sabato 24 marzo 2012

IL MONTE BIANCO


MONTE BIANCO!!!!! Il solo nome evocava in me emozioni incontrollabili. M.Bianco!! Era “LA MONTAGNA”, tutte le altre scomparivano al suo cospetto. Nominavo con rispetto le  sue pareti e le sue vie…Il Grepon, il Bosson, les Jorasses, la Brenva, l’Innominata. L’Aguille Noire de Peuterey, i Drus. Su ogni metro di roccia era scritta la storia dell’alpinismo ed io stavo partendo per il M.Bianco!! Ma andiamo con ordine. All’inizio di luglio del 1980, Remo, Enzo, Carlo e Sandro (che Voi conoscete) mi comunicarono che erano in partenza per Courmayeur. Sandro, infatti, aveva una zia che si chiamava guarda caso GRIVEL ed era la moglie del noto costruttore di piccozze e ramponi, la quale aveva una baita sotto la Noire de Peteurey, lungo le piste di sci e quindi  erano stati invitati ad un lungo soggiorno. Mi chiesero di unirmi a loro. Inutile dire la mia gioia, ma…. Il ma era dovuto al fatto che io, giovane medico squattrinato, per arrotondare il salario, nel mese di luglio stavo sostituendo il medico condotto di Cagnano fino al giorno 20. Mi disperai, ma la disperazione ebbe vita breve in virtù del fatto che ora il lavoro  doveva avere in ogni caso la precedenza. Il 20 mattina mi avviai all’ambulatorio, ma per strada ebbi l’idea!! E se partissi oggi? Perché no? Meglio poco che niente!! Detto fatto. Tornai a casa alle 14, preparai due zaini stipando tutto ciò che era indispensabile per arrampicare e bivaccare, salutai gli sgomenti genitori e partii con il primo pulman per Roma senza neppure sapere le coincidenze e gli orari. Poco prima della partenza, mentre ero intento a sistemare i contrappesi del telescopio, questi mi caddero sul pavimento. Per salvare le piastrelle dai circa 20 kg di ferro, tentai di riprenderli ma ebbi il solo risultato di sentire una lacerazione a livello della quarta vertebra lombare. Sul momento non ci feci caso, ma quando indossai lo zaino mi accorsi che l’intelaiatura urtava esattamente sulla vertebra lesionata procurandomi un dolore acuto che in alcuni momenti era quasi insopportabile a meno di non togliere lo zaino. Ma ormai ero in ballo e nulla mi avrebbe fermato. Per inciso, quel trauma mi avrebbe procurato non pochi guai negli anni successivi fino al momento in cui, una tac, ha messo in evidenza un’ernia espulsa e compressiva.
Da Roma mi imbarcai per Torino, poi, sempre in treno, fino ad Aosta e quindi a Pre  S.Didier, a pochi Km da Courmayeur. Viaggiai tutta la notte, l’ultimo tratto in pulman. Scesi a Courmayeur ed alzai gli occhi al cielo. Sopra di me svettava il Dente del Gigante e la Cresta di Rochefort. Un muro enorme si parava di fronte a me. Chiesi dove si trovasse la Baita delle Zergne e subito mi indicarono la Val Veni, circa  10 km più a monte.
                                         (Alla baita delle Zergne si fanno i preparativi...)
Mi armai di buona volontà e partii con un carico mostruoso sulle spalle. Appena girato a sinistra nella val Venì la vidi. Vidi l’Aguille Noire . Altissima, vertiginosa, pareva un’ago puntato al cielo. La bruma del mattino, condensatasi sulla sua parete, sembrava donarle un’aura di irraggiungibilità, sembrava sospesa al cielo. Vidi les Dames Anglaises, le due guglie  e la cresta che si stemperava nell’Aguille Blanche fin lassù, dove volano gli angeli.
