibile.  


(nella bufera a 2700 m in un igloo di fortuna dove passai la notte in un bivacco memorabile)
 Dietro di me lasciavo una sorta di “filo di Arianna” che io riconoscevo sempre, anche al buio. Una volta fissato il punto di partenza o di arrivo, anche solo studiato sulla carta, il mio cervello non si faceva più ingannare  dalla nebbia o dalla notte, dalla bufera o dalla paura. Una sorta di ago calamitato guidava il mio passo.  Le prime volte ancora non mi ero reso conto di questa capacità, ci sono voluti degli anni perché imparassi a fidarmi del mio istinto, che non avrebbe mai fallito……fino ad un sereno giorno di inizio primavera del 1973. 
(1976. fuggendo da un temporale incipiente dal paretone della vetta orientale di Corno Grande)
Una gita organizzata dal  Cai di una città del Nord scelse l’Aquila come meta. A quel tempo io ed altri ragazzi  frequentavamo assiduamente la sede del CAI e credevamo di essere un gruppo di “giovani rocciatori” particolarmente agguerriti.  Comunque alla richiesta di un accompagnatore per la traversata del massiccio io fui incaricato della cosa da Torpedine (il Segretario), essendo in quel momento io solo presente in sede.  La cosa non mi entusiasmava dato il mio carattere solitario, ma accettai di buon grado sperando che la comitiva fosse quantomeno interessata al paesaggio ed io speravo di trasformare la traversata in una sorta di passerella delle nostre bellezze montane.
I componenti della gita , in tutto sei alpinisti, erano tutti particolarmente esperti ed io dovevo solo indicare la strada. Il percorso avrebbe seguito le creste del rifugio fino alla sella di monte Aquila, quindi alla vetta di Corno Grande lungo la direttissima. Dopo essere scesi sul ghiacciaio saremmo risaliti a Corno Piccolo e quindi il canalone centrale, a nord, ci avrebbe ricondotti ai Prati di Tivo.  Qui il pulman della gita avrebbe riportato a casa gli alpinisti non senza un lauto pranzo, o cena, al ristorante dell’albergo.
 Inutile dire che la gita si svolse in maniera esemplare, data l’esperienza e la prudenza dei partecipanti.  Potetti constatare il rispetto della natura e l’umiltà dimostrata dal capo gita, la prudenza in un territorio a loro sconosciuto, anche se era palese la loro smisurata esperienza, certamente superiore alla mia.   Solo successivamente venni a conoscenza che uno di loro era una guida alpina eppure aveva seguito i miei consigli. Questa comportamento mi colpì molto e contribuì a rafforzare in me la convinzione che l’umiltà in montagna è una delle qualità essenziali per l’alpinista. Allora ancora non sapevo cosa il destino mi avrebbe riservato in montagna e quali esperienze avrei dovuto superare, ma il germe era gettato e sempre più sarebbe cresciuto, rafforzandosi negli anni.  C’era molta neve. In quegli anni nevicava molto in inverno e quindi all’inizio della primavera il Gran Sasso era praticamente sepolto dal candido manto.
Salimmo velocemente senza la minima titubanza. Io ero felice di aver accettato l’incarico, erano persone magnifiche dal punto di vista alpinistico. Nessuno alzava la voce, nessuno si lamentava, tutti erano praticamente autonomi. Gli unici commenti erano per lo stupore di tanta bellezza.   Nessuno di loro avrebbe mai immaginato  che così a sud potessero esistere tali monti.  In effetti quel giorno il cielo era terso, uno di quei giorni in cui il Gran Sasso si riconcilia con gli alpinisti facendosi perdonare delle tante angherie.  La neve sul ghiacciaio era magnifica, si camminava senza affondare, ma comunque senza scivolare, tanto che io non avevo neppure calzato i ramponi.  Questa cosa comunque era collegata al fatto che i ramponi erano del Club Alpino dato che io, come molti di noi giovani, non possedevo ramponi e quindi non sapevo usarli a dovere.    Anche se le condizioni fossero state peggiori non li avrei mai utilizzati.  Li tenevo a bella posta legati esternamente allo zaino, come i veri alpinisti, ma avevo giudicato che in ogni caso sarebbe stato più prudente procedere con i soli scarponi piuttosto che inciampare sui ramponi. Peraltro ero maestro nel salire con gli scarponi nelle condizioni più estreme, magari scalettando con la piccozza, gradino dopo gradino.  Comunque il problema non si pose, liberandomi da una grave preoccupazione, e cioè quella di dimostrare apertamente a tutti la mia ignoranza sull’uso dei ramponi.
Arrivammo facilmente alla cima del Piccolo per la vecchia via e scendemmo sul versante nord nel canalone che ha una pendenza di circa 35 gradi.
