sabato 17 marzo 2012

PRIMI PASSI TRA LE NUVOLE



(Primi passi tra le nuvole. 1965 - Sulle rocce de "Le Torri" di m. Soffiavento-Scoppito)

Il rinvenimento di questa foto mi ha portato alla memoria la "prima" de "Le torri". ("Le turri"). Queste sono quattro formazioni rocciose di monte Soffiavento, il monte che sovrasta Scoppito. Tre delle "Torri" sono piccoli affioramenti rocciosi, ma la "Torre" di sn ha una certa validità.

E' alta forse 50 e più m, composta di roccia molto compatta. Li era la nostra meta. Il progetto di salirla ci balenò nella mente anni prima. Il problema era  prima di tutto procurarci l'attrezzatura e quindi di trovare la strada per raggiungerla. Il nonno aveva le mucche e tali poveri animali dovevano tirare un carro enorme. Il fieno che si trasportava sul carro era legato da un "funacchio" di canapa enorme e pesantissimo. Prendemmo "in prestito" il "funacchio" e ci legammo in tre, io e i miei due cugini e ci avviammo impavidi, camminando su un pendio praticamente ridicolo. In realtà avevamo deciso di legarci solo per poter dividere il peso della corda che, oltre ad essere pesante, era rigissima a causa dello stabio e della polvere. Dopo una mezz'oretta, sotto le prime rocce, decidemmo che il percorso poteve essere pericoloso e tornammo indietro. Per non accettare la sconfitta, in una riunione, fu deciso che si doveva alzare il tiro. Allora quale miglior modo che arrivare alle torri di notte? La nostra zia Emma era la custode della chiesa di S.Maria. Di nascosto trafugammo la chiave e prendemmo "in prestito" un numero imprecisato di candele. Con dei bastoni e  pezze di stoffa imbevute di cera costruimmo delle torce e partimmo ancora una volta. Questa volta tutto andò a buon fine ed arrivammo sotto la "parete". Al ritorno ancora i vecchi erano seduti alla piazza e commentavano chi potevano essere quei pazzi che stavano " mettenno focu alle turri...". A questo punto il più era fatto, conoscevamo il percorso e potevamo partire per la "parete". Ancora una volta prendemmo " in prestito" una macchina fotografica ( forse di zio Elia?) per poter immortalate l'impresa ed andammo...........
Quasi 50 anni  fa andare sui monti comportava una grande capacità di adattamento nella attrezzatura, un po perché non esisteva gran che nei negozi, un po perché era oltremodo difficile far “scucire” ai genitori qualche scudo per comperare corde, chiodi, ramponi etc, che peraltro erano molto costosi per quei tempi. Noi, poveri studenti, dovevamo arrangiarci.  Tanto per essere  chiari queste erano alcune nostre prerogative: i guanti e i calzettoni erano fatti con la lana di pecora non sgrassata, direttamente dalle nostre mamme le quali avevano ereditato tale capacità dalle nostre nonne che erano maestre.(vedre la foto che segue).  La camicia era rigorosamente di flanella a quadri, comperata in piazza duomo al mercato, portata sopra una maglietta intima sempre di lana non sgrassata che presupponeva una pelle di acciaio, specialmente quando si indossava lo zaino. I pantaloni erano sempre il più vecchio e pesante paio di pantaloni cittadini che veniva immolato tagliandolo sotto il ginocchio.  La stoffa avanzata delle gambe serviva egregiamente per confezionare le toppe per il sedere e due strisciette da applicare alla gamba servivano per sorreggere il martello. Il cappello spesso era fatto dalla lana avanzata del maglione cosicchè almeno era intonato ad esso. Giacche a vento nemmeno a parlarne. I più fortunati possedevano giacche di cotone che venivano impermeabilizzate con grasso di cervo. Dal canto mio ero orgoglioso della mia giacca che avevo trovato in un giardino di Roma, lasciata su una panchina e poco dignitosamente trafugata.  Era di colore scuro, aveva un cappuccio che chiudeva tutto il viso, cosi come solo vent’anni dopo si è visto nelle giacche tecniche per alpinismo. La stoffa era di cotone pesante, una sorta di cordura perfettamente impermeabile al vento e un po meno all’acqua. Non aveva certamente imbottitura interna, ma la cosa era indifferente per noi che ambivamo solo di andare sui monti, vestiti o ignudi. Il Signore dona ed il Signore toglie, perché lasciai la giacca sulla via Jan alla terza  torre del Sella nel 1974, anno in cui acquistai, di conseguenza, la mia prima giacca a vento. Anche in città, in inverno, di sera, neve o pioggia, il mio vestito era il solo maglione confezionato da mia madre.  Ricordo che quando nevicava ( e allora nevicava molto), tenevamo sempre in mano una palla di neve per abituare le mani al freddo.  Questa attrezzatura tecnica era standard, estiva ed invernale.  L’unica cosa che cambiava era il cappello di lana che veniva sostituito con un fazzoletto da naso bianco portato alla maniera dei mietitori (il bandana è venuto 30 anni dopo). Mi chiederete se ciò risale ai tempi di Wuimper  o Carrel, ma vi assicuro che è tutto vero. In realtà non tutti erano così. C’era chi aveva una attrezzatura sicuramente più tecnica e dignitosa, ma noi avevamo 16 anni e non potevamo nella maniera più assoluta dire alle nostre famiglie che andavamo ad arrampicare, ci avrebbero quantomeno linciati, figuriamoci se potevamo sperare di ricevere qualche obolo.