Come Dio volle raggiunsi la Baita, ma ebbi la sorpresa di non trovare nessuno. Dalla finestra intravvidi alcune leccornie. Io non mangiavo dal pranzo del giorno precedente e nulla avevo comperato a Courmayeur per cui fui molto tentato di forzare il vetro come un comune ladro, ma poi ci ripensai. Dalla baita il panorama era immenso. Mi sedetti e i miei occhi furono abbagliati da tanta grandezza. Le vette si innalzavano al cielo, mi invitavano a salire. Ghiacciai e seraccate scendevano nei neri canaloni. La Brenva incombeva sui prati verdeggianti. Non ci pensai un minuto e partii senza meta precisa. Scesi nella val Veni, traversai la Dora di Venì su un esile e traballante ponticello di legno e mi diressi verso i casolari di Freney. Una piccola sorgente mi permise finalmente di calmare almeno la sete. La fame era svanita, ingoiata da tanta bellezza. Una valle alla mia destra si elevava ripida e appena un po più in alto si vedevano i seracchi del ghiacciaio di Freney.  Mi incamminai, felice, sulla morena. Davanti a me una guglia sembrava sfidare il cielo. Era l’aguille du Chatelet. La sua parete verticale incombeva su di me e quindi immaginate un po la mia sorpresa quando vidi pendere una catena lunghissima che correva verticalmente lungo tutta la parete alta almeno 400 metri. Non stavo più nella pelle. Senza chiedermi alcun perché iniziai ad arrampicare aiutato dalla catena. Man mano che salivo il panorama si schiudeva sul ghiacciaio di Freney mostrandomi tutta la sua tormentata superficie. I seracchi si succedevano ai seracchi, i crepacci formavano un dedalo inestricabile. Immaginai la difficoltà di un attraversamento mentre l’Aguille Noire de Peuterey sembrava innalzarsi mentre salivo, quasi per imprimere il suo marchio di grandezza. Il vuoto che cresceva sotto di me mi dava sempre più sicurezza e voglia di salire, fino a quanto sbucai sulla cima. Non  era una cima, ma un vero e proprio altopiano. Comparve un sentiero ben tracciato e, come d’incanto vidi un rifugio. Era il rifugio Monzino. Entrai e mi accolse una signora ben vestita ed educata. Iniziammo a parlare e mi raccontò che suo figlio, guida alpina, qualche tempo prima era morto precipitando lungo la catena che porta al rifugio. Era quasi inverosimile ciò che mi raccontava, ma le lacrime che a stento riusciva a nascondere non davano dubbi sulla veridicità dell’accaduto. Parlammo a lungo , poi mi chiese se conoscevo Carletto e Mimì, dell’Aquila. Gli domandai come poteva essergli venuta in mente una cosa simile e lei mi rispose che aveva notato lo stesso dialetto. Certamente che conoscevo Carletto e Mimì ! Erano i miei amici del Soccorso!  Avevano fatto, proprio al Monzino, uno stage di soccorso l’anno precedente, a cui io non avevo potuto prendere parte a causa degli impegni universitari. La gestrice mi illustrò le vette ed i ghiacciai e poi mi offrì un’ottimo dolce che mai venne in un momento più opportuno. A nulla valsero i tentativi di pagare il conto visto che avevo obiettivamente abbondato nelle razioni.  Dietro il rifugio la cresta proseguiva fino alla Punta dell’Innominata lasciandosi sulla sua sinistra il ghiacciaio di Brouillard. Questi nomi agli alpinisti evocano uni dei più terribili incidenti capitati a grandi rocciatori. Sul colle perirono, dopo orrendi stenti, alcuni dei più grandi alpinisti dell’epoca (1961). Il tentativo al Pilastro di Freney  vide riuniti in un’unica cordata gli alpinisti francesi Pierre Mazeaud, Antoine Vieille, Robert Guillaume, Pierre Kohlmann e gli italiani Walter Bonatti, Andrea Oggioni e Roberto Gallieni. Per quattro giorni lottarono nella tormenta, i primi giorni di luglio e prima del Colle dell’Innominata perirono di sfinimento Wieille e Guillaume.  Sul Colle morì Oggioni, mentre per ironia della sorte Kohlman morì a meno di cento metri dal rifugio, in pianura. Trovarmi in quei luoghi mi metteva in leggera soggezione.  Non intuivo il pericolo perché la giornata era magnifica, ma calpestare il terreno che aveva visto tanta tragedia mi rattristava.  