All’albergo giungemmo in netto anticipo sui tempi, tanto che il pulman con gli altri gitanti ancora non era arrivato. Ci gettammo sulla porchetta che doveva fungere da antipasto in attesa  che giungessero gli altri. Visto il ritardo comunicai la mia decisione di tornare a piedi risalendo il passo del Cannone.  Ci fu una gara, credo molto sentita, per dissuadermi dalla mia decisione. Quando si resero conto che tutto era inutile ci furono baci ed abbracci, strette di mano e scambi di indirizzi, promesse di ricambiare il favore che io avrei fatto loro.  Che la cosa fosse spontanea e sentita era certa, dato che per accompagnarmi avevano abbandonato senza rimpianti la magnifica porchetta.
Avevo scelto di salire al passo del cannone per evitare i valangosi pendii delle Spalle e del Vallone dei Ginepri. Inoltre, giunto nei pressi del rifugio Franchetti, avrei anche potuto risalire facilmente il ghiacciaio e scendere d’un fiato lungo la direttissima.  Che la notte potesse sorprendermi lungo il cammino non mi preoccupava minimamente, ne il tempo che stava cambiando poteva per me essere fonte di ansia.  Mille volte già avevo percorso nella nebbia questi luoghi e li conoscevo come le mie tasche.  Poi c’era il mio istinto che MAI mi aveva tradito, bastava seguirlo per tornare a casa.
Mentre salivo il tempo peggiorò, scese una nebbia greve, scura, sembrava un sudario. Non c’era un filo di vento, non c’era un rumore, tutto era attutito dalla neve e dalla nebbia. Poi improvvisamente si aprì uno spiraglio quando mi trovavo nel canalino che porta al passo del cannone.  Sopra di me il cielo era terso, di un blu cobalto, ma enormi cumuli neri torreggiavano ai lati. Sapevo che era solo questione di tempo e poi si sarebbe scatenato l’inferno, ma io ero a casa mia, cosa poteva succedermi?  Per non sfidare troppo la sorte, comunque, accelerai il passo per portarmi almeno alla conca degli Invalidi, da dove sarebbe stato uno scherzo ritornare a Campo Imperatore in qualunque condizione di tempo. Avevo intenzione di passare per passo Portella e gettarmi nel vallone perché in ogni caso non potevo giungere in tempo per servirmi dell’ultima funivia.  La neve tappezzava il passo del cannone e non fu facile riconoscere il punto dove traversare a destra. La nebbia si era nuovamente infittita, ma questa volta l’aria era diversa.  Come se avessero aperto le cataratte del cielo, improvvisamente arrivò la neve, gelata, a fiocchi piccoli e tondi. In pochi minuti divenne più leggera, i fiocchi aumentarono di volume fino a diventare come un muro che scendeva. Il tutto unito alla nebbia, dava un’atmosfera irreale. Tutto sembrava spostarsi verso il basso. Gli occhi informavano il cervello che il corpo si innalzava, ma i piedi avvertivano che tutto era fermo.  Questo contrasto mi dava la vertigine e la nausea, dovevo chiudere gli occhi per diminuire questi disturbi.  Sapevo che ora dovevo spostarmi a destra per prendere una specie di terrazzo. Feci ciò che l’istinto mi suggeriva, non potevo sbagliare, come tutte le altre volte.  Non mi serviva ragionare per cercare di capire dove mi trovavo, dovevo solo andare, come sempre.
Procedevo praticamente al buio, riuscivo a mala pena a vedermi i piedi, ma la fiducia in me stesso non aveva limiti e già pregustavo il momento in cui avrei avuto di fronte a me un punto di repere ben conosciuto. 