Questo per quanto riguarda il vestiario, ora passiamo all’attrezzatura tecnica.

(Un agguerrito rocciatore del 1970 armato fino ai denti,  alla partenza per una parete. Notate le staffe appese alla cintola e i moschettoni di acciaio)
I chiodi costavano 300-500 lire l’uno: un’enormità . Tutto si risolve con un po di inventiva. I cantieri venivano scrupolosamente razziati dai chiodi enormi che servivano a costruire le impalcature in legno. Erano chiodi lunghi da 15 ai 20 cm, a sezione quadrata. Il problema era proprio questo. La sezione quadrata non si addiceva a dei chiodi da montagna.  Il passo successivo era quello di andare alla "rivera" (il ponte sul fiume Aterno dove passa la ferrovia) e mettere sui binari i chiodi quando passavano le locomotive a vapore, con il risultato di avere disponibili immediatamente dei perfetti chiodi da montagna. Un anello di ferro recuperato alla discarica di un noto fabbro aquilano, anche lui montanaro, completava il tutto. I moschettoni venivano acquistati alla ferramenta di via Sassa, fornita anche di carburo per illuminare la via, ma anche per far saltare in aria le scatole di pomodori.  Quei moschettoni erano utilizzate per legare le bestie, ma per noi erano sufficienti. Le vere  corde da montagna avevano un costo proibitivo anche per una persona abbiente, figuriamoci per noi. A piazza Duomo, però, c’era un ambulante che vendeva delle corde sintetiche a metraggio, di colore bianco, utilizzate in agricoltura, che facevano perfettamente al caso nostro. Con un diametro di 12-14 mm le giudicavamo abbastanza robuste, anche perché avevamo fatto degli esperimenti con dei copertoni di autocarro riempiti di brecciolino e lanciati dai precipizi.  Quando le corde si rovinavano venivano tagliate in spezzoni ed utilizzate per costruire le imbragature.
Le tristi note arrivavano con i ramponi che purtroppo bisognava necessariamente comperare.  I Grivel erano gli unici ed i migliori. Non erano regolabili e venivano adattati a fuoco agli scarponi, aiutati in ciò dal solito, disponibile fabbro. Non era un grosso problema perchè tanto gli scarponi posseduti erano un solo paio, estivi ed invernali, per sciare e per arrampicare e venivano negli anni risuolati dal calzolaio. Per arrampicare, ad onor del vero, io utilizzavo, per la roccia del Corno Piccolo, le scarpette da tennis Superga, quelle che ora sono tornate di moda, fatte di pezza, bianche, con la suola liscia. L’unica accortezza era di inumidirle, quando non venivano utilizzate, con dell’olio che ammorbidiva la suola, rendendole estremamente aderenti alla roccia. Ricordo il dito alluce perennemente sporgente dalla scarpa e gli improperi dei vecchi alpinisti del Cai per i quali l’unico modo di arrampicare era quello di utilizzare gli scarponi con la suola rigida. Certo, le scarpette da arrampicata di oggi erano ancora molto lontane, ma il principio era lo stesso !   Avevo costruito le ghette con un impermeabile  rotto e bucato, ma  erano perfettamente funzionali tanto che hanno fatto bella mostra di se fino a qualche anno fa.  Io possedevo lo zaino di guerra di mio padre che non era altro che un grosso sacco di tela con due spallacci di cuoio duro ed incartapecorito dal tempo e che veniva riempito con il più svariato materiale anche per escursioni di poco conto. Il risultato era un peso enorme, che unito alla maglietta intima di lana grossa di pecora, era capace di procurare sulle spalle una sorta di stigmate tipo padre Pio.
(Sulla vetta di Corno Grande nel gennaio 1972.Notate la piccozza, con segnale giallo-rosso, presa in prestito dal CAI che consegnava il sabato corde,piccozze e ramponi a noi rocciatori squattrinati) 
Vi lascio immaginare come poteva essere risolto il problema della piccozza. Io, molto più smaliziato, avevo comperato i manici delle zappe, sempre a piazza Duomo e vi avevo fissato appunto una sorta di bidente, da una parte a punta e dall’altra a pala, quasi una vera piccozza. I vecchi alpinisti del Cai, purtroppo molti ormai deceduti, ci ricordano così.  Nel 1974, al centenario della Sezione di l’Aquila, accompagnai alpinisti di altre città, su vie di roccia, ancora con molta di questa attrezzatura senza preoccuparmi minimamente dello zaino che ondeggiava sulle spalle quando arrampicavo o dei calzettoni arrotolati sugli scarponi. Nello zaino c’era sempre una quantità enorme di cibo, quasi per sedare una fame atavica.  Non esistevano cibi liofilizzati, ma esistevano i panini, i quali venivano meticolosamente schifati. Non era cibo per gli dei! Noi avevamo sempre posto, nello zaino, per un testo di sagnette ammassate e per un fiasco di vino, di quelli di vetro impagliato e chiuso con il tappo di sughero. In estate, non si sa come, miracolosamente entrava nello zaino anche un cocomero del diametro minimo di 30-40 cm. Vi chiederete come mai “alpinisti “(tra virgolette) così giovani, portavano il vino. Nessun alpinista che si chiami tale poteva andare sui monti senza un buon fiasco di vino e noi non potevamo smentire questa tradizione. Così equipaggiati partivamo entusiasti e macinavamo tutte le vie di I e di II grado esistenti sul Gran Sasso, sia in condizioni estive che invernali.  Poi, con il gruppo che si assottigliava nel tempo, passammo al III e IV grado.  Il V ed il VI fanno parte di un’altra epoca, quando potemmo comperare ben altra attrezzatura ed eravamo cresciuti, non solo come età, ma questa è un’altra storia, senza interesse.