Respiravo l’aria di quella terribile avventura e mi sembrava di sentire ancora la paura che aveva attanagliato quegli uomini. Il vento che sibilava tra i seracchi somigliava ai loro lamenti. Accelerai il passo e mi trovai sotto la Punta dell’Innominata. Piegai a destra su ghiaccio duro come il cemento, in una valla incassata chiusa  dall’Aguille Croux (3257). Su sfasciumi instabili e rocce granitiche di scarsa difficoltà (2 grado) arrivai all’intaglio della cresta, era il colle dell’Innominata. Mi affacciai al di la e vidi come da un palco d’opera, le due vertiginose guglie delle Dames Anglaises che si innalzavano come due stiletti puntati al cielo. Sotto di me scorreva il Ghiacciaio di Freney, tormentato come un mare in tempesta . Mi vennero in mente i disegni di Gustave Dorè illustranti  l’inferno dantesco che  avevano turbato i miei sogni  di fanciullo. Non c’era silenzio immacolato, ma tutto si muoveva come in una bolgia infernale. Seracchi immani urlavano, scricchiolavano, precipitavano ingoiati da crepacci senza fondo e da cui si udivano lamentarsi le  gelide acque di fusione. Le pietre che miracolosamente rimanevano in bilico sull’orlo dei neri abissi gelati, a turno si scaricavano come immensi grani di una clessidra gigantesca tuffandosi negli inferi ed ad intervalli regolari battevano il tempo della geologia. La fiumana gelida pareva un immenso serpente ferito a morte che si agitava e dimenava. Il ghiaccio pareva avere vita e forse l’aveva. Era la prima volta che vedevo un ghiacciaio delle Alpi Occidentali e ne rimasi sconvolto. Non sapevo però di aver visto uno dei più tormentati. La mia esperienza di ghiaccio era limitata ad una innocua passeggiata sulla Marmolada e pensavo che quelli fossero i ghiacciai, ma come mi sbagliavo! Sedevo sul Colle non sapendo cosa fare. La cosa più saggia era una dignitosa ritirata, ma non mi decidevo a tornare indietro. Il mio animo era tormentato dalla voglia di andare per lo meno a calpestare il ghiacciaio. Alla fine decisi di scendere a vedere. Con molta circospezione scesi leggero sulle rocce umide e cariche di brecciolino e finalmente arrivai sul ghiacciaio.  Per arrivare alla base del Pilastro di Freney bisognava ora attraversare il ghiacciaio, ma se la cosa dall'alto pareva difficile, da vicino era praticamente impossibile. Da neofita non avevo la minima idea di come si potesse neppure pensare di attraversare quella massa informe di torri, seracchi, guglie, separati da neri abissi urlanti. Il Pilastro di fronte a me amplificava e moltiplicava i rumori gettandomi in una sorta di costernazione. Il sole ormai era oscurato dalle nere rocce dell’Innominata e, nonostante che fossero appena le 15.30, sembrava che la notte fosse incombente. Non vedevo l’ora di uscire da quel luogo, ma al tempo stesso il suo fascino mi bloccava sul bordo instabile del ghiacciaio. Dovetti farmi forza per decidere di tornare indietro. Risalii il Colle e scesi con circospezione i pendii dell’Aguille Croux. La signora mi accolse nuovamente al rifugio e mi disse che era un po preoccupata perché non mi vedeva tornare avendogli detto che avrei percorso la cresta solo per qualche minuto.  Gli raccontai con enfasi dov’ero stato e forse riconobbe in me un po dell’entusiasmo del figlio. “Se fosse stato vivo ti avrebbe accompagnato lui !“ mi disse. I miei amici non erano stati avvertiti del mio arrivo e non si sapevano spiegare cosa fossero quegli zaini lasciati fuori della porta. La prima notte fu dedicata ad un sonno profondo, ma già all’alba le cose cambiarono. Avevo appeso fuori della baita sia i pantaloni che i calzettoni quando, circa alle 5, udii uno scampanare. Remo, che dormiva vicino a me, si svegliò e mi disse se avevo appeso qualche cosa ad asciugare. Mi disse di correre a togliere ogni cosa. Tardai quel tanto che basta perché decine di mucche invadessero i prati antistanti la baita, mangiando come un inceneritore qualunque cosa fosse loro venuta a tiro. Quando arrivai vidi le calze in bocca ad una mucca ed i pantaloni in bocca alla sua compagna. Corsi in lungo ed in largo lottando strenuamente con gli ostinati bovini che sembravano gradire il nauseabondo tanfo dei calzettoni. Così iniziò la mia vacanza. Vi risparmio le escursioni fatte in comitiva, che furono molte. Il Ghiacciaio del Miage, la Mer de Glace, Les Jorasses al rifugio Boccalatte etc etc.Quello che invece voglio raccontarvi sono alcune “avventure” extraalpine. Come ormai avete capito, tutto ci mancava, meno che la fame. Dire quanto mangiava Enzo è una cosa praticamente impossibile ed io non ero da meno. Remo non sfigurava di certo, mentre Sandro era molto più parco nel cibo (sempre comunque da semiprofessionista), mentre era imbattibile nel bere, e non parlo di acqua. Questa qualità gli era venuta, come ho detto, dopo aver conosciute le ragazze di Bassano del Grappa e lui l’aveva affinata nel tempo assurgendo ad allori olimpici.  Una sera decidemmo di cenare alla Maison de Philippo. Tale ristorante aveva la caratteristica di avere un conto fisso, qualunque fosse la quantità di cibo richiesta e mangiata. Altra caratteristica era che tutte le portate erano originarie della valle.  In totale il menù consisteva in ben 22 portate. Avete capito bene, 22 portate!!!! Il cameriere si presentò incoraggiandoci a scegliere il menù e consigliandoci uno o due primi ed uno o due secondi. Non sapeva, il tapino, che noi eravamo andati in montagna senza pranzare. Gli dicemmo che volevamo provare le specialità della valle e quindi tanto valeva iniziare dalle prima portata e poi proseguire fino alla 22esima. Ci fu uno sguardo di commiserazione, quasi una sfida. Credeva che fosse la solita bravata.  Alla 15esima portata, più o meno, venne a trovarci il capo, forse più per vedere se eravamo vivi piuttosto che per sapere se gradivamo la cena. Ricordo l’ultima portata, rimasta storica per un motivo. Era la Trota Alle Mandorle. Il gestore, alla 15esima portata ci consigliò la suddetta trota, che appunto era l’ultima portata, ma noi lo redarguimmo intimandogli di portarci tutto. Mangiammo quindi tutto il menù ed arrivammo al dolce che guarda caso era il Mont Blanc, consistente in un ammasso enorme di creme e gelato, con sopra miele e non ricordo quale altra leccornia. Una vera e propria bomba. Ricomparve il gestore sfidandoci a mangiarlo. “Se riuscite a mangiarlo vi dimezzo il costo delle bevande” disse. Non si accorse che le bottiglie vuote erano state riposte sotto il tavolo, tanto per fare un po di posto sulla tavola e quindi credette di fare poco danno alla locanda. Mangiammo comunque tutto il dolce, ne facemmo portare altri tipi e, tanto per chiarire le idee al gestore, chiedemmo un’altra porzione di trota alle mandorle…………
l Genepy migliore di Coumayeur era l’Ottoz e Remo e Carlo ne sanno qualcosa. Un pomeriggio, mentre io ero intento a correre come uno stupido sulle vette, Remo e Carlo scesero a Courmayeur e conobbero due bellissime e disponibili ragazze di Torino che avevano la villa a Pila, sopra Aosta. Detto fatto, erano stati invitati a trascorrere una serata in un night e quindi finire l’incontro dignitosamente alla suddetta villa. Due viveur di tale fatta non potevano lasciarsi scappare l’occasione e non se la lasciarono scappare. Tornarono alle 2,30 svegliandomi. Erano tutti eccitati e si raccontavano la serata quasi non sapessero cosa fosse successo. Dopo qualche minuto, non sopportando più i ciarlieri amici, mi preparai di tutto punto e partii.  Risalii tutta la Val Veni fino al lago di Combal ed al Rifugio Elisabetta (2156 m.). Da lì si diparte una bella valle, chiusa a destra da delle strane cuspidi rocciose formate da roccia calcarea. La cosa è quantomeno strana perché il Massiccio del Bianco è di roccia infusiva, cioè il granito e la presenza di guglie calcaree riporta ad un ambiente dolomitico. Queste guglie hanno il nome di Pyramides Calcaires. Risalii la valle innevata alle prime luci dell’alba, con colori pastello. L’ombra delle Pyramides si accorciava velocemente. Davanti a me si elevava una montagna immensa, era l’Aguille des Glaciers (3818 m.) Mi diressi verso la vetta. A circa 2600 m. di altezza mi resi conto che  il nevaio aveva lasciato il posto al ghiaccio perché si intravvedevano i crepacci  sotto la coltre nevosa  che ancora resisteva all’incalzare dell’estate. Il ghiacciaio d’Estellette si parava di fronte a me. Il pendio aveva l’esposizione