                                  MA QUI SUCCESSE QUALCOSA……
Forse saranno state le vertigini, forse la nausea, ma qualcosa cambiò in me in maniera improvvisa. Mi resi conto che non sapevo dove mi trovavo, era la prima volta che mi succedeva, eppure avevo vissuto ben più dure esperienze.  Dovetti ammettere a me stesso che non sapevo minimamente dove si trovasse l’Aquila  e dove Teramo.  Le tracce erano state rapidamente cancellate dalla neve quindi non potevo tornare indietro.   Scendere verso il passo del cannone infatti sarebbe stato estremamente pericoloso senza poter seguire le mie vecchie tracce.  Sbagliare il canalino significava finire sui precipizi del Brizio e salvare la pelle sarebbe stata solo questione di fortuna perché nel frattempo la neve continuava ad accumularsi rapidamente e presto avrebbe cominciato a scaricarsi nei canalini del Brizio.  Quando pensai di essere sulla cresta del I Scrimone tirai un sospiro di sollievo. Ormai infatti mi ero reso conto di procedere a caso e cercavo disperatamente un qualunque punto che potessi riconoscere per stabilire la direzione.  Una volta riconosciuto il I Scrimone il più era fatto. Ora si trattava semplicemente di scendere dentro Campo Pericoli e da li era un gioco arrivare all’albergo. Ormai avevo infatti scartato l’ipotesi di scendere nel vallone di Portella dato che le condizioni del tempo erano  ulteriormente peggiorate e per giunta ormai si stava rapidamente facendo notte.    Scavalcai la cresta e mi gettai nel dolce pendio alla mia sinistra, quel pendio che porta a Campo Pericoli lungo la verticale del Rifugio Garibaldi.  Al momento che fossi arrivato alla base della discesa, li dove la pendenza diminuisce, avrei sicuramente riconosciuto  le varie inclinazioni del pendio e sarei sicuramente stato in grado di trovare il lungo camino sporgente dalla neve del rifugio Garibaldi.
Scesi allegro nel buio più fitto e solo allora capii cosa vuol dire essere ciechi. Scesi per 5 minuti, poi per 10, poi per 15 e il pendio ancora si perdeva nel buio.  Il pendio del I Scrimone può essere percorso in 3 / 4 minuti prima di giungere a Campo Pericoli.
Allora dovetti accettare la realtà: MI ERO PERDUTO. Ma dove diavolo mi trovavo? Avrei dato l’anima per saperlo, una rabbia folle mi pervase. Dicevo a me stesso che se avessi saputo dove mi trovavo avrei anche bivaccato, non sarei lo stesso tornato a casa, ma qualcuno doveva dirmelo.
Non potevo accettare di essermi perduto, IO CHE NON POTEVO PERDERMI. Per la prima volta nella mia vita dovetti piegarmi a ragionare per cercare di stabilire dove mi trovavo.  Mi sedetti onde evitare di peggiorare ulteriormente la mia posizione e tornai indietro con il pensiero.  Tutto era giusto, ero sceso dal I Scrimone, verso sinistra. Fino li ero sicuro, ma poi cosa diavolo era successo?  L’unica risposta era che qualcuno, durante la settimana, fosse andato a spostare Campo Pericoli o avesse scavato la valle approfondendola.  Comunque ormai ero in ballo e dovevo ballare. La temperatura si faceva sempre più rigida e la mia attrezzatura non era delle migliori.  I guanti erano si di lana infeltrita e quindi molto caldi, ma non avevo dei sopraguanti impermeabili. Anche i maglioni erano caldi, ma la giacca era di cotone pesante e quindi neppure essa impermeabile. Al momento non era un grosso problema dato che il freddo non permetteva che la neve mostrasse un minimo segno di umidità. Comunque non potevo permettermi di stare fermo sotto la fitta nevicata  con il vento che intanto si era alzato impietosamente. Ormai mi muovevo solo per non gelare, la mia unica attenzione era rivolta solo a non mettere qualche piede in fallo e precipitare nel vuoto. Per un misero essere umano basta anche un metro per morire.
Decisi di continuare a scendere. Era l’unica soluzione, dovevo in ogni caso perdere quota perché ormai mi trovavo in piena bufera.  Come Dio volle finalmente il pendio diminuì di inclinazione fino ad allargarsi e a diventare praticamente piatto. Ero arrivato a Campo Pericoli (?). Mi diressi quindi leggermente a destra per gettarmi nella val Maone. Avevo ritrovato la strada. Mi conveniva scendere ed arrivare a Pitracamela, bastava seguire la valle…..bastava seguire la valle…..bastava seguire la valle…….Queste parole echeggiarono improvvisamente nella mia mente come una condanna a morte. Nel 1929 due grandi alpinisti, Cambi e Cicchetti erano morti nella bufera a pochi passi da Pietracamela, scendendo nella Val Maone….seguendo la valle….. Inoltre loro erano in due ed erano grandi alpinisti.  Oggi si possono vedere i due monumenti funebri innalzati a loro ricordo nel punto dove li colse la morte, a pochi passi dalla salvezza.   Vedevo ormai un terzo monumento, intitolato alla stupidità dell’uomo. Era penoso sapere di essere sulla buona strada e poi di sapere che non sarebbe servito a nulla.    Mi sembrava di vedere i fantasmi dei due alpinisti che mi seguivano, scambiavo il vento per le loro voci.  Ormai mi stavo facendo condizionare dall’ambiente e dalla situazione.  Comunque scendevo velocemente quando il pendio improvvisamente diminuì la pendenza e poi si innalzò di fronte a me.  Pensai che fosse un piccolo dosso e salii per 4 o 5 minuti, ma non terminava. Allora non era la Val Maone. Tutto era finito.  Mi sedetti per cercare di schiarirmi le idee per l’ultima volta, ma tutto era inutile. Qualunque sforzo facessi non riuscivo a capire dove avevo sbagliato. Sarei stato in grado di tornare sui miei passi, almeno fino alla cresta, ma a cosa poteva servire se già li forse ero stato in errore?