(In artificiale con le staffe. 1974)

In una bella giornata di giugno di un anno della fine degli anni 60 ci ritrovammo cinque di noi a piazza Duomo per andare su Corno Grande, via direttissima, ancora perfettamente innevata perché in quegli anni di neve ne faceva veramente molta. Per noi i ramponi non erano ancora stati inventati. La funivia era un optional costoso ed i valloni ci servivano per scaldare i muscoli. La partenza comunque era sempre un dramma per via del peso. Le corde pesavano un’enormità e portavamo con noi sempre un numero spropositati di chiodi, tanto non ci costavano nulla. Tutto ciò unito a cocomeri, sagnette e fiaschi di vino, praticamente camminavamo con il viso a terra.
Al rifugio Duca degli Abruzzi la situazione cambiava perché molto del peso era stato trangugiato o per meglio dire, divorato. Inoltre i muscoli giovani, ormai caldi, ci portavano su come uno sklift. Trovammo la prima neve a nord, su campo pericoli e sulle creste del Duca. Era neve dura e, senza ramponi e con le “piccozze” autocostruite non fu facile arrivare indenni alla sella di Monte Aquila.  Ma la fortuna aiuta gli audaci e, come Dio volle, arrivammo tutti alla sella. Il cielo si copriva lentamente di nubi basse e fredde, ma non ci preoccupavamo perché, quasi per una maledizione, erano rare le volte che non pioveva o faceva bufera. Il gruppo procedeva di buon passo. Ecco il Sassone. Ecco l’inizio della direttissima, ecco il canalone che si impenna. Superiamo la strettoia quando la nebbia ormai fitta ci permetteva appena di vedere il compagno davanti a noi.  Poi un grido soffocato. Marco (non è il vero nome per rispetto alla privacy) perde un gradino e parte nell’abisso evitando di portare con se tre di noi.  Si sente gridare nella nebbia. Poi un silenzio irreale. La neve e la nebbia attutiscono i suoni, ma non si sente nulla. Noi, paralizzati, non avemmo il coraggio di chiamare, per paura di non avere risposta. Eravamo fermi sul nostro posto, ammutoliti dalla tragedia. Nessuno allora aveva mai pensato ad un evento simile. Cominciai a scendere per primo, essendo in quel momento ultimo della fila. Avevo le gambe di legno e la gola secca, non mi usciva una parola e dovetti fare una sforzo colossale per iniziare la discesa, la quale in ogni caso non fu facile con la neve durissima, senza ramponi e senza una vera piccozza. Poi improvvisamente mi sciolsi ed iniziai a scendere sempre più velocemente lasciandomi dietro i miei compagni. Gridai, chiamai, ma nessuno mi rispose. Non potevo crederci, Marco, proprio lui, morto. Mentre scendevo notai sulla neve delle chiazze rosse, che iniziavano su di un sasso sporgente.  Scendendo diventavano più evidenti fino a trasformarsi in una striscia continua.  Ormai fui certo, Marco era morto, la direttissima era tutta macchiata del suo sangue. Gridai agli altri di scendere in fretta perché avevo paura di essere io ad arrivare per primo, a scoprire Marco maciullato dalle rocce. La nebbia si era un po diradata e mi permetteva di vedere a 30-40 m. Eccolo li, fermo quasi alla base del canalone, dentro campo Pericoli, inerte, immobile. Chiamai, urlai, gridai e corsi sciando sugli scarponi. Sentii un’imprecazione, poi una chiara bestemmia. Ma come? Marco era vivo? Arrivai trafelato, ma Marco non rispondeva alle mie domande. Come stai? Ti sei fatto male? Puoi camminare?. Solo imprecazioni e parolacce. Del resto era giusto essere arrabbiato con il destino ed il fato. Possibile che l’unica pietra della direttissima doveva colpire lo zaino e rompere la preziosa bottiglia di lambrusco comperata con una colletta, facendo disperdere tutto il prezioso nettare sulla neve della Direttissima? ……Tutto si risolse in una…… SPLENDIDA GRANITA!!!!


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