sud ed il sole di luglio presto fece sentire la sua forza. Come ad un comando iniziò il concerto del ghiacciaio. Sotto ai miei piedi si udiva scorrere, gemere, scricchiolare. Avevo già sentito questi suoni, ma udirli sotto i piedi era un’altra cosa. Intuivo i crepacci sotto di me e mi dissi di non pensare e di scegliere l’itinerario che il mio istinto mi suggeriva. Sui ghiacciai, generalmente, c’è un itinerario ben tracciato dalle guide che si può seguire, in caso di bel tempo, con facilità. Le guide del luogo sono espertissime, conoscono i ghiacciai, sanno dove e come passare. Spesso, ai neofiti, può sembrare che il sentiero non sia il più sicuro, ma non è vero. Spesso si passa su zone che sembrerebbero effimere, sotto immensi seracchi instabili. Ma le guide sanno il fatto loro. Loro conoscono i movimenti del ghiaccio e la caduta dei seracchi, sanno come si aprono e si chiudono i crepacci. Basta non abbandonare la pista per essere sicuri. Ma io salivo su un labirinto di crepacci ancora nascosti dalla inconsistente neve dell’inverno, in una zona poco frequentata, senza tracce. Ero io a tracciare la mia via  sopra un dedalo di abissi coperti solo da un esile velo bianco. Stavo giocando ad una roulette russa con un  tamburo pieno di tutti i proiettili, tranne uno. Non mi resi conto di ciò e, come nei cartoni animati, continuai il mio cammino. A quel tempo mi fidavo ciecamente del mio istinto, del resto mi aveva tradito una sola volta, e per metà. Dove pensavo (o non pensavo) ci potesse essere un crepaccio mi fermavo e sondavo con la piccozza. Spesso il manico sprofondava nel vuoto rafforzando in me la sicurezza.  Dopo molti anni devo dire che anche quella volta il mio Santo Protettore era stato assunto a tempo pieno e il Signore gli aveva imposto di fare gli straordinari. Il superamento della crepaccia terminale non fu un gioco dato che il lembo superiore era molto staccato e largo, ma dopo il ghiacciaio lasciava il posto alla roccia e li non ci fu storia. La roccia del Bianco è granito, solido come l’acciaio, basta non lasciare la presa. Gli scarponi aderiscono come ventose, lame di roccia sembrano essere state create apposta per arrampicare. La natura si è impegnata a disegnare camini perfetti, fessure precise, guglie esili come aghi, abissi infiniti. Ha costruito nei millenni un enorme parco dei divertimenti. Era la prima volta che mettevo le mani su una parete di granito e non potevo credere ai miei occhi. A quel tempo ero elastico e agile come un felino e saltavo tra i macigni sospesi, correvo tra le fessure, mi allungavo come una molla per raggiungere gli appigli. Sulla cresta dell’anticima si ripresentò il ghiaccio e tutta la mia sicurezza scomparve. Iniziai a preoccuparmi del ritorno sul ghiacciaio e non immaginavo neppure a cosa sarei dovuto andare incontro. Intanto la cresta, sempre più larga, si stemperava su un pendio a forma di conca inclinata e, in alto, si intravvedeva la cima che si ergeva verso il  cielo con un ultimo slancio. Iniziai a salire, ma il ghiacciaio mi aveva ingannato. L’enorme conca falsava la prospettiva e quello che pareva un erto pendio, si rivelò essere un vero muro. Ad onor del vero l’inclinazione non era poi così proibitiva, ma il terreno era duro e gelato e solo una minima parte delle punte dei ramponi penetravano a stento, dandomi una sgradevole sensazione di instabilità. Chiaramente ciò era dovuto alla inesperienza, ma questa sensazione l’ho provata anche molti anni dopo sul canalone delle Courtes, tanto da farmi decidere alla ritirata. L’Aguille des Glaciers non fu “conquistata”, ma come ho detto la cosa non aveva molta importanza per me. Quei pochi metri erano e sono insignificanti e addirittura credo di aver provato una sorta di rispetto per la montagna che mi aveva permesso di accedere a quei luoghi, a me sprovveduto alpinista. Lo sprovveduto alpinista però doveva tornare a casa passando per lo stesso itinerario che intanto, sotto i cocenti raggi del sole, aveva completamente cambiato aspetto. Torrenti, ruscelli e rivoli scorrevano sulla superficie impedendomi di attraversarli. I loro alvei erano pericolosamente scivolosi e cadere in uno più grande significava farsi trascinare fino al pozzo dove scompariva ingoiato dagli inferi. Inoltre la neve bagnata ora era divenuta ulteriormente inconsistente e non sopportava più il peso del mio corpo. I crepacci si erano aperti ed io vedevo come miracolosamente avevo aggirato la morte. Solo allora mi resi conto di camminare su un terreno minato dove un solo passo falso poteva significare la fine.  