Non potevo scendere, visto che il pendio era terminato, non potevo fermarmi perché sarei morto congelato. La decisione fu giocoforza quella di salire, ma non dove ero sceso.  Quando reputai di essere arrivato circa al punto dove avevo girato a destra, scendendo dal I Scrimone, mi diressi diritto verso l’alto, sul dolce pendio.  Come avrei trovato la sella di monte Aquila o il Passo Portella?  Giravo ormai senza meta, solo per scaldarmi, quando improvvisamente sotto i miei piedi comparvero delle tracce. Sicuramente erano di qualche alpinista che durante il giorno aveva frequentato quelle zone. Ma subito la speranza svanì: erano le mie. Avevo chiaramente girato in tondo. Non mi rimaneva che seguirle e percorrere un circuito circolare aspettando il giorno.
Verso mezzanotte stavo pensando a quanto era buona la porchetta dei Prati quando notai un lieve chiarore alla mia destra. Il chiarore aumentò tanto che pensai a qualche angelo degli alpinisti stupidi che si era impietosito e mi era venuto a cercare.  Poi invece comparve un lampione tra la nebbia: era la luna. La mia conoscenza dell’astronomia mi fu essenziale.  In un attimo stimai la posizione e l’ora. In quel momento la luna stava esattamente a sud, dato che era piena. Inoltre la nebbia per un attimo aveva scoperto le creste di Portella, verso m. Cefalone. Mi bastò!! Memorizzai la posizione e partii come un fulmine. Ormai poteva anche tornare la nebbia, io avevo riallineato la mia bussola. Mi trovavo sotto la sella dei Grilli e mi conveniva salire al Passo Portella. La bufera si scatenò quasi avesse un animo malvagio, ma fu di breve durata.  Quando arrivai a Passo Portella, quasi avessero aperto una porta, il cielo divenne completamente sereno, la neve nuova era di un bianco candido, la luna illuminava il vallone ed i miei occhi abituati al buio più fittto ebbero quasi un fiotto di dolore.  Socchiusi le palpebre e mi sedetti. Un gran senso di pace mi pervase. Ora si scaricava  il nervosismo accumulato durante tutta la sera.  In lontananza le luci dell’Aquila mi davano un infinito senso di tranquillità.  Mi resi conto che dovevo alzarmi onde evitare  di addormentarmi sul valico con il pericolo, peraltro, che la bufera potesse valicare il passo e gettarsi nel vallone.
Dovetti forzarmi a partire non per la stanchezza, che non accusavo minimamente, ma per il senso di benessere che mi procurava quel  posto in quel momento, illuminato dalla luna, con la neve fresca.
Scesi di corsa gettando le gambe nella neve alta. Aveva nevicato fin quasi alla Villetta. Ad Assergi svegliai un amico per fare una telefonata a casa. Dovetti bere qualche buon bicchiere di vino prima di convincerlo a lasciarmi partire e poi mi avviai lungo la strada asfaltata, piano piano, godendo della vita che avevo ritrovato.

P.S. La domenica successiva tornai lassù per capire cosa era successo. La cosa era molto semplice.  L’errore era iniziato al passo del Cannone. Infatti avevo traversato molto in basso e mi ero praticamente ritrovato nella zona dove l’estate c’è l’inizio del sentiero per il Brizio.  Tornando dal Brizio, si può notare che c’è una cresta sulla destra, prima del I Scrimone. Io avevo semplicemente scambiato questa cresta per lo Scrimone e quindi mi ero gettato nel vallone che porta, verso destra, nella Val Maone.
Mentre scendevo avevo impattato nel versante a destra del canalone e lì avevo definitivamente perso la bussola.  Ero stato fortunato a cavarmela così a buon mercato, lì dove alpinisti ben più degni, nelle stesse condizioni, erano morti.
Da quel giorno un po della mia sicurezza fu sepolta nella val Maone, vicino ai monumenti a Cambi e Cicchetti. Per qualche tempo, in estate, il Torrione Cambi e il torrione Cicchetti  furono la mia meta preferita. Qualcuno mi chiese perché quell’estate salivo sempre sulle Fiamme di Pietra, e sulla centrale di Corno Grande, coma non detti nessuna spiegazione: non avrebbero capito.


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