Mi sedetti per riprendere fiato e cercare una via di scampo. Non c’era via di scampo, dovevo giocoforza scendere. Pensai di attraversare  a destra per raggiungere una cresta affilata di roccia che sembrava difficile, ma almeno era stabile. Poi cambiai idea e pensai bene che scendere di quota, infatti, significasse trovare il ghiacciaio scoperto dalla neve vecchia e quindi con i crepacci visibili. Detto così sembra facile, ma attraversare 1 km di labirinti inestricabili fu un’impresa degna di Dedalo. Forse percorsi 10 km per uscire su una zona pianeggiante e apparentemente priva di crepacci. Sembrava essere arrivati e poi improvvisamente il cammino era sbarrato da un crepaccio che ti portava fuori via e che costringeva quindi a  scegliere un nuovo imprevedibile itinerario. A  questo punto la cosa era lunga e noiosa, ma almeno era sicura e quindi mi rilassai. Come Dio volle uscii dal ghiacciaio e, tanto per gradire, pensai di salire al Col de la Seigne che appunto “segna” il confine con la Francia. Lì incontrai una magnifica carrareccia che mi riportò a valle. Il sole stava quasi tramontando quando tornai alla baita. C’era un tavolo posto nel prato pieno di avanzi di pollo arrosto. Solo allora mi accorsi che non avevo mangiato ne bevuto nulla per tutto il giorno e quindi mi gettai sui succulenti avanzi accompagnati da magnifiche fette di pane unte nell’olio del piatto. Appena ripresi i sensi entrai chiamando ma non mi rispose nessuno. Remo e Carlo giacevano immobili sul letto come due cadaveri. Li scossi ma non ebbi risposta, non davano alcun segno di vita. Non sapevo cosa fare quando scorsi due bottiglie vuote di Genepy Ottoz e capii allora, anche in virtù dell’odore, che erano completamente ubriachi.  Avevo percorso circa 40 km ed un dislivello di 2400 m in salita, non era male come inizio.  Le gite “sociali” erano varie ed interessanti, ma un giorno decisero di andare a Losanna. Io non partecipai e partii per le alte quote.
Non sapevo dove sarei andato, ma il mio punto di partenza era il rifugio Torino, a 3400 m. di quota. Già salire di corsa le scalette del rifugio, appena scesi dalla funivia, è una piccola impresa. La funivia sale in pochi minuti e non si ha il tempo di acclimatarsi. Comunque uscii sul ghiacciaio e il panorama mi bloccò il respiro. Potevo andare dovunque. Dovunque c’erano piste ben tracciate ed invitanti, ma poi  vidi il Dente del Gigante che svettava sfidando gli dei e  decisi di “andare a vedere”. Il Ghiacciaio era facilmente percorribile e la pista perfettamente tracciata. Aggirai le propaggini dell’Aguille Marbrèes e mi preparai a salire l’erto pendio della Gengiva del Dente.
                                    ( Verso il dente del gigante, ancora in tenuta da mare...
Mi spostai qualche decina di metri fuori della traccia ed improvvisamente persi il terreno. L’Inferno si apriva sotto di me. In qualche decimo di secondo pensai che non ci fosse più nulla da fare e mi preparai all’impatto. Poi mi girai nel vuoto con uno scatto  e mi ritrovai miracolosamente seduto sul bordo tagliente del crepaccio. Ancora una volta il mio Santo non si era distratto, ma quanto potevo ancora farci affidamento ? 
                              (Salendo il ripido pendio verso la gengiva del dente)
Superai la crepaccia terminale del colletto della Gengiva felice dello scampato pericolo ma ancora un po scosso, per cui salii con estrema prudenza il ripido pendio. Incontrai cordate di alpinisti legati alle guide e mi detti da fare per poterle superare dato che praticamente occupavano quasi tutto il vasto pendio. Credevo bene che sulle creste avrei dovuto attendere il mio turno per passare quindi accelerai  , ma a 4000 m. non era poi così facile.
                                
Era la prima volta che mi trovavo a quelle quote e soffrivo un po dell’altezza quando acceleravo il passo, anche perché la funivia mi aveva portato  in pochi minuti sul ghiacciaio.  Comunque riuscii a superare le comitive e mi ritrovai alla base di alcuni couloirs oltre i quali mi aspettavano blocchi verticali di granito che io amavo sicuramente di più. Arrampicai in tutta sicurezza e mi ritrovai improvvisamente sotto la parete sud del Dente. Avevo preso la prima funivia ed avevo superate tutte le cordate per cui avanti a me non c’era nessuno e mi trovavo solo sotto il Dente. Piccoli effimeri rivoli di nuvole scorrevano tra le rocce impattando al Dente e scomparendo improvvisamente ingoiati dall’aria fredda e tersa del mattino. Solo il lieve fischio del vento restava a testimonianza della presenza delle brume. Il sole ancora basso scontrava i suoi raggi perpendicolarmente alla verticale parete scaldando le rocce. 

 Mi sedetti un  momento godendo del dolce tepore e del silenzio, ma presto si udirono le voci delle comitive e mi avviai verso le creste di Rochefort. Si vedeva un sentiero perfettamente tracciato sul ghiaccio e quindi, pensando ad una facile gita, mi incamminai di gran lena. Presto dovetti ricredermi…….. La cresta, facilissima all’inizio, presto divenne affilata. Sulla mia destra enormi cornici sporgevano in un’abisso senza fondo. La parete sprofondava fino a fondovalle  in un unico balzo, 3000 m. più in basso. A sinistra non era da meno, solo che la Mer de Glace, piatta ed enorme, ingannava i sensi dando la sensazione che il pendio avesse una misera inclinazione. Man mano che procedevo la cresta si affilava. Mi fermai in un punto in cui la traccia passava da una cornice sporgente verso la valle d’Aosta ad una sporgente nel versante francese. Bisognava passare su una cresta affilata come un rasoio, larga appena da poggiare un piede.
Due abissi senza fine la sorreggevano ai lati. Ebbi un momento di esitazione non tanto per la vertigine, che era il mio ambiente, quanto per la poca fiducia che avevo per la resistenza dell’elemento ghiaccio. Non potevo credere che quella lama affilata potesse sostenere anche solo il suo stesso peso, figuriamoci quello di un uomo. Solo negli anni successivi imparai che il ghiaccio del Bianco ha una resistenza senza pari. Dovevo comunque passare come un funambolo. Pensai di sistemare una corda come sicura, poi desistetti a causa della mancanza di chiodi da ghiaccio. Decisi di passare a cavalcioni, ma al momento di partire rinunciai. Gli alpinisti non sono vermi, quelli strisciano. Non dovevo farmi condizionare. Tirai un respiro profondo per calmarmi della decisone ormai irrinunciabile di passare  camminando come su una tranquilla strada di campagna e partii. Il tratto era lungo circa 50 m., ma pensai che noi camminiamo normalmente sull’orlo di un marciapiede senza preoccuparci e senza mai mettere un piede in fallo. Questa era la medesima situazione, solo che ora c’era la mente che si faceva condizionare dall’ambiente e dal vuoto. Ma io non ero quello che cercava sempre il vuoto? Ed ora perché ne avevo timore? Non c’era la possibilità di poggiare la piccozza per avere un’illusoria sicurezza, solo al piede si permetteva un appoggio.  Man mano che procedevo acquistavo sicurezza, il vuoto tornava ad essere il mio amico. Improvvisamente la sensazione di nausea scomparve ed il passo divenne sicuro. La neve era compatta, durissima, i ramponi mordevano dando al piede una sicurezza sconosciuta nelle nevi appenniniche.
 Da allora tutto divenne magnifico, fiabesco.  Alla fine del tratto scabroso  arrivò un’altra persona. Avevo superato le mie paure e ora attendevo con ansia ulteriori prove sulle creste. Queste battaglie con me stesso erano frequenti e mi appassionavano. Ma intanto il tempo dedicato alla guerra aveva permesso ad  una cordata di francesi di raggiungermi. Una guida di Coumayeur mi invitò a proseguire con loro. Mi disse che quell’anno il vento aveva costruito creste difficili ed affilate, così come il tratto appena superato e che forse era più sicuro che in quei tratti ci fosse un’assicurazione.  Mi disse che si vedeva che ero pratico dalla sicurezza dimostrata nell’attraversamento della lama e che quindi non avrei pesato sulla sua cordata…….Mha!  Me lo disse per prendermi in giro? Per essere sicuro lo ringraziai vivamente e gli spiegai che sarei tornato indietro fra qualche minuto e mi sedetti per farli allontanare.

       ( Sulla cresta di Rochefort, in un punto "tranquillo". Sullo sfondo a sn  il m.Bianco)
Il vento mi gelava la faccia e sopra di me volavano le onnipresenti gracchie che si burlavano degli alpinisti. Cornicioni enormi sporgevano metri e metri nel vuoto sfidando ogni legge di gravità, ora a destra ora a sinistra, quasi per non fare torto alle due pareti opposte. Ma come aveva fatto il vento a  creare a pochi metri di distanza una dall’altra cornici ad andamento opposto? Gli strati erano evidenti, riccioli di vento pietrificato si alternavano a placche argentee come immensi trampolini nella piscina della vertigine. Ed io ero lì, ad ammirare le creazione del vento e del gelo. Nessun artista sarebbe potuto arrivare a tanto. Nessuno scultore avrebbe potuto pensare ad una creazione tanto complessa e nessun pittore avrebbe dipinto tante sfumature del bianco. Ma bisognava andare e, dato che la cordata ormai si era allontanata scomparendo tra le creste, partii, presto fermato da un intaglio verticale di ghiaccio e roccia.  Pensai che presto sarei tornato indietro  anche perché ora la cresta non sembrava così proibitiva fino all’Aguille de Rochefort e quindi lasciai la corda appesa per facilitarmi il ritorno. Qualche anno dopo lessi sulla guida che era conveniente lasciare una corda fissa proprio in quel punto e quindi a tanti anni di distanza fui felice di quella decisione presa autonomamente. Arrivai sull’Aguille de Rochefort con un po di delusione. Non era altro che un’elevazione della sconfinata cresta, ma da essa si vedeva tutta la cresta proseguire verso les Jorasses la cui cima sprofondava a sinistra nell’immane e tetra parete nord. Mi fermai un’istante ben sapendo che dovevo percorrere lo stesso tragitto. La corda mi facilitò il compito ed arrivai presto alla lama vertiginosa. Ormai sapevo come affrontarla e la passai senza pensarci proprio nel momento in cui una cordata si apprestava a traversarla nel senso opposto. La guida, non so in quale lingua, dava imperiosi consigli e controllava insistentemente gli ancoraggi e le imbragature dei clienti che evidentemente non erano particolarmente esperti. Non lo invidiai e li salutai nel mio perfetto dialetto aquilano, sicuro di non essere compreso, ma sui monti tutti ci si capisce. Perché solo lassù l’uomo si sforza di capire il suo simile?  La luce del pomeriggio aveva cambiato il paesaggio del ritorno e fu come continuare su una cresta sconosciuta.  Le ombre nette tagliavano come coltelli le cornici e il sole sembrava dividere la vita dalla morte. Dalla val Ferret salivano nuvole dense come fumi infernali che il sole rendeva fiammeggianti solo quando superavano la cresta. Allora tutto sembrava ribollire come in un calderone stregato, ma il sole alla mia destra respingeva i tentativi delle nubi di invadere le creste illuminate. Io camminavo nel confine tra l’Ade e l’Olimpo  fino a quando comparve il Dente sopra di me come un gigantesco Titano.
Mi attardai per attendere che gli ultimi stanchi raggi di sole allungassero le ombre sul ghiacciaio che allora prese forma e vita, dopo che per tutto il giorno il sole alto nel cielo aveva appiattito ogni forma. Ora, sul pianeggiante ghiacciaio, mi sembrava camminare in tre dimensioni. Accelerai il passo per paura di perdere la  funivia, non sapendo l’orario dell’ultima corsa e ben presto mi ritrovai tra una folla chiassosa di giapponesi in attesa di scendere a Courmayeur.
 Ripartimmo la prima domenica d’agosto e proprio quando ci trovavamo a Bologna, la radio ci dette la notizia che in quel momento c’era stata la